Mariuccia
Ciotta
Il
divenire altro, l'uscire da sé, la metamorfosi ovidiana che tocca
l'umano e il gender nelle trasformazioni di Antonietta De Lillo,
regista di Il
resto di niente,
apripista di un cinema fuori norma, artefice del film partecipato,
autrice di una doppietta imperdibile, “Metamorfosi napoletane”,
ovvero Il signor
Rotpeter
(37') e Promessi
sposi
(20'). I due titoli viaggiano in questi giorni raccolti in un dvd (CG
Entertainment) e distribuiti nelle sale italiane. Dal 23 marzo
saranno all'Apollo 11 di Roma per una settimana di programmazione, e
poi in giro per l'Italia.
Il
cortometraggio Promessi
sposi
(1993) anticipa l'unione oltre i confini del sesso, quel che oggi è
legge ieri era uno scandalo, e non solo nella provincia di Napoli
dove Antonio e Lina si raccontano, volti emergenti dal buio,
seminascosti perfino a se stessi, svelati dalle parole in forma di
suspense. Il movimento di comparire e sparire dall'ombra segna i
corpi presi nell'atto della mutazione. Quella cicatrice sul braccio
di Antonio ci dice di un'altra creatura passata, qualcosa di estraneo
e terribile. Si vedrà invece come il “mostro” appartiene alla
natura mentre l'artificio è liberatorio. Lui si chiamava Antonia
prima che il bisturi affondasse nella carne, prima di abitare il suo
vero essere. Solo dopo l'operazione la comunità li accoglie,
racconta la coppia, quando i due sessi di ricompongono e sognano di
sposarsi in chiesa e di avere figli. Nel sottosuolo mentale di
Antonio e Lina, però, forse cova la “perversione” di un amore al
di là delle apparenze, e il desiderio del “corpo
senza organi” di Artaud. La regia di De Lillo suggerisce piani
diversi di interpretazione, una storia di morbosa felicità.
Anche Il signor
Rotpeter, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2017,
ci presenta una doppia personalità, un docente universitario, fronte
bassa, corpo peloso, lessico impeccabile, che, come Jerry Lewis in Le
folli notte del dottor Jerryll, si
trasforma in un essere affascinante e indefinibile.
La creatura è uscita
dalle pagine di un racconto di Kafka, Una relazione per
un'Accademia pubblicato su una rivista nel 1917, magicamente
cangiante tra natura selvaggia e coscienza di sé, e si è trasferita
da Praga a Napoli. Appollaiata su una poltrona o a spasso per il
lungomare, l'ex-scimmia, divenuta umanissima, impartisce lezioni sul
senso della vita a cominciare dalle gabbie che ci imprigionano anche
quando crediamo di essere liberi. Già messa in scena a teatro da
Marina Confalone, l'opera si fa monologo grazie all'attrice
napoletana (premiata con il Nastro d'argento) che sa mutare in ogni
istante linguaggio e posture, intervistata da una voce off, quella di
una giornalista invisibile (Aglaia Mora). Grazie al prismatico gioco
della videocamera, il signor Rotpeter racconta di come passò dallo
stato di scimmia a quella di essere umano, ma senza troppa
soddisfazione, e solo perché costretto a trovare “una via
d'uscita” quando lo chiusero in gabbia, obbligato a intrattenere i
suoi carcerieri, villain ubriaconi, imitando le loro smorfie e tic.
Un degrado necessario.
La scimmia filosofa di
Kafka tornerà nel '63 ripresa da Pierre Boulle insieme all'idea di
una regressione umana, conseguenza di egoismo, sopraffazione del più
debole, avidità. De Lillo compone quadri carichi di fascino,
moltiplicando i set, interno-esterno, dietro al signor Rotpeter che
passeggia in mezzo a bancarelle e turisti, quasi un mister Hyde in
pieno sole, tra i giardini di Molosiglio e il bosco di Capodimonte, o
nella casa dall'arredo esotico e nell'aula dell'università
Federico II dove si dondola con il suo gilè a righe,
grugnisce e declama parole alate sul mondo tutto da rifare. Un
mondo che offre ai nuovi nati lo zoo, ovvero il “posto fisso”,
e in alternativa il Varietà, luogo a rischio dove si finge d'essere
qualcun altro. Sempre sognando quell'albero nella foresta e una “via
d'uscita” dalla civiltà degli uomini.
Accolto da lunghi applausi
al Lido, Il signor Rotpeter è
frutto del lavoro di sceneggiatura di Antonietta De Lillo e dello
scrittore-regista Marcello Garofalo, che, tra l'altro, ha diretto
Marina Confalone nel bellissimo Tre donne morali (2006).
Autore del romanzo cult Le calde notti del Dr. Carelli,
edito dall'americana Dark Gem Press e disponibile nell'edizione di
carta e in e-book, Garofalo affila le parole come armi dell'insolito
e del bizzarro. Maestro della metamorfosi, passa dal signor Rotpeter
allo Scheletro vivente, protagonista del libro tempestato di
citazioni cinefile, già un film, dotato perfino dell'odoroma, una
scia di aromi pestilenziali che intrecciano horror e commedia
corrosiva alla Troma, popolato com'è dalla Mummia, Dracula e l'Uomo
lupo. Il gioco della scrittura oscilla tra il camp e il trash, un po'
shakespeariano un po' linguaggio da fumetto, irriverente ed
esilarante nei suoi mille personaggi immersi in una New York piovosa.
Un'esplosione di creatività senza limiti che evoca il viaggio di
Alice nel paese delle meraviglie
(Garofalo è un disneyano doc) dove invece del Bianconiglio, dello
Stregatto e del Brucaliffo si incontrano le domestiche cinesi Cacatua
e Oca Nivale, l'uccello amazzonico Hoatzin e il sosia grasso e
baffuto di Wilford Brimley. La versione inglese del romanzo è del
traduttore e folksinger Matthew Temple dalla voce calda come le notti
del Dr. Carelli, uno zombie tutto ossa, ucciso all'età di 19 anni e
tornato in vita per capovolgere la fama del mostro, fare giustizia e
provocare una rivoluzione. I disegni di Gianluca Garofalo, prove di
una futura graphic-novel, sono fotogrammi dalle luci sciabolanti e
malinconiche come lo Scheletro vivente alla ricerca dell'amore.
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