La regista palestinese Mai Masri |
La vera storia, ambientata negli anni 80 dell'intifada, di Layal (l'attrice Maisa Abd Elhadi), giovane insegnante palestinese di Naplouse, arrestata e condannata a 8 anni per complicità in un crimine dinamitardo non commesso. Il fermo. Il cellulare, inteso come gabbia. L'interrogatorio non proprio di velluto al commissariato. Il processo. I suoi giorni nel carcere israeliano con la tuta blu delle prigioniere politiche terroriste". La timidezza iniziale di Layal.
Il montaggio è serrato, da film d'azione dei corpi e delle anime. Le luci sono buio cella e marrone vomito, come da memoria verista. Ma, un po' come avviene negli interni lugubri e tristi di un film di Pedro Costa, la bellezza con la quale i detenuti di solito illuminano le sbarre e i chiavistelli, i buglioli e i letti a castello, è sempre commuovente. Mani che fuoriescono dalle gabbie fanno tanto Cocteau e gli horror di José Mojica Marins.
Ovvio. La sopraffazione e le offese delle detenute comuni israeliane vigliacche. Le guardione sono dalla loro. L'ora d'aria. Che ritma l'insopportabile non passare mai del tempo. L'avvocato (una donna ebrea) che cerca disperatamente e inutilmente di proteggere la sua cliente. Le prime reazioni unghiute. La diffidenza delle compagne palestinesi "dure e pure". Le prime amicizie. Layal si scopre incinta. Che fare? Layal decide di tenere il figlio come gesto di resistenza oltranzista. Il figlio nasce in carcere e il marito che l'aveva spinta alla delazione opportunista scappa in Canada perché non può aspettare 8 anni... Lei lo lascia. Il conflitto con le autorità del carcere si aggrava. Layal, spostata in una cella solo araba, salva una detenuta israeliana, sua becera nemica, che sta per morire di overdose.
Lo sciopero della fame e delle cucine (già, cucinavano le palestinesi...) in solidarietà con le lotte esterne e l'Intifida. La comunicazione clandestina con il braccio maschile. La rivolta..... La vera violenza e i sadismi micro e macro del carcere sono soprattutto suggeriti, vagano nel nostro fuori campo. Non c'è bisogno di calcare la mano con immagini forti. Per esempio. L'infermeria è quasi decente. I medici quasi normali. Inoltre arriva addirittura dalla Storia che conosciamo l'happy end. In cambio della liberazione di 6 soldati israeliani catturati in Libano vengono rilasciati in anticipo 600 detenuti politic palestinesi.
Se conosciamo (ma solo noi che siamo stati così privilegiati da poter frequentare festival fuori schema come Cartagine e Fespaco) qualcosa di profondo, partigiano e mai manicheo, sul conflitto israelo-palestinese lo dobbiamo a lei e a suo marito Jean Chimoun (Tal el Zataar, è suo).
La regista, e anche sceneggiatrice, montatrice, operatrice, total filmmaker metà californiana e metà palesinese Mai Masri, una trentina d'anni di documentarismo neomilitante alle spalle, raccontato per lo più dalla parte dei bambini e degli anziani, i più colpiti dalla guerra, ma anche i più valorosi, ha presentato in questi giorni a Roma il suo magnifico film a soggetto d'esordio, 3000 notti. Non è casuale la scenta del carcere come set (tra l'altro l'edificio è stato trovato in Giordania, un carcere dismesso). Per il suo alto quoziente metaforico. L'autorità palestinese è circondata da mura sempre più alte erette dal paese confinante e debordante. E perché dal 1948 ad oggi un terzo dei palestinesi è finito nelle galere di Tel Aviv. E tuttora sono oltre 7 mila i detenuti. Il 17 aprile prossimo si festeggia proprio il Palestinian Prisoner's Day a Gaza e in Cisgiordania, manifestazione contro il trattamento e le condizioni di detenzione dei detenuti non ebrei, cui sarebbero negate spesso le cure mediche e soprattutto contro la pratica della "detenzione ammministrativa" di sei mesi (rinnovabile) che colpisce presunti nemici dello stato ebraico senza la possibilità di nominare l'avvocato e comunicare con i familiari.
5 anni di lavoro per realizzare 3000 Notti, grazie a una laboriosa coproduzione tra Palestina, Libano, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia, Giordania, Tunisia. Il film è stato Tanit di bronzo al festival di Tunisi del 2016, ed è stato candidato proprio da Amman al premio Oscar 2017 per il miglior film straniero 3000 Layla (che sono proprio le notti passate in cella da Layal) ha già vinto finora 23 premi internazionali, partecipando tra gli altri ai festival prestigiosi di Londra e Valladolid. In Francia è nelle sale dal 4 gennaio scorso.
Ma anche questo film, come la quasi totalità delle opere palestinesi e anche della controcultura israeliana (i film di Mograbi, per esempio), non è ancora stato distribuito nelle sale comuni in Italia. Una proiezione in Francia e una in Italia (addirittura universitaria, a Romatre) sono state annullate per interferenza delle ambasciate israeliane preoccupatissima, soprattutto in occasione della prevista e cancellata seance del Palladium, dalla data in un primo momento annnciata che coincideva con la Bds, la settimana di boicottaggio internazionale di questa Israele e di richiesta di sanzioni contro Nethaniau. Ecco perché si vedrà, soltanto il 6 aprile, questo splendido film. Ed ecco anche perché, nella stessa settimana, e sempre da una Università, questa volta La Sapienza di Roma, è stata tappata la bocca, come un tempo a Luciano Lama, e con metodi non certo più corretti, a Michael Warschawski, colpevole di essere sì israeliano, ma dissidente. Pubblichiamo qui sotto la sua lettera, perché gli universitari di Roma dovrebbero leggerla, discuterla e applicarne lo spirito contro un Rettorato dimentico dei suoi diritti e doveri d'autonomia.
In una intervista a Daniele Barbieri Warschawski spiega: "Dal 2008, da quando la campagna BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) nata nel 2005 ha cominciato a mostrare efficacia, dal punto di vista dell’immagine più che economicamente, in Israele si è aperta una nuova fase. In partnership con il ministro degli affari esteri, Lieberman, è stata messa in piedi una task force per una “strategia difensiva di attacco”! Una strategia basata su propaganda e repressione contro chi critica questo Israele. E’ rivolta contro tutti coloro che chiedono qualche forma di sanzione, non solo la campagna BDS. La novità è che da un anno si è costituito un dipartimento con ampio budget statale che, attraverso una task force, è incaricato di tenere sott’occhio e prendere di mira Stati e istituzioni pubbliche, una vera e propria strategia del governo. Quanto è successo a Roma rientra in questa politica e di solito, penso al caso francese, c’è un collegamento con l’ambasciata israeliana del paese interessato".
Dobbiamo ricordare che il municipio che governa il Pigneto, altrettanto prono a Nethaniau dei rettorati, ha negato la proiezione di due cortometraggi palestinesi e di uno spettacolo teatrale nella stessa settimana, programmati al Nuovo Cinema Aquila, in autogestione "controllata" da mesi. Il Movimento 5 Stelle, che governa il municipio, ha da sempre sbandierato il principio feudale della sudditanza al Capo, ma i suoi elettori non aveva capito che perfino Grillo avesse un capo dopra di sé.
Tornando a Mai Masri (che sarà presente il 6 aprile, ore 18 al Palladium di roma, accorrete). Come nel suo film d'esordio, il documentario sulle anziane libanesi del sud che applicano la loro millenaria scienza culinaria alla fabbricazione perfetta, nei pentoloni sul fioco, di candelotti di nitroglicerina, ma senza alcuna apologia di violenza, solo apologia di difesa, Fleurs d'ajonc, anche qui si rende omaggio al coraggio, alla forza interiore, alla determinazione, diciamo pure all'invulnerabilità da super eroine, di queste donne qualunque palestinesi.
Un film pericoloso, dunque, per fortuna (che ha fatto il tutto esaurito in occasione della anteprima all'Archivio del Movimento Operaio e Democratico di Roma, via Ostienze 106 mercoledì 15 marzo). Tutto il grande cinema lo è. Oltretutto è un appassinante, incalzante, commuovente movie, oltre che un film d'arte e d'impegno politico. Che spezza una lancia... Insomma. Farebbe impazzire di gioia perfino Roger Corman. Che se fosse distributore lo distribuirebbe negli States.
Il film infatti fa parte del ciclo "women in prison", specialità cormaniana proprio come il ciclo "nurse movies", e che a sua volta è la costola femminista del più ampio genere "penitenziario in rivolta" (genere nei quali si sono esibiti solo i grandi: Ylmaz Guney e Hector Babenco, Don Siegel, Paul Fejos e Frances Marion, Robert Aldrich e Jules Dassin, Cinda Fireston...). Ed è stato uno dei filoni nobili della sua New World negli anni tra il 1970 e il 1980 dell'effervescenza politica più antisistemica della storia nordamericana. Movimento, esplosioni, emozioni, sesso, umorismo e forte supremazia simbolica dell'eroina "sotto controllo" e in rivolta ne sono le caratteristiche forti, sintetizzate da Corman già in un suo film del 1956, Swamp Women, Le donne della palude (1956).
Il format si è solidficato nel corso degli anni attraverso i contributi di cineasti come John Cromwell, Jess Franco, Peter Walker (e il suo fondamentale House of Whipcord, 1974, Gb) filone Ilsa compreso, e variazioni giapponesi, ed è ormai molto rigido, quasi da parodia saffica del ferreo regolamento carcerario (e da metafora della civiltà occidentale che sbandiera valori e etica immacolata che non potrebbe proprio permettersi).
La direttrice della galera, diversamente sadica e quasi sempre nera di capelli, e le sue sgherre, altrettanto virago, con poteri discrezionali piuttosto fuori controllo anche se il set è lo stato di diritto, attuano un preciso piano di divisione delle detenute per far scaricare tra di loro le tensioni che sarebbero, in caso contrario, pericolose per il controllo concentrazionario globale. Per esempio: si mettono nella stessa cella studentesse e proletarie. Detenute palesemente innocenti e coatte brutali. Oppure bianche e nere. Si creano così dentro le singole celle situazioni di controllo piramidale, con esplicite forme di repressione violenta (isolamento, celle di rigore, pestaggi, torture) e sottomissione psicologica e sessuale, gestite dalla direzione che fornisce poi armi proprie e improprie (dai favori di ogni tipo ai coltelli e alla droga) ad alcune "detenute chiave", traditrici e spione, affinché tutto sia sotto controllo e proceda per il meglio. Naturalmente niente va come si vorrebbe e la rivolta, l'evasione, la rabbia scatenata contro ingiustizie insopportabili, esplode. Per chiunque sia stato in galera sa che questa volta gli stereotipi sono maledettamente cannibalizzati dalla verità vera.
E visto che Mai Masri ha fatto gli studi di cinema a San Francisco si è certamente ricordata, delocalizzando in Israele, dei gioielli cormaniani: Women in Cage di Gerardo de Leon (Rivelazioni di un evasa da un carcere femminle, 1971); The Big Doll House (Sesso in gabbia, 1971) e The Big Bird Cage (1972) di Jack Hill; Terminal Island (L'isola dei dannati di Stephanie Rothman, 1973); Caged Heath (o Renegade Girls, in Italia Femmine in gabbia, 1974) diretto da Jonathan Demme; Switchblade Sisters (Rabbiosamente femmione, 1975) di Jack Hill.. Si dirà. Mai Masri non può pigiare sul tasto omosessualità, lesbismo, sadismo spinto e umorismo. Sono fuori dai parametri della interpretazione vigente dell'Islam dominante in Palestina. Ma un grande regista come un grande illusionista sa come fare fessi i fanatici e i bigotti di ogni risma. Quelli che esigono che si occupi dei poveri e dei derelitti, dei carcerati e dei sofferenti perché solo così si è dei sant'uomoni o sante donne. Ma se costoso spiegano perché sono poveri e derelitti, prigioniri e sofferenti, ecco che allora sono comunisti....
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