di Roberto Silvestri
Taieb
Louichi è morto qualche giorno fa a 70 anni, e nonostante avesse
passato l’ultima fase della sua vita in carrozzella, dopo un
terrificante incidente automobilistico vvenuto nel 2006 negli Emirati
Arabi Uniti, non aveva mai smesso di pensare e di fare cinema. Già,
Taieb Louichi era un cineasta indipendente. Nel 2012 era stato
omaggiato dal festival di Cartagine perché è stato uno dei primo
cineasti moderni a estremizzare l’interferenza tra l’approccio
documentaristico e la capacità di utilizzare le immense risorse
della finzione per rendere il suo rapporto con il publico più onesto
intellettualmente e più efficace emozionalmente.
Ma
essendo nato in Tunisia, Taieb Louichi non era molto conosciuto e
apprezzato in Italia, visto che noi europei siamo agli antipodi
(mentali) rispetto alle vicinissime terre di Cartagine e di Claudia
Cardinale.
L’ombra
della terra? Layla, ma raison vi dicono niente?
No?
Peccato. Sono due capolavori del cinema mondiale.
Il
festival di Venezia si accorse del secondo e lo invitò al Lido nel
1989. E Mohamed Challouf portò alle pionieristiche Giornale del
cinema africano di Perugia il primo, il lungometraggio d’esordio
del 1982 che era stato già selezionato alla Semaine de la critique
di Cannes. In quella occasione abbiamo conosciuto la simpatia,
l’eleganza, l’arguzia e la cultura di uno dei più lucidi
scrittori e realizzatori di immagini in movimento del mondo. E non
finisce qui la lista dei suoi titoli più importanti: Le cri de
pierre, Mon village,, Ecrans d’Afrique, Le chant de Baye Fall, La
danse du vent, a Rumeur de l’eau, L’enfant du soleil, Noce de
lune, Les gens de l’etincelles, Indomenticabile,
soprattutto per gli appassionati del jazz, Gorée, l’ile
du grand-pere, centro di
smistamento del traffico di schiavi per 4 secoli. E detour di Luichi
rispetto a molti colleghi maghrebini, ovviamente si sensibilità
panaraba ma difficilmente di identica tensione panafricana.
E
abbiamo compreso meglio quel che scriveva il critico tunisino Khémais
Khayati in Cinémas Arabes:
la particolare originalità e unicità, geografica e storica, del
cinema tunisino nasce dalla interferenza e dalla contaminazione tra
“orizzontalità” panaraba e verticalità europea, tra una
contemporanea presenza di forti elementi culturali progressisti
occidentali (non solo francesi, non solo italiani) e orientali, e
dunque dalla capacità di esprimere forti critiche centripete e
centrifughe: alle società arabo-musulmana e alla nuova borghesia
africana per l’autoritarismo, il passatismo (soprattutto al
fondamentalismo wahabita del Golfo) e la negazione strutturale
dell’individualità e dell’autovalorizzazione, sia maschile che
femminile. E al neocolonialismo dell’Europa che impedisce con ogni
mezzo necessario il decollo democratico e l’autonomia economica del
Maghreb e del Mashreq.
L'enfant du solei |
Taieb
Louichi, che abitava nel quartiere di El Menzahv a Tunisi, era nato
il 16 giugno del 1948 a Mareth (Gabes) e si era laureato in
sociologia a Parigi, formandosi poi cinematograficamente prima nei
cine-club tunisini, molto attivi durante gli anni del governo
Burghiba, e poi, sempre a Parigi, alla scuola di Vaugirard. Ha
scritto e diretto dieci cortometraggi di taglio
“etnologico-appassionato” prima di L’ombre de la terre,
due dei quali girati nel suo villaggio. Pasolinianamente la scelta
delle location e degli attori dei suoi film non avevano mai a che
vedere con compromessi di mercato. Si rifiutò per esempio di
scritturare la famosa diva egiziana Chirihan per Layla ma raison,
nonostante il suo forte richiamo
commerciale, perché per quel ruolo era “impensabile l’uso di una
attrice egiziana dal dialetto cairota”. Vediamo queste “convergenze
parallele” anche nella fusione di elementi creativi arabi (la
montatrice e futura regista Moufida Tlatli), il direttore della
fotografia franco cubano Ramon Suarez, già collaboratore di Titon
Alea, e il compositore della colonna sonora, il nostro Egisto Macchi
del gruppo di Nuova Consonanza), già in L’ombre de la
terre che ha nel cast Tahar Ben
Jalloun ed è una sorta di poema sinfonico musicale anti
folkloristico sul deserto, la sua bellezza, il suo respiro, la sua
durezza e su una comunità patriarcale di confine che resiste
inutilmente, minacciata su più fronti - burocrazia, contrabbando,
fragilità economica, malattie incurabili degli animali, esodo in
città e all’estero dei giovani, avvelenamento modernista da mass
media … - alla disintegrazione. La
coproduzione franco-tedesco-olandese ha permesso a Louichi di
mantenere un’onestà e parzialità di sguardo senza doversi
sottoporre alla più meticolosa censura statale (anche se tra i
produttori c’è anche l’organismo cinematografico pubblico
tunisino, la Satpec). Ciò che più ha colpito la critica nazionale e
internazionale fu l’infinita varietà e mobilità del vivere nel
deserto, la capacità di cogliere il suo respiro, e la distanza
esatta, il pudore di sguardo, senza disprezzo e senza compassione,
con il quale Louichi ha catturato la bellezza di corpi, rapporti,
riti, gesti anche quotidiani, come le mani e gli oggetti, le mani e
gli stumenti del divertimento, la musica, il corpo che balla, e del
telaio. Sono i gendarmi e la televisione, arrivata d’un tratto, a
mancare di pudore, nell’afferrare a forza foto d’identità o
nell’imporre il format della foto d’identità, solo mezzibusti,
come unica, scandalosa definizione dell’essere umano. In Layla
ma Raison, dal romanzo sulla
follia d’amore dell’orientalista francese Andé Miquel scritto
nel 1983 che ebbe molto successo dopo una serie di adattamenti
teatrali. Un testo e una leggenda che inquietatarono anche Eric
Clapton, che ne parla a lungo nel documentario appena uscito nelle
sale italiane, a proposito della sua passione per la moglie di George
Harrison.
Il trio creativo Tlatli, Suarez e Macchi viene riconfermato e anche la formula coproduttiva, con Cuba e Algeria, che permette maggiore libertà al regista. Il romanzo è tratto da una antica fiaba di una tribù nomade dell’Arabia del VII secolo, sulla libertà e sulla follia del potere. Il deserto, ancora, con i suoi miraggi, le sue tempeste di sabbia, la sua bellezza tragica e anche la sua lirica tetraggine, è al centro del mondo poetico di Louichi.
Quais,
rampollo di una ricca famiglia è innamorato di Layla, e riamato, e
sfida le leggi del califfato cantando e poi urlando pubblicamente il
suo amore per la più bella ragazza della comunità e per il suo
corpo. Condannato a morte, per trasgressione all’atavico codice di
comportamento, mentre la ragazza viene sposata a forza, deperisce e
muore, Quais diventa il folle puro (majnoun)
e vagando nel deserto entra nella leggenda, come principe degli
innamorati e dei poeti. Aragon fece di Quais il simbolo stesso della
libertà spagnola, durante la guerra civile. “Piuttosto la morte
che lo scandalo!” avvicina Quais a Romeo, a Tristano, anche se
questa volta i genitori sarebbero d’accordo per le nozze se solo
Quais non sbriciolasse l’etichetta, introducendo il virus romantico
dell’individualità nel corpus comunitario terrorizzato. La novità
cinematografica è nel ritmo, un crescendo senza fine, come una
batteria impazzita, interrotta solo dalla morte del majnoun.
Taieb Louichi dopo l'incidente |
Il
critico e regista irlandese Mark Cousin ce l’ha messa tutta nella
sua recentissima Storia del cinema (Utet, 31 euro) per
rintracciare, ovunque nel mondo, i film che hanno rivoluzionato il
nostro piacere schermico. Il volumone è tutto un susseguirsi di
innovatori, e la lettura è davvero avvincente e autorevole, però
cade proprio sulla Tunisia. Gli sono sfuggiti, almeno nella prima
edizione, cineasti sorprendenti per flusso narrativo, stile e
invenzioni di linguaggio: Nacer Khemir, Mahmoud Ben Mahmoud, le
Nouveau Theatre, Nouri Bouzid e Taieb Louichi. Ma glie è sfuggita
l’eccentrica eccezione culturale del cineasta tunisino. Sono 900 i
film di cui parla. Non gli si può chiedere di parlare di tutto. Ma
che Abdellatif Ben Ammar, Ferid Boughedir e Moufida Tlatli chiudano
il discorso sul cinema di Tunisi è un po’ troppo superficiale.
Soprattutto per lo spazio che viene dato alla cinematografia egiziana
che certo è molto più potente industrialmente di quella tunisina,
ma che, a parte Chahine e Tewfiq Salah, è rimasta a uno stadio per
lo più del racconto “radiofonico” illustrato, vista la
difficoltà di elaborare una teoria e una pratica visuale che non
metta i cineasti del Nilo in difficoltà con le potenti autorità
religiose del Cairo. Comunque, nonostante gli sforzi, da
incoraggiare, di Cousin l’Africa è ancora hic sunt leones
anche per i più volenterosi tra di noi, visto che nello stesso
volume uno dei padri del cinema africano, Med Hondo, autore di
classici come Sarraounia, viene considerato burkinabé invece
che mauritano. A meno che non sia una arguta parodia di Pontecorvo
che in Queimada fa
parlare lo spagnolo in una
immaginaria colonia portoghesi delle Antille. Dove ci
sono africani, schiavi o liberi, si perde la bussola.
Dunque
Taieb Louichi era un intellettuale di cultura araba, ma, ovviamente,
molto fiero anche delle sue radici fenicie, prearabe, come i romani
che sono, rizomaticamente, indocili alle sole radici cristiane.
Era
però anche amico di Valentino Parlato, e non solo perché Valentino
era nato in Libia e un po’ di saggezza levantina l’aveva
ereditata. Ma anche per la sua arguzia e il suo umorismo volteriano.
E perché era un attento assimilatore delle ricerche formali
mondiali, alle elaborazioni d’immagine (sonora e visiva) più
complesse e rivoluzionarie. Accoppiava una sofisticata conoscenza
della cultura europea e francese in particolare ai testi classici
andalusi, cioé a quel tesoro “preilluminista” d’epoca Averroé
e Avicenna che regalò al mondo il sapere greco sepolto per volontà
del fondamentalismo cristiani del XII e XIII secolo (ricordate il
Destino di Yussef Chahine?). Da questi tesori Louichi sapeva
distillare non solo poemi romantici di straordinaria modernità
(come Layla) , ma novello Chawki, ci raccontava di una
fierezza e dignità araba capace di amore e di contribuire alla
conquista della libertà universale. Non solo nordica.
ps.
il Sessantotto è nato nelle scuole contro i baroni fascistoidi:
il sistema didattico era fuori dal mondo e non ci raccontava il
mondo, ma solo il punto di vista razzista e colonialista
dell’Occidente. Libri di testo micidiali come piombo. Gli effetti
si vedono ancora oggi. Perfino un sessantottino come Mieli che fa
storia è rimasto vittima di quegli insegnamenti e ce la racconta
ancora come se fosse Montanelli leggermente restaurato. Una serie di
testi utili per la nostra igiene mentale, come i saggi di David
Rodney, C.L.R. James o Geroge Padmore non hanno mai circolato da noi,
anche se nel nord Europa e negli Stati Uniti sono diventati punti di
riferimento dei Cultural Studies. Ma, 50 anni dopo il 68 non
possiamo che sperare nell’arrivo di un 68.2. Ecco che allora alla
morte di Louichi, di Zemmouri, l’umorista algerino che ha
smitizzato per primo la retorica dell’Fln (da sinistra) il sistema
nervos italiano reagirebbe non psicoticamente
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