Mariuccia
Ciotta
Sarà
che il mondo ormai si è disincarnato e i corpi live sono
composti di carne e pixel, certo è che il cinema d'animazione
occupa i primi posti nei programmi degli Studios e del box office
internazionale, ma perlopiù con prodotti ibridi incasellati nel
genere “per famiglie”, cioé spuntati, senza azzardi né
artistici né narrativi. Lontani gli esperimenti Pixar che
sconvolsero lo schermo nel 1995 con Toy Story, adesso John
Lasseter sforna gli odiati (una volta) sequel e piazza al primo posto
nel botteghino Usa 2016 Alla ricerca di Dory, numero 2
sbiadito di Alla ricerca di Nemo con circa 486 milioni dollari
di incasso. Clamorosa l'inversione di marcia: non è più il padre
alla ricerca dell'avventuroso figlio perduto, ma è il figlio
lacrimoso a caccia dei genitori assenti, leit motiv ossessivo in
molte produzioni recenti.
E
c'è ancora chi si chiede con sospetto perché Walt Disney
prediligeva personaggi orfani quando in tutte o quasi le fiabe
classiche, si sa, il bimbo parte per conoscere la paura e per
vincerla. Mentre adesso l'appello e lo sguardo è rivolto ai parenti
in sala, “non lasciate soli i vostri bambini”, come fa la madre
in carriera del francese Le Petit Prince di Mark Osborne
(2015), sostituita per fortuna da un vecchietto lunare e visionario.
O in Cicogne in missione di Nicholas Stoller (Usa, 2016) dove
la macchina fabbrica-bambini si è inceppata e l'happy end consiste
nel rintracciare migliaia di mamme e papà. O in Pets che
sostituisce i ragazzini con petulanti animaletti e i genitori con
“padroncini” da ritrovare a ogni costo perché il divano è
meglio della libertà.
Per
non parlare del vero disastro emotivo e creativo della Disney/Pixar,
Inside Out che permette a chiunque di psicanalizzare i film
d'animazione e indicarne il valore morale e artistico. Quanta
letteratura sulla desolata bambina intenzionata a fuggire da padre e
madre insensibili che si ritrova telecomandata nel cervello da un
branco di sentimenti contrastanti, e rivalutati come la “tristezza”
che farebbe tanto bene ai piccini al pari della“felicità” - si
sa la vita è fatta di alti e bassi - e soprattutto riconduce alla
strada verso casa. Banalità del fiabesco. Animazione rozza,
personaggi piatti, solo gag. Incassi stellari e premio Oscar.
In
questo scenario paludoso, privato del vagabondare fantastico, si
affermano così i cartoni animati del reale. Con poche
eccezioni, il promettente La mia vita da zucchina di Claude
Barras, produzione franco-svizzera, scritto da Céline Sciamma,
l'autrice del sessualmente ambiguo Tomboy,
e di certo non allineata, in uscita il primo dicembre.
E
prima di tutti, sugli schermi italiani in questi giorni, Kubo e
la spada magica, titolo storpiato dall'originale significativo e
poetico Kubo and the Two Strings, le due corde dello
shamisen, strumento musicale giapponese, una specie di liuto che
accompagna il teatro Kabuki. Opera di grande bellezza etico-estetica
che fa dell'antica stop-motion una tecnica futuribile coniugata com'è
con il digitale in modo da rendere fluidi i movimenti dei
“burattini”, fotografati 145.000 volte. E' un film che vanta il
più grande personaggio animato a passo uno, uno scheletro gigante
che ha richiesto 19 mesi di lavoro, un film impossibile da concepire
per una major (compresa la Disney/Pixar), paragonabile alla fabbrica
disneyana delle origini quando, tavola dopo tavola, una schiera di
disegnatori, animatori e inchiostratori plasmava storie e personaggi.
Infatti, a produrre Kubo è la Laika Entertainment di Travis
Knight (figlio del boss della Nike) studio specializzato in
stop-motion e arrivato al suo quarto film, dopo Coraline
(2009), ParaNorman (2012) e Boxtrolls (2014). Un
laboratorio creativo più vicino al lato dark di Walt e a Tim
Burton che ai sedicenti disneyani di oggi.
Un'avanguardia a rischio
dal momento che Kubo and the Two Strings
figura al 60mo posto nella classifica degli incassi di quest'anno
mentre l'insostenibile Pets
è al terzo.
La
figuretta stilizzata del ragazzino giapponese che alla spada magica
preferisce lo shamisen è intarsiato in sfondi dalla purezza
geometrica e attorniata da grandi “caratteristi”, la vecchina
salace, la bimbetta impertinente, l'uomo esultante... tutti ad
ascoltare Kubo, benda da pirata su un occhio, che strimpella in
mezzo alla piazza del paese. A ogni vibrar di corde i suoi fogli
colorati lievitano e modellano samurai, uccelli, mostri che saettano
nell'aria e raccontano storie senza un finale. Origami. Vivi.
Sublime effetto del disegnatore davanti alla creatura uscita dalla
pagina, carta trasformata in esseri viventi, tocco divino che anima
l'inanimato, fa dimenticare la morte e risorgere i morti, lanterne
lucenti affidate al fiume.
I
protagonisti di Kubo hanno tutti una memoria evanescente, non sanno
neanche chi sono veramente, come la scimmia-mamma e lo scarabeo-papà,
perché preferiscono la metamorfosi, dimenticarsi di sé e rinascere.
Kubo è contro la tradizione, contro gli antenati dominanti, contro
suo nonno, il perfido signore della Luna, e le zie-streghe, presenze
spaventose con il viso coperto da una maschera di porcellana bianca.
Loro gli hanno rubato l'occhio, e vogliono anche il secondo, in modo
da impedirgli di vedere nell'altro l'umanità.
Kubo
in viaggio sfida le forze oscure, lo scheletro gigante e i parenti
immortali che gli chiedono di unirsi a loro e lasciare la terra
tormentata e piena di dolore. Ma lui no, affronta perfino un vorace
dragone di luce, alias il nonno crudele che ha scacciato sua figlia
traditrice, innamorata di un umano.
Dal
tono solenne, il film passa alla commedia con dialoghi effervescenti
e situazioni surreali per poi esplodere nella sequenza sottomarina
con i bulbi sbarrati di sguardi ipnotici, sirene-polifemo che
trascinano giù il bambino. E genera stupore con la costruzione
meravigliosa di una grande nave fatta di foglie, altra impresa
titanica della Laika e dei suoi animatori che sui titoli di coda
mostrano mani frenetiche impegnate a muovere le cose come già in
Boxtrolls. Le foglie
gialle chiamate dalla musica di Kubo si assemblano e prendono forma,
anche qui a mimare il lavoro stesso di Travis Knight, una sequenza
che mostra il processo seriale e rimanda a certe silly simphonies
dove la fabbrica di elfi assemblava i giocattoli per Santa Claus.
Kubo
e la spada magica è l'unico tra
tutti a sprigionare l'incanto nell'animare qualcosa che prima non
c'era, i fantasmi delle persone amate e quei vertiginosi passeri
azzurri di carta in gara con un uccello “vero”.
Il
regista chiama a modello Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki.
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