Mariuccia Ciotta
Le
segnaletiche di Roman Polanski attraversano il thriller che fa da
specchio a Emmanuelle Seigner alias Delphine de Vigan, autrice del
libro D'après une histoire vraie. I diari misteriosi di
L'uomo nell'ombra, le apparizioni terrificanti alla finestra
dell'Inquilino del terzo piano, le mura trasudanti incubi di
Repulsione... E lei, Eva-contro-Eva Green, doppio allucinato
della scrittrice in crisi, usurpatrice e corpo del desiderio.
La
fan e il suo idolo, stesso colore dei capelli, stessi stivaletti,
identiche fino alla dissolvenza l'una nell'altra, come
nell'Inserzione pericolosa di Barbet Schroeder. Insieme al
regista, firma la sceneggiatura Olivier Assayas, già frequentatore
di fantasmi in Personal Shopper, ma qui lo spettro è materico
e soprannaturale allo stesso tempo. Polanski non fa distinzione tra
la realtà e il suo riflesso.
(Cannes 2017 - pubblicato su Filmtv)
di
Roberto Silvestri (*)
Scriveva
più o meno Borges (Le
rovine circolari):
“Non essere una donna: essere la proiezione del sogno di un’altra
donna: che umiliazione incomparabile, che vertigine!”. Due
donne. Poalnski per la prima volta fa un film sulla relazione tra due
donne.
Il
desiderio inconscio, i sogni, il doppio, il fantasma e le suggestioni
notturne e mutanti in generale sono la specialità di Roman
Polanski.
Uno specialista nella regia dell’azione indiretta.
Dunque. Brividi forti e chiari di paura grazie
a Da
una storia vera,
in
Italia ribattezzato Quel
che non so di lei,
perfidi
titoli
spiazzanti
del
nuovo, meraviglioso capolavoro
di Polanski,
che
esordì a
Cannes 70. È più o meno come se Per
favore mordetemi sul collo fosse
ambientato alla Fiera
del libro di Parigi. Inoltre
un film tratto da un romanzo senza che dal romanzo sia tagliato fuori
nessun elemento. Non facile.
Polanski
è ancora capace
di tagliarti in due con un improvviso primo piano d’amore (e, in
seconda battuta, di morte). Non più un vampiro, un demonio, un
inquilino che ti fissa dalla finestra accanto, un mostro che ruba
l’acqua ai messicani, un Blair che massacra un popolo per sbaglio,
però, questa volta. Ma addirittura il primissimo piano della donna
più bella del mondo che entra a forza nella tua vita. A cominciare
dal sogno. Gli occhi prensili di Eva Green, nel ruolo di una donna,
L. o Elle, dall’umorismo
seduttivo irresistibile, colta,
sofisticata, impeccabilmente à la page e scrittrice sicura di sé,
che incontra casualmente e poi si insinua nella vita quotidiana e
diventa l’amica intima del cuore e imprescindibile di una
romanziera di best seller altrui,
Delphine (Emmanuelle
Seigner, la terza moglie di Polanski dal 1989 dopo Barbara Lass e la
povera Sharon Tate),
abituata
a raccontare le
storie di qualcun altro,
una
ghost writer,
ma che
si trova nella brutta situazione, già descritta da Billy Wilder in
Giorni
perduti,
di non riuscire più a scrivere O a scrivere meglio. Oltre ad avere
modi nervosi e capelli biondi disordinati. E un amante un po’
distratto e volatile. E una figlia insopportabilmente pilota d’aereo,
altro che insicurezze. La bruna L è proprio l’amica disponibile,
generosa, simpatica, complice come
quella
che si ha a 17 anni. Come il conigliaccio Harvey di Jimmy Stewart.
Ma
non è la sicurezza che attrae Delphine. L al contrario è importante
per il suo lato dark scoperto (che poi è anche nel lato dark coperto
di Delphine: i sensi di colpa per aver utilizzato e strumentalizzato
la vita vera degli altri e ascendere, opportunisticamente, al
successo): “qualcosa di nascosto, di appena percettibile, mi diceva
che L. era una sopravvissuta, che aveva alle spalle un passato
torbido e misterioso, che aveva messo in atto una straordinaria
metamorfosi." Una sopravvissuta, come tutti gli scrittori o le
persone o i cineasti pericolosi (dal 1977 Polanski è ufficialmente
diventato un pericolo pubblico numero 1, anche se la lolita Samantha
Geimer è incolpevole). L. pericolosa come Delphine. Una coppia più
vicina di quanto non sia un rapporto lesbico semplice e dichiarato.
Conservatore
della messa in scena sintatticamente e
grammaticalmente più
che corretta, Polanski, questo
rivoluzionario
dell’immagine lavora
sul non visibile, crea
paesaggi interiori tematicamente perturbanti, simili alla messa in
scena di un atto psicoanalitico, di un transfert nel quale però è
arduo trovare il punto di vista dell’analista. È il regista? E' lo
spettatore? E' il critico?
Da
cui l’imbarazzo di fronte ai suoi film più riusciti. Forse solo un
po’ l’allieva inglese Ramsay sembra seguire gli stessi sentieri
deliranti, fantasmatici, futili, babbei (da beato: da “povero di
spirito”) e schizofrenici. È paradossale però che il nomadismo
fatto persona e cinepresa del regista polacco di Rosemary’s
Baby, L’inquilino del terzo piano e
Chinatown
sia stato fermato negli ultimi tempi, per colpa di leggi
internazionali non consone a uno stato di diritto. Roman non può
mettere piedi fuori dalla Francia o dalla Svizzera, vittima di una
sorta di “sindrome Sofri-Negri” planetaria (non
a caso tutto iniziò nel 1977).
E’
la
perfida vendetta contro chi ci aiuta con le immagini visive e sonore
a capovolgere il mondo. E il suo indagare che inquieta. Da
una storia vera
è
un romanzo del 2015 di Delphine de Vigan, scrittrice francese
cinquantenne pubblicata in Italia da Mondadori, che aveva sfiorato il
premio Goncourt nel 2011 con Niente
si oppone alla notte, biografia
romanzata della vita e del suicidio della madre. Proprio dal successo
di quest’ultimo libro, e da una fiera del libro dove l’autrice lo
presenta con successo, parte sia il nuovo libro (ancora una volta
autobiografico) di de Vigan che il nuovo film di Roman Polanski,
scritto con l’ex critico e collega francese Olivier Assayas,
interpretato oltre che da una Eva Green perfetta sia come spettro
cinematografico sia come proiezione fantasmatica di Delphine, che è
la moglie di Polanski, e
la mamma di due suoi figli.
È
proprio lei che ha voluto il film, colpita da un romanzo in cui
realtà e finzione giocano a nascondino, e dunque perfettamente in
linea (anche se non dritta, curva)
con le ossessioni, i sogni, i fantasmi, insomma la poetica del grande
cineasta polacco. Il
fil, è stato scandalosamente
e masochisticamente tenuto fuori dal concorso di Cannes, solo per
evitare che vincano sotto i
film le solite polemiche che intrigano i bigotti di tutto il mondo.
Il
romanzo è del 2015, proprio lo stesso anno del suicidio di Chantal
Akerman, la regista belga che ha reinventato il tempo
cinematografico, ha creato un sito facebook estremamente sospetto e
ha sempre, costantemente, tragicamente raccontato i suoi rapporti con
la madre sopravvissuta di Auschwitz, imbastendo realtà e finzione
senza preconcetti. Spesso c’è più vita
vera nell’immaginazione
radicale.
Mi piacerebbe che questo film le fosse stato dedicato da Polanski e
Assayas. Anche perché Akerman come Polanski non usava ralenti o
sovrimpressioni per
mettere in scena i
sogni.
Non usava il flou per eliminare il fondo, che nel sogno è opaco. Il
sogno non è solo ciò che si vede ma ciò che si sa. E nulla è
statico nei sogni. Tutto si muove e cambia. E si rischia l’incubo.
E i colori non sono mai vividi…
*
(pubblicato su Alfabeta2)
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