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giovedì 24 aprile 2014

Storia del cinema palestinese (3) Haifa, di Masharawi, con Mohamed Bakri


Questa è Haifa, o Jaffa, la città vera. Il titolo del film è invece il nomiglnolo del protagonista, il folle del villaggio 




di Roberto Silvestri 


Haifa, di Rachid Masharawi, con Mohammad Bakri, Ahmad Abu Sal'oum, Hiam Abbas. Palestina 1996


Mohammad Bakri è "Haifa"

I Turchi costruirono su queste terre solo moschee. Gli inglesi prigioni, e gli israeliani carceri ancora più grandi. Ora noi palestinesi, finalmente, riusciremo a costruirvi anche giardini?" E' la domanda, un po' retorica, un po'disincantata, un po' legittima, che ci viene da un film altrettanto retorico, disincantato e legittimo, girato nella brulla e assolata striscia di Gaza.



Baracche, negozietti "sempre in sciopero", carcasse di autobus, case provvisorie, zie antichissime che hanno i nipoti sparsi nel mondo ("è lontano il Canada?"), tutti coloro che, cacciati lì da Haifa, o Jaffa o come diavolo la chiamavano gli inglesi nel '48, sono parcheggiati nel loro nuovo "stato", affamato o meno a seconda delle lunatiche aperture di frontiera di Israele. Quel fatto ancora brucia. Qualcuno dice nel film: "la pace ci sarà solo quando Israele ci restituirà tutte le nostre case, tutte le nostre terre". E anche chi non è un fanatico della proprietà privata trova del vero in tutto questo...


Mohammad Bakri in "Haifa"
Gaza è terra che aspira all'indipendenza e alla libertà. Che vuole non solo bandiera, slogan "maschi" come direbbe Pizzul, e polizia di Al Fatah, ma possibilità di sviluppo economico e sociale per donne e uomini, eguaglianza e rispetto reciproco di qua e di là dei confini. Il vero problema che Peres e Arafat avevano il dovere di risolvere. Per travolgere fanatici, propri o altrui, senza usare una sola bomba, dal basso di un autobus o dall'alto di un aereo.




Hiam Abbas
Finanziato dall'olandese Argus Film, Rashid Masharawi, allora 34 anni, palestinese di Gaza, documentarista al secondo lungometraggio "fiction", racconta in Haifa gli avvenimenti che hanno portato alla storica stretta di mano tra Arafat e Rabin, attraverso un apologo poetico/politico ben fotografato dall'olandese Edwin Verstegen, ma troppo ben congegnato e non sempre "libero", come se l'immaginazione fosse spiata, controllata. Pellicola circospetta, attenta a non urtare la sensibilità dei vertici politici, non delle persone del popolo, anche quando radiografa il disorientamento palestinese nella magnifica scena finale del doppio corteo, gioioso e funebre, dove si mescolano sia la maggioranza che appoggia Arafat, sia la minoranza, più giovane e "idealista", più irriducibilmente nemica di ogni patto con Gerusalemme (che urla: "Al Quods deve essere la capitale della Palestina!", dove Al Quods significa, in arabo, Gerusalemme), che seguirà Hamas.


Rashid Masharawi
Mentre i bombardieri di Tel Aviv si meravigliano tuttora dell'eco internazionale dopo le loro recenti geometriche prodezze ("in fondo abbiamo seppellito sotto le bombe solo degli arabi, no?" e sottindendono "mica esseri umani", almeno così ci raccontano i giornali), anche i fanatici di Allah non scherzano e deridendo la loro religione assoldano ragazzini lobotomizzati dalla Causa e pronti a "fare il loro dovere di patrioti fino in fondo e senza chiedersi il perché", in nome di quella mistica della disciplina che scagionerebbe Priebke da ogni responsabilità.


Rashid Masharawi
Attraverso il personaggio di Haifa (come al solito perfetto, non una smorfia di troppo, Mohammad Bakri, lo ricordate in (Hanna K?), il folle del villaggio, che solo può permettersi di dire tutta la verità, Masharawi cerca di andare al di là dei luoghi comuni, delle prese di posizione ufficiali di Arafat e Hamas, ma la minestra narrativa è un po' stantia. Retate, carcere, bambini e bambine che non ci stanno alle regole degli adulti (si sente la lezione salutare di Michel Khleifi), il supporter di Arafat che è un po' imbroglione e, quando è onesto, finisce in carrozzella, perché, con quella politica, si va avanti a stento e solo se spinti...


Rashid Masharawi
Ma il personaggio peggiore è Hiam Abbas, la grande attrice di L'ospite inatteso e Il giardino dei limoni, nel ruolo di una mammina ansiosa e spoliticizzata del protagonista, una donna insopportabile che prende in giro il marito davanti al televisore, in quello storico giorno della "pace", e che cerca smaniosamente di sposare il figlio per distrarlo dalla lotta armata: irritante e ridicola se solo si paragona al livello di scontro militare sostenuto dalle donne scite nel sud del Libano e alla loro scienza della dinamite (vedi Fleur d'adjonc, di Mia Masri e Jean Chamoun), un bel misto di culinaria e balistica che trasforma le nostrane Thelma e Louise in gioconde casalinghe in ferie. Ma se bisogna riportare la donna in casa e sottomessa Masharawi esegue gli ordini...

Storia del cinema palestinese (2). Rachid Musharawi e Ticket to Jerusalem




di Roberto Silvestri



 di Roberto Silvestri

TICKET TO JERUSALEM
Rashid Masharawi. Palestina 2002

Il cinema è l'arma più forte e meno «fanatica» di resistenza. La cultura come potenza di fuoco, val più di una strage di «nemici» architettata dal kamikaze in estasi. Bomba atomica spirituale di immane potenza, oltretutto, nessun osservatore dell'Onu la scova né disinnesca. Ma lì dove non si mangia, a West Bank, Gaza e dintorni...dove non si può lavorare né circolare né commerciare, dove casa le requisiscono o le sbriciolano coi bulldozer, che senso ha proiettare film, passare lunghe ore al check-point della stella di David per raggiungere sopravvissuti e sperduti «centri culturali» e far vedere vecchi cartoon di Praga o commedie arabe rigate e saltanti, a un nugolo di bimbi vocianti e adulti terrorizzati dal coprifuoco?

Il regista palestinese Rashid Masharawi
Eppure ha senso. L'autorità palestinese non diventerà mai autonomia palestinese, senza mettere la cultura (antitesi del nazionalismo fanatico) al posto di comando. Senza imporre la legittimità delle proprie immagini (delle proprie case, olio, acqua...) al mondo come mezzo e non fine dello sviluppo. Prima che confini, dogane, porti e aereoporti funzionino e che il commercio possa partire, infatti l'idea di una Palestina in 3D ce l'hanno data - altro che «arabi iconoclasti» - film «sconfinati», «opere aperte» dal punto di vista politico, sessuale, etico e religioso. Pareva Ida Lupino come sdegno femminista invece era La memoria fertile (1980) di Michel Khleifi, che poi fece Nozze in Galilea ('86) e Cantico delle pietre ('90), ma vive a Bruxelles. E tra New York e Parigi è attivo Elia Suleiman, il palestinese dal design più moderno, umorista nero come Hitchcock.

Rashid Masharawi, che mandò Haifa a Cannes nel `95, vive invece nella striscia di Gaza e a lui si deve nel `93 Curfew, il primo «lungo» girato in Palestina da un palestinese che vive lì. Ed è proprio suo questo film da non perdere (distribuisce il Luce), Ticket to Jerusalem (Biglietto per Gerusalemme). Una scandalosa commedia, e non un `macho' pamphlet, sull'orrore palestinese. Racconta l'odissea di un proiezionista di mezza età, Jaber. Che vive in un campo profughi presso Ramallah e che, dopo aver portato film in tutto i territori della West Bank, trascinandosi spesso il proiettore sulle spalle o in carriola (per il «no» dei soldati) si mette in testa che deve proiettare nel cuore stesso della vecchia Gerusalemme, a AlQods. E tutti lo trattano da folle, perfino il suo complice nel rintracciar le vecchie e rare lampade del 35millimetri. Tranne la moglie, Sana, infermiera della mezza luna rossa, che vede l'orrore sanguinante della guerra tutti i giorni sulle sue mani e preferirebbe in realtà la diserzione, tornare in Libano, rinunciare alla lotta. Ma Jaber ha una passione folle e un disegno così preciso, ascetico e trascinante in mente (Sana a un tratto pensa si tratti di una relazione clandestina) da convincere perfino una anziana donna terrorizzata dagli ebrei ortodossi che gli hanno occupato la casa con metodi coloniali a «rioccupare» il suo ex cortile, chiamare i vicini e imporre la proiezione del film, che è anche impudente.

Yilmaz Guney, il geniale regista turco che vinse Cannes con Yol , iniziò proprio proiettando nei villaggi curdi, film commerciali, soprattutto hollywoodiani. Imparò che è il pubblico che dà swing e forza alle immagini che lo meritano. È la moltitudine della sala l'arma invincibile. E Guney (morto nell'84) sarebbe commosso nel vedere questo bel film (nonostante il doppiaggio) su un rivoluzionario errante e iningabbiabile come lui, col proiettore sulla bagnarola, in giro per «non luoghi». Un film spiritualmente alla Guney. Sulla testardaggine nel portare avanti un progetto di liberazione, personale o collettivo, contro tutti e tutto. Più che un marzulliano «i sogni ci aiutano a vivere meglio» Ticket to Jerusalem , in particolare nella scena finale, coi truci e antipatici coloni askhenaziti in alto, perplessi e incazzati, e sotto la platea di festanti filmgoer è una forte provocazione «fantasy». Che rovescia, spazialmente e concettualmente, la passeggiata sulla moschea («in alto» rispetto al Muro del pianto) del grasso amico dei razzisti di Pretoria. Masharawi risponde con una provocazione artistica non indolore. Infatti Sharon cercò di proibire proprio in quei tempi il film di Mohamed Bakri sullo scempio di Jenin e del suo prestigioso centro culturale (fondato da una comunista ebrea d'Israele) mentre i suoi animatori, definiti dai media «feroci killer di Hamas», sono chirurgicamente assassinati con una caccia che bin Laden se la sogna. Ticket to Jerusalem esce poco dopo l'altro palestinese Intervento divino di Elia Suleiman, il Keaton mediterraneo che in Francia è un hit ma la Warner Bros Italia ha nascosto subito. Speriamo non sia la sorte diTicket to Jerusalem, prodotto dalla benemerita società olandese Argus Film con il Centro Cinematografico Palestinese, solo apparentemente meno acido come umorismo e sorprendente narrativamente. In realtà commuove e sconcerta come quel capitolo sulla Grande Depressione di John Schlesinger jr. in cui lo storico statunitense resta basito nel riportare che i proletari affamati d'America dilapidavano al cinema l'intero sussidio di disoccupazione.

mercoledì 23 aprile 2014

Cos'è il cinema palestinese? Per i nostri media nulla, non esiste. A Lecce si dimostrerà il contrario. Per esempio che 'La memoria fertile' di Michel Khleifi ha inventato il cinema moderno




Roberto Silvestri 


dedicato al fedayn Hany Jawhariyya, cineasta e martire della causa palestinese, ucciso nel 1976 mentre filmava i combattimenti a Ain Toura, Libano

Dopo la Turchia di Yilmaz Guney, anni fa, e  la 'settimana' dedicata nel 2013 al cinema israeliano, il XV Festival del Cinema Europeo di Lecce che si svolgerà nella Multisala Massimo dal 28 aprile al 3 maggio, ha voluto proporre una retrospettiva 'avulsa', ma molto attesa, dedicata ai filmakers, cugini/nemici, palestinesi. Una rassegna composta da 12 tra lungometraggi e mediometraggi, e da 6 corti, per lo più di produzione recente.

Jean Luc Godard "Ici et ailleurs" (1969-1976) 
Un gesto di solidarietà, che coincide fortuitamente con la riconciliazione politica tra Hamas e Al Fatah, ma anche il riconoscimento della vitalità e ricchezza di una  cinematografia che di problemi logistici e finanziari ne ha davvero non pochi ma che si è imposta all'attenzione mondiale con opere di alto livello artistico scritte e dirette da raffinati cineasti come Mai Masri, Michel Khleifi, Mohamed Bakri e Elia Suleiman, fino a contendere al fotofinish l'Oscar 2014 per il miglior film straniero a La Grande Bellezza, con Omar di Hany Abu Assad. 
Sarebbe stato ovviamente perfetto sovrapporre i due omaggi in una stessa edizione israelo-palestinese. Ma non sempre il cinema riesce, come vorrebbe, ad anticipare la storia e a distrarre/ipnotizzare la mediocrità politica, il mederatismo conservatore di entrambi gli schieramenti.   

Jean Luc Godard "Ici et ailleurs"
È importante però che si diffonda, come a Lecce, una sensibilità culturale più sgrammaticata, slabbrata e allargata, che ridefinisca il concetto di cinema e di identità europea

Hani Abu Assad il regista di "Omar"
Si parla, nel catalogo del festival, ironicamente di "Mare Nostrum", e lo sguardo dell'Europa è da anni istituzionalmente già allargato al Mediterraneo "arabo". Ma, in fondo, bisogna essere più coraggiosi ancora: Angola, Brasile, Mozambico e Capo Verde, parlano portoghese, e Lisbona non è anche un piccolo grande avamposto lusofono dentro l'Europa? L'Europa fertile si muove. Non è ferma, né è più chiusa da muri mentali e materiali (come Israele). Quando l'imperialismo è culturale (il sogno di Pessoa) non è più imperialismo, ma voglia di conoscenza, guerra all'ignoranza, comprensione dell'altro. 

Mai Masri 
Meno geografia e finanza, e più cultura e rispetto, ci vorrebbe per fabbricare davvero, almeno nell'utopia cinema, un continente nuovo che divenga punto di riferimento aperto e transculturale. Democratico nella sostanza e non solo nella forma. E a questo servono i festival. A prefigurare il futuro, ad anticipare la storia. 

Mai Masri 
Lecce, così ricca di storia mediterranea, e anche transatlantica (con quei tucani brasileri che spuntano dalle facciate barocche delle sue chiese uniche e con il nome stesso della città, così ispanico, che tanto ricorda la fragranza degli eccellenti fiordilatte) apre dunque il suo sguardo su una nazione medio-orientale  "dimenticata", equivocata, mal raccontata e spesso cancellata dai grandi network televisivi e dalla stampa internazionale (nell'Atlante del cinema mondiale della editore francese Livre de Poche, il cinema palestinese merita solo 20 righe): la Palestina, che dopo la Nakhba, dopo la distruzione armata di tanti villaggi e uliveti, e la deviazione maligna delle sue falde acquifere, dopo decenni di occupazione militare delle sue terre migliori, non è ancora uno Stato libero e indipendente e neppure una espressione geografica troppo chiara.
Ma non credete che cinema palestinese significa solo immaginario di guerra, parole d'ordine militanti e personaggi 'a una sola dimensione', come nei documentari di propaganda politica degli anni 70. Della Palestina aggredita e sventrata hanno raccontato negli anni 50 e 60 soprattutto cineasti stranieri, da Jean Luc Godard a Luigi Pirelli, da Tawfiq Salah a  Johan van der Keuken, da Chahine a El Maleh, da Danielle Dubroux a Jean Narboni, dal Newsreel americano a Pino Adriano, da Lionel Rogosin all'israeliana Edna Politi, da Koji Wakamatsu a Masao Adachi, George Roy Hil e Costa Gavras, Sivan e Gitai...   Anche se va dato onore alla 'prima generazione' dei cineasti rivoluzionari, quella di Ghaleb Chaath (e del libanese  Borhane Alaouie, autore del fondamentale Kafr Kassem, 1974), di aver inventato con pochi mezzi tutto, dagli archivi fotografici ai laboratori di sviluppo e stampa, ai primi testi teorici, e di non aver avuto il tempo per congegnare operazioni manichee o schierate pedissequamente con questa o con quella fazione. Come diceva Jean Luis Comolli vedere un film sulla tragedia palestinese è vedere un film speciale. "Adoperarsi per i deboli - che stanno in effetti da entrambi i lati dello schermo - questo impegno è il lavoro del cinema". Tra i pionieri del cinema palestinese c'è anche una donna, la documentarista Sulafa Jaddallah, che dal 1969 ha partecipato a parecchi film  collettivi, al fianco di Hany Jawhariyya, tra i quali No alla soluzione disfattista, Con tutta la mia anima e con tutto il mio sangue (1971) e Kahfr Chuba (1974). E non si possono dimenticare i nomi di Mustafa Abu Ali, Mohamed Salah Kayali, Abdelwahab Hindi, Ismail Chammout (è suo il celebre Taal el Zataar, del 1976) e Yousef Chaabane, autore di uno dei pochi film a soggetto della storia libica, La strada, che niente ha a che fare con la Palestina.

La memoria fertile di Michel Khleifi (1980)
Anzi si deve dire che proprio questa Palestina in cerca di Stato (meglio se multietnico, tollerante e multireligioso, come era una volta) con i suoi esuli e gli eccidi e le provocazioni geografiche subite, proprio grazie a un film della 'seconda generazione', La memoria fertile,  diretto nel 1980 da un suo pioniere, Michel Khleifi, ha insegnato a tutto il mondo uno stile cinematografico più onesto,  umano, quotidiano e immaginativo per descrivere le contraddizioni profonde di una società, in questo caso la Cisgiordania e Gaza, occupati da Israele nel ’67. 

Michel Khleifi, costretto all'esilio, ha studiato a Bruxelles, formando una piccola casa di produzione indipendente assieme ai tunisini Mahmoud Ben Mahmoud e Neija Ben Mabrouk. E ha diretto La Memoria Fertile nel 1980. E' il film più vecchio ma anche il più importante dell'intera rassegna, e lo rivedremo a Lecce (credo che solo Fuori Orario lo abbia presentato in Italia, a parte il festival di Perugia di Mohamed Challouf, e quello di Milano del Coe) presentato dal suo autore. Non è solo un lavoro sulla condizione femminile nella società palestinese e il primo film girato interamente all’interno della “linea verde”, cioè nei territori occupati da Israele. E' una pietra miliare del cinema moderno.  Un racconto, girato in prima persona singolare maschile, dotato di autenticità e credibilità speciale. Perché il regista si mette in gioco. Ci mette la faccia. Parla di se stesso, non spiega dall'alto in basso la linea politica del suo partito o della sua fazione, ma racconta la sua vita, testimonia sulla sua piccola storia, compresa la sua sessualità di maschio palestinese che ha non poche responsabilità nella sconfitta del suo popolo e nel trattamento delle sue donne. Quello che vuole è comunicare emozioni senza sfruttarle, inventare uno spettatore critico, non un ipnotizzato ripetitore di slogan. Prima che diventassero così potenti, già Khleifi combatteva contro ogni forma di fondamentalismo, di populismo e di machismo. Le malattie infantili e senili che stanno portando all'impotenza la causa palestinese, ormai nelle mani di gruppi di fondamentalisti islamici.   

La rassegna leccese, oltre a sei cortometraggi, comprende altri 11 importanti lungometraggi a soggetto o documentari, diretti da cineasti e cineaste, realizzati soprattutto negli ultimi anni, a dimostrazione della sua vitalità e della varietà di tematiche e di poetiche.  

- Il matrimonio di Rana di Hany Abu Assad (2002), alias Jerusalem, Another Day. Girato a Jerusalem Est (parte araba), a Ramallah e in molti checkpoints lungo il percorso tra le due città. E' l'odissea della giovane Rana, che ama Khalil, regista teatrale, e deve trovare un sistema per sfuggire all'aut aut del padre autoritario: o seguirlo in Egitto o sposare un buon partito...
Hany Aby-Assad, di Nazareth, studi in Olanda, ex ingegnere aeronautico, ha girato documentari e corti dagli anni 90, ma Cannes lo ha consacrato con questo film girato durante la seconda Intifida. Ford Transit (2003) e Paradise Now (2005) hanno preceduto Omar, premio speciale della giuria a Un Certain Regard di Cannes 2013, che poi ha sfidato Sorrentino.

Melograni e Mirra di Nejwa Najjar (2008), direttore della fotografia l'italiana Valentina Caniglia. Muro, sbarre, filo spinato nella storia d'amore tra Kamar, ballerina di Gerusalemme, e Zaid, che cura gli uliveti della famiglia nella Westbank nelle terre confiscate all'arrivo dei coloni ebrei. Kamar che vive coi suoceri mentre Zaid è in carcere, conosce Kais, danzatore arrivato dal Libano, dove la famiglia si era rifiugiata nel ’48...E' l'esordio (premi a San Sebastian e Friburgo) di Najwa Najjar, cresciuta in Giordania, laurea in scienze politiche ed economiche negli Usa, dove ha fatto un master in film e video produzione. Dal 1999 ha firmato i documentari Na’im and Wadee (’99), A Boy called Mohammad, Jewel of Oblivion (2001), Yasmine’s Song (2006).   Eyes of a Thief (coprodotto da Palestina, Algeria, Islanda e Francia), sostenuto da Sundance Script Lab, Dubai Film Connection e Jordan Film Fund, è il suo secondo lungo. Vive a Ramallah. Uno dei suoi corti è nel programma

- La sete di  Tawfiq Abu Wael (2004). Atash racconta la vita isolata dal mondo di Abu Shukri e della sua famiglia che in una valle sperduta raccolgono carbon fossile. Solo il padre-padrone e il figlio hanno contatto con il “mondo esterno”. Quando Abu Shukri decide di poertare in casa l'acqua potabile Un giorno Abu Shukri decide di canalizzare una sorgente vicina, per portare così l’acqua potabile a casa l'equilibrio si spezza e riemergono i rimossi del passato.
Tawfik Abu Wael nasce nel 1976 a Umm El-Fahem, la seconda città palestinese in Israele, situata sulla “green line”- cioè i confini d’Israele prima della guerra del ’67. Studia cinema a Tel Aviv e insegna drammaturgia alla scuola Hassan Arafe a Jaffa. Sei documentari e corti, tra cui Diary of a male whore premiato in diversi festival prima di esordire nel lungo con Atash.

- Frontiere dei sogni e delle paure di Mai Masri (2001), con le musiche di Anouar Brahim. La vita di due ragazze 
palestinesi, Mona, che vive a Shatila, Beirut, e Manar a Dheisha, campo di rifugiati presso Betlemme, che comunicano tra loro attraverso internet. 

Originaria di Nablus (Palestina), Mai Masri, una delle più note cineaste a livello internazionale, è cresciuta cinematograficamente negli Stati Uniti. Con Jean Chamoun ha fondato la Noor Production e ha diretto alcuni capolavori del documentarismo palestinese, come Children of Fire (1990), Fleur d'ajoncChildren of Shatila (1998), e 33 Days (2007).



- Questo non è vivere di Alla Arasougly (2001). 
Il mediometraggio Hai Mish Eishi è sulla vita in una stato di guerra permanente. Sono intervistate 8 donne palestinesi che rischiano di essere abbattute ogni giorno da un missile 'mirato', eppure reagiscono alla paura con coraggio e senza perdere la propria dignità e identità. 
Alia Arasougly, è sociologa della cultura, teorica di cinema, produttrice e regista. Ha lavorato in veste di Consulente per i Media per il programma di sviluppo delle Nazione Unite in Palestina. Il film è stato presentato in anteprima mondiale al Festival Internazionale del Cinema delle Donne di Torino. Attualmente dirige il Film Festival delle Donne di Shashat in Palestina.

- Jenin Jenin di Mohamed Bakri (2002). Uno dei più celebri film della nuova onda palestinese, se non altro perché è stata al centro di un caso giudiziario e di un tentativo di censura. Il documentario ha vinto il festival di Cartagine nel 2002.Il montaggio è di Leandro Pantanella e il produttore è Iyad Taher Samoudi. Durante l’“Operazione Defensive Shield” nel aprile 2002 l’Idf (l’esercito Israeliano) ha invaso Jenin sigillandone il campo, per non far uscire la popolazione stremata e non far entrare la stampa, né le organizzazioni dei Diritti Umani, né Amnesty International e neanche l’Onu che denunciava “crimini contro l ‘umanità”. Il campo è stato raso al suolo. Il famoso attore e cineasta palestinese Mohamed Bakri è stato tra i primi di entrare nella Jenin distrutta – per raccogliere le testimonianza degli abitanti. Ne esce un documentario – senza commento – di fortissimo impatto. “Una testimonianza di dignità e forza umana” come lo definisce Ali Abunimah fondatore di Electronic Intifada. Bakri è stato accusato di aver danneggiato con il film l’immagine dell’Idf. Sono statai chiesti tagli all'opera. Nato in Galilea nel 1953, Mohamed Bakri è diventato l’ icona del cinema palestinese. Esordì come attore nel cinema (viene dal teatro!) in Hanna K. di Costa Gavras (1983), seguito da Oltre le sbarre (1984) di Uri Barabash. Nel ’85 ha lavorato con Amos Gitai, e nel ’91 con Eran Riklis. Il primo ruolo in un film palestinese in Il racconto dei tre diamanti di Michel Khleifi (’95). È stato poi protagonista di Haifa (’95) di Rachid Masharawi e Via Lattea di Ali Nassar (’97) - seguono tanti altri, anche italiani come Private di Saverio Costanzo e La masseria delle allodole dei Fratelli Taviani. Come regista esordisce nel ’98 con 1948 sulla Nakba, la catastrofe della cacciata dei Palestinesi dalla propria terra. Dopo Jenin Jenin, Da quando te ne sei andato (2006).

- Il sale di questo male di Annemarie Jacir (2008). Milh Hadha Al-Bahir è interpretato dalla poetessa Suheir Hammad, cresciuta a Brooklyn. Soraya, dopo la morte del padre, cerca le sue radici a Ramallah e di recuperare i risparmi dei nonni, cacciati nel ’48, congelati in una locale banca britannica. Non ci riesce e decide di restare perché quel denaro le appartiene. Per mantenersi, lavora in un ristorante, dove incontra Emad (Saleh Bakri), un uomo che al contrario della protagonista vuole emigrare. I due elaborano un piano ai danni della banca che ha come conseguenza una fuga che li porterà a godere di momenti di libertà e d’incanto. Annemarie Jacir Nasce nel 1972 in Arabia Saudita da genitori di Betlemme. Studia cinema alla Columbia University di New York. Dal 1994 lavora come regista independente. Dal 2002 è impegnata nel progetto “Dream of a Nation”. I suoi films (A Post -Oslo History,1998 / 200 Years of American Ideology, 2000 / An Explanation, 2005 / Like 20 Impossibles, 2003, ed altri sono stati proiettati, tra altri, anche ai Festival di Cannes, Venezia, Locarno. Il suo ultimo film Lama Shuftuk (Da quando ti ho visto) era al Forum della Berlinale 2013.

- Il muro di ferro di Mohammed Alatar (2006). L'occupazione coloniale mai cessata e il Muro analizzati da militanti e studiosi palestinesi e israeliani politici. "Terra in cambio di Pace", pilastro della soluzione che prevede due stati per due popoli è stata annullata proprio dalla crescente presenza di insediamenti e del Muro sono la prova dell’impossibilità di una tale soluzione. Ma la "pulizia etnica" è iniziata negli anni ’20... Mohammed Alatar che nel 2007 ha diretto Jerusalem-East Side Story, filmaker e attivista dei Diritti Civili proveniente da Jenin (nel Westbank, in Palestina), è stato direttore di “Palestinians for Peace and Democracy”. Nel 2002 è stato candidato al “Martin-Luther-King Award for Humanity”. Nel 2006 ha partecipato alla Selezione Ufficiale dell’Al Jazeera Film &TV Festival con The Iron Wall.

Elia Suleiman in Il tempo che rimane (2009)
- Il tempo che rimane di Elia Suleiman (2009), terza parte della trilogia ispirata ai diari del padre, dopo Cronaca di una sparizione (1996) e Intervento Divino (2002). Attraverso la saga della sua famiglia a Nazareth, la storia della Palestina, dalla capitolazione della città, firmata dal nonno, ad oggi, attraversando la resistenza (il padre), il trasferimento in Giordania di parte della famiglia, l'educazione scolastica di Elia in una scuola israeliana, la morte del padre, l'esilio americano di Elia, la malattia della madre il ritorno a casa,  in un mondo ormai irriconoscibile. 
Elia Suleiman è nato nel 1960 a Nazareth e dal1982 è in Europa e poi a New York dove è ricercatore presso l’”Institute for Middle East Peace and Development”. Introduzione alla fine di un argomento (1981) è il suo strepitoso video di montaggio sulla rappresentazione dell’arabo nei media americani, ripreso nell'episodio di La Guerra del Golfo… e dopo ? (1996). Cronaca di una sparizione è a Venezia. Il secondo lungometraggio Intervento Divino vince il premio della giuria a Cannes nel 2002. Ha girato un film assieme al dissidente israeliano Amos Gitai.

Un biglietto per Gerusalemme di Rashid Masharawi (2002). Jaber, cinefilo,  e Sana, infermiera, vivono e si amano in un campo profughi vicino a Ramallah. Jaber porta i film in giro per i villaggi più isolati, ma gli asfissiani check points gli bloccano le proiezioni. Decide allora di trasformare in cinema scuola della vecchia Gerusalemme... Metà finzione, metà documentario il film è uno sguardo ravvicinato sulla vita quotidiana nella Palestina Occupata e sulle forme di resistenza civile inventate dalla popolazione più creativa. Nato nel 1962 in un campo profughi, Masharawi dagli anni ’80 e ’90 ne descrive le dure condizioni di vita. Travel Document (1986) parla dell'impossibilità di ottenere un documento di viaggio riconosciuto sul piano internazionale. Nel 1996 ha fondato il Cinema Production & Distribution Center a Ramallah per incentivare la produzione di films nella Westbank occupata dal ’67.Vive a Ramallah. Coopera come consigliere audio-visivo con la Arafat Foundation.

Donna in lotta di Buthina Canaan Khoury (2004). Un documentario femmminista drastico su quattro ex-detenute politiche che raccontano la vita dentro le carceri israeliane, e soprattutto fuori. Ormai sottratte al ruolo di sorelle, madri e mogli, visto che erano diventate leader politiche, uscite dal carcere raccontano la difficoltà di vivere dietro altre sbarre, quelle del pregiudizio, del sessismo, del maschilismo, visto che, finita la propaganda, non sono più considerate persone autonome, ma entità subordinate. Buthina Canaan Khoury, di Betlemme, ha studiato regia e fotografia al MassArt di Boston. Ha lavorato per anni come camerawoman, producer e coordinatrice di eventi speciali in Medio Oriente par la Ebu (European Broadcasting Union). Nel 2000 ha fondato la casa di produzione Majd a Ramallah, con la quale ha prodotto Women in Struggle (2004), che ha avuto riconoscimenti in molti festival, poi Maria’s Grotto sull’uxuricidio (Silver Muhr al Dubai IFF nel 2007) e Taste the Revolution (2008).


  



Mai Masri 
Fu sempre Michel Khleifi con il lungometraggio a soggetto Nozze in Galilea (1987), grande successo di Cannes, sulle umilianti condizioni di vita sotto occupazione militare, a ottenere il primo film trionfo critico (Premio Fipresci) e ad arrivare al pubblico internazionale, attirando investimenti  stranieri (molti dei film presentati sono coprodotti dalla Francia, dagli Stati Uniti, dall'Olanda, Germania, Emirati Arabi, Spagna, Belgio...), aderendo al cosidetto terzo cinema, né hollywoodiano né autoriale all'europea, ma di sperimentazione sull'immagine elaborata da una moltitudine in lotta, da un pensiero collettivo, che contesti l'art pour l'art e anche la "proprietà privata" del prodotto artistico, sia esso del produttore come dell'artista. Mai Masri, Rashid Masharawi, Hani Abu Assad, Annemarie e Elia Suleiman appartengono a questa seconda generazione, dopo quella dei filmaker militanti. A una “terza generazione”, quella di internet e dei videogames, appartengono invece Tawfik Abu Wael, Nizar Hassan, Abdel Salam Shehade, Najwa Najjar, Alia Arasoughly, Azza el-Hassan e Sobhi al Zubaidi, per nominarne solo alcuni, obbligati a 'distruggere la lezione dei padri' per cercare nuovi tragitti espressivi e trovare altre forme per denunciare, per resistere e per seppellire il nemico anche sotto una valanga di risate.