Un poeta delle parole illumina il poeta delle immagini, Steven Spielberg in The BFG (in Italia GGG, Il Grande Gigante Gentile, fuori concorso a Cannes 2016 e da poco nelle sale dopo un giro internazionale non trionfale e incompreso). Roald Dahl, autore del libro omonimo, è alle origini dell'ultima sceneggiatura della rimpianta Melissa Mathison. Sulle tracce di E.T., e della grande scrittrice che lo concepì, il regista realizza, come sempre, le sue fantasie infantili, oltre i dinosauri ecco gli orchi dei miti gaelici che mangiano i bambini, feroci come ai tempi on the road di Ulisse raccontato nell'Odissea che, come si sa, non è stato affatto scritto da Omero, ma probabilmente da una raffinata intellettuale trapanese, che nel libro si nasconde dietro il personaggio di Nausicaa, se è vera come è vera la dettagliata analisi filologica dello scrittore britannico Samel Butler.
Con la tecnica della (e)motion picture, Mark Rylance (Oscar per Il ponte delle spie) diventa il gigante buono dalle orecchie a sventola, rapitore benefico di un’orfanella lettrice accanita fino a notte fonda. E' lui il Virgilio di questa Odissea d'epoca Brexit (e si sa Spielberg è tra gli ammiratori più sfegatati della cultura inglese, indimenticabilmente omaggiata in Amistad....). O meglio, in questo caso, di quella irlandese perché ogni volta che si parla di amori squilibrati, in senso fisico, nani e giganti, il pensiero va ai Viaggi di Gulliver di Swift e a Freaks di Tod Browning (cognome irlandese)....
Nella discontinuità stilistica – prima parte notturna e zeppa di gag, seconda luminosa e lirica – il film decolla nelle “distrazioni” narrative, si ferma e fabbrica sogni, come quello di presentarsi a corte da Elisabetta d’Inghilterra, la regina vivente, ma anche incubi, feroci lampi rossi di odio cannibalesco, che ne ricordano altri sui campi di battaglia (Iliade? Salvate il soldato Ryan?), altri di morti in mare (Amistad appunto), bambini che chiedono protezione più che alla regina a Steven Spielberg.
Verso l'8 marzo Donne in rivolta. Ripensando all'ultimo festival di Cannes. Loute; I, Daniel Blake; Toni Erdman; Peterson; Julieta…. i titoli dei film in competizione erano tutti nomi di persone qualunque, di gente del popolo, pescatori, venditori ambulanti, falegnami, autisti di autobus pubblici, manager ma burattini delle multinazionali, carpentieri, mamme (e, come nel sudcoreano Agassi, cameriere, non campioni di tennis) o padri di famiglia disposti a tutto pur di vedere felice la propria bambina o donna o amante, e che reagiscono con una certa originalità agli accidenti della vita. Ritratti, e non di supereroi o di grandi della storia (anche se finalmente Raoul Peck ha presentato a Berlino un Marx giovane), non parole d’ordine o immagini suggestive o direzioni di marcia da indicare (come la redazione del Manifesto del partito comunista visto che fare Il Capitale. Film ci voleva Eisenstein).
Anche il road movie American Honey, dolcezza americana,
della inglese Andrea Arnold è l’istantanea di Star, una diciottenne povera e
mulatta che per sopravvivere deve abbandonare casa e lasciarsi andare dietro il
primo amore venuto. Che poi fa parte della conventicola simil-comune sessantottina di neo-hippies con amministratore incorporato che
va in giro per l’America con un camioncino scassatello per vendere
riviste ed enciclopedie porta a porta, innesto che non a tutti piace di arcaici sapori modernisti dentro la contemporaneità
horror postmoderna. Sempre una bambina tra i Giganti. E senza cintura di sicurezza.
E anche Mal de pierre di Nicole Garcia (che difficilmente sarà tradotto in
Italia “colica renale”, perché il gioco di parole con “mal di cuore” da noi non
c’è, anzi difficilmente arriverà da noi), da un romanzone che affonda nella
storia della guerra civile spagnola e della incivile aggressione francese in
Vietnam, sfronda tutto quel non sia ritratto di semplice ragazza di campagna
(Marionne Cotillard).
Come Adele H., Gabrielle è istintivamente incapace di sottostare ai set
mentali imposti dalla subordinazione della donna e dà libero sfogo (ma il corpo
la punisce, con quei dolori ai reni) alla propria soggettività
erotico-pulsionale (tra gli sceneggiatori c’è il critico Jacques Fieschi che ha
scritto le sue cose migliori proprio a proposito del cinema sado-masochista).
Fosse un uomo, Gabrielle sarebbe normale, anzi una personalità forte, invece la
sua ostinazione d’amore, raccontata con la grazia di Mario Camerini, la conduce
nei territori dell’allucinazione (anche acustica) e della follia, dove rischiano
di finire. Per fornuna vengono beffati
gli uomini che tramano contro di loro, dalle due donne anni trenta che si amano
appassionatamente e bunuellescamente (visti gli strumenti erotici che
adoperano) e che dominano il film di Park Chan Wook, uno dei migliori di Cannes
69, Mademoiselle (in coreano Agassi).
Loving |
Deve essere uno dei tanti
film che Larrain non ha visto e se ha visto non ha capito. Sono troppo pochi
gli african-american in Cile. E i comunisti gli hanno liquidati tutti.
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