Mariuccia
Ciotta
La verità negata uscirà nelle sale italiane giovedì 17 novembre
Ci
sono film che catalizzano l'energia di cinema e storia come Denial
- La verità negata di Mick Jackson, un legal thriller come
tanti se non fosse seduto sugli scranni del terzo grande processo
contro il nazismo dopo quello di Norimberga e di Eichmann, e se non
fosse un complesso congegno politico, una macchina ammazza-cattivi
senza pistole. Allenamento molto attuale contro la retorica politica
vuota, partita a scacchi fatta di parole inattese che ricorda
l'astuzia giudiziaria del Lincoln di Spielberg.
Ma
c'è chi alla Festa di Roma, dove è stato presentato, sbadiglia con
gli occhi alla ricerca di una svirgolata emotiva, di un'uscita dal
film-tv di cui il regista inglese è un esperto, autore per Hbo e
documentarista, dopo il successo, l'unico, di Guardia del corpo
('92) con Kevin Costner e Whitney Houston.
Nel
1996 David Irving, storico britannico negazionista, intenta causa per
diffamazione a Deborah E. Lipstadt (Rachel Weisz), studiosa della Shoa, autrice del
libro Denyng the Holocaust che lo definisce falsificatore e
manipolatore di fatti e prove con l'intento di dimostrare, a sostegno
della sua fede nazista, l'inesistenza dell'Olocausto.
La
parola va all'avvocato Richard Rampton (Tom Wilkinson) che dispone
del copione di David Hare, drammaturgo britannico pluripremiato a
teatro e al cinema, per gli script tra l'altro di The Hours
su Virginia Woolf e The Reader, vincitore dell'Orso d'oro alla
Berlinale 1985 per la regia e la sceneggiatura di Il mistero di
Wetherby, anche questo un “giallo” investigativo che non
butta però in Law&Order ma in Harold Pinter. Ed è il
meccanismo stesso del processo a farsi cinema seguendo il
“montaggio delle attrazioni” di Eisenstein, rivisto da Pietro
Montani quando ricordava, rileggendone la Teoria del montaggio,
che il “materiale” del cinema non è lo spettacolo, ma lo
spettatore: “il cinema è un genere oratorio” che deve avvincere,
attrarre lo spettatore con tutti i mezzi, e saldare insieme, come fa
un avvocato, ogni dettaglio eterogeneo per giungere a un
“verdetto”... musica, mimica, bellezza. E' l'arte del bel gioco
delle sensazioni ottiche e acustiche, direbbe Kant, più “la realtà
pura e semplice”... La Shoa, appunto, che lo pseudo storico Irving
vuole negare. E che il collegio di difesa rimonta e rimette in forma,
trasformando in cinema, e solo cinema, l'abietto inarcarsi delle
sopracciglia e il tono carnevalesco, esagitato e finto autorevole del
negazionista, che però la cinepresa mai si permette di inquadrare
dall'alto in basso. O la disincarnata e minimalista “ferocia
democratica” dell'esperto avvocato, ma piuttosto misterioso e
“alcoolizzato”, che
tratta l'avversario come un disprezzabile sergente maggiore del
sadismo, mai meritevole di una stretta di mano. E qui la lezione di
Hitchcock e di Nodo alla gola si
fa sentire. Da costituzione d'oggetto a formulazione
d'immagine. Tom Wilkinson (Rampton) e Timothy Spall (Irving) al
termine di questo montaggio verticale fatto
di piani, suoni, silenzi, tonalità di colore e di luci non
avranno più nulla né dell'attore né del personaggio storico, pur
salvaguardando la cocciuta esistenzialità di un fatto di cronaca
vera.
La
suspense applicata ai forni crematori, dunque, nella visione
allucinata tra le nebbia di Auschwitz, misurata a piedi dal difensore
di Deborah E. Lipstadt non per fare una passeggiata della memoria ma
per controbattere colpo suo colpo alla tesi dell'avversario. Il campo
di sterminio – sosteneva Irving – era piuttosto un campo di
lavoro e quei bunker sotterranei antiaerei servivano di riparo agli
ufficiali tedeschi, non erano camere a gas”. Ma i passi
dell'avvocato Rampton misurano 4 km dalle dimore degli ufficiali, le
bombe degli Alleati li avrebbero polverizzati sulla strada.
Inesplicabile menzogna smascherata con il compasso.
L'attualità
del film sta anche nel “politicamente corretto”, che, a sentirlo
nominare, Goebbels avrebbe messo mano alla pistola. I cattivisti,
infatti, in nome della “libertà d'opinione” possono chiedere
impunemente a un sopravvissuto ai campi quanto ha pagato il tatuaggio
numerico sul braccio. Domanda che il negazionista Irving aveva già
rivolto in altri processi a testimoni ebrei, insultati e umiliati, ed
esclusi perciò dalla squadra dei legali dalla scorza dura,
matematici dei sentimenti, in contrasto con la loro assistita
vibrante d'indignazione e che preme per sentire in aula la voce delle
vittime. Chi meglio di un sopravvissuto allo sterminio potrà
dimostrare che ad Auschwitz “il lavoro rende liberi” nei forni
crematori? La vittima, però, non addolcisce il carnefice, anzi lo
eccita, mai piangere davanti alle Schutz-Staffein. E l'avvocato
Rampton, che mai guarda negli occhi il negazionista, scarta la linea
di una difesa emotiva a favore dell'imputata che secondo la
vertiginosa legge britannica dovrà fornire le prove della sua
innocenza. E' lei e non “l'amico di Hitler” a dover dimostrare
davanti al giudice che sei milioni di persone furono eliminate
sistematicamente dai nazisti.
L'esclusione
di una giuria popolare, poco gestibile, è un altro colpo messo a
segno dai legali che solleticano la vanità di Irving, “non vorrà
che una giuria di inesperti confuti i suoi libri?”. Sarà il
magistrato Charles Gray (Alex Jennings) a presiedere il processo in
un crescendo di suspense per una storia di cui si conosce il finale e
che, al di là della regia mainstream, colleziona ritagli di
meraviglia, come quando si attraversano in un vuoto ipnotico i
magazzini di Auschwitz stipati di scarpe e abiti, cenciosi relitti
viventi, immense cataste di fantasmi. O quando l'ispezione tra la
neve indica i quattro segni dei forni crematori dai quali piovevano i
cristalli di Zyklon B, cianuro, per Irving solo ombre sul ghiaccio.
“Niente buchi, niente Olocausto” titolarono i giornali
all'indomani dell'udienza.
E
lo stuolo di attori, icone del cinema britannico, sul palco a
recitare la pièce shakespeariana di David Hare, su dettatura di
Lipstadt, l'americana, che non si inchina davanti al giudice
imparruccato, e apparentemente dubbioso “e se lo storico
negazionista fosse in buona fede?”. Già, come Leni Riefensthal.
Il
film, tratto da Denial: Holocaust History on Trial, il
libro-resoconto della studiosa ebrea, è un'altra traccia di cinema
sulla Shoa, dopo i recenti Il figlio di Saul di Nemes,
Remember di Egoyan, Hanna Arendt di von Trotta, ma va
fuori strada nel riportare a oggi la dinamica di chi nega l'evidenza,
la visione della catastrofe. Non ci sono ombre sulla neve.
Il
processo Irving-Lipstadt iniziò l'11 gennaio 2000, durò 32 giorni e
si concluse l'11 aprile con le 333 pagine redatte dal magistrato,
che condannò il negazionista “mascalzone, razzista, bugiardo”.
Il ricorso in appello fu rifiutato.
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