mercoledì 9 dicembre 2015

Emmanuel Levinas contro Emmanuelle Bercot. Mon Roi e quel che sta succedendo in Francia oggi dopo il trionfo del Front National




Roberto Silvestri

Dopo il successo parziale del Front National nelle elezioni regionali di Francia, e le copertine dei quotidiani e dei settimanali transalpine che raffiguravano la biondissima Madame Le Pen come una novella Giovanna d’Arco, soldato della cristianità in armi contro pagani, infedeli e eretici, ci si chiede, analizzando un film che è nei nostril cinema in questi giorni, Mon roi,  cosa c’è questa volta dietro una grande donna di destra, che senza il suo uomo dominante non è nulla. Certo. C’è un papà illustre, come mon roi, anche se è stato messo provvisoriamente da parte perché più impresentabile del boss Trump. C’è lo Spirito della Francia cattolica. Ma io credo che ci sia qualcosa di più. Non l’Europa, che è sostantivo femminile e che andrebbe messa in epoché, secondo la signora col tricolore sbandierato.
C’è l’Idealismo come inguaribile mon roi delle nostre destre, dai Salvini agli Orban. C’è l’Io. C’è il solipsismo che di tanto in tanto riemerge a cancellare ogni vizio cosmopolita. C’è l’incapacità di definire l’altro se non alieno, differenze e anche un po’ pericoloso.

Emmanuelle Bercot in Mon Roi di Maiwenn

Secondo il filosofo fenomenologo Emmanuel Levinas, le cui origini ebraiche certo, secondo i Le Pen, compromettono la sua francesità, scriveva che “l’Io non è né soggetto, né amore attraverso i quali tenderebbe all’essere. Il dialogo non riassume la società, perché non include il terzo. La condizione di un io nel mondo non si definisce né con la sua struttura di soggetto – che pensa il mondo come oggetto – né con la sua struttura d’essere che ama scegliendo un essere ma dimenticando gli altri. L’Io si definisce, a differenza che nell’Idealismo, con la giustizia. Il rapporto tra uomini non va da me a te, o da me al mio alter ego, ma passa attraverso gli altri, l’apparizione degli altri. Io=io dono agli altri”. Tradotto in politica non c’è sinistra senza donare agli altri. Lo ha fatto Roosevelt I e II. Kennedy e Obama. Tradotto in cinema è il grande insegnamento etico che, dalla costituzione Americana, quella che punta alla felicità di tutti, è diventata nel cinema l’individualismo democratico, da Frank Capra a Spielberg, Dante, Zemeckis e Landis. Un quartetto composto dai valori che guidano il comportamento non degli europei ma di tutto il mondo anti fascista. Libertà, eguaglianza, fraternità e giustizia. Invece il cinema francese degli ultimi anni sta emanando cattivo odore e pubblicizzando cattivi umori.
Prediamo Mon Roi.  
     
Louis Garrel in Mon Roi
"Tu, tu. Mio tetto, mio tutto, mio re" canta l'idolo pop uruguagio Elli Mederios in questo emblematico film dei nostril tempi. E’ nelle nostre sale, dopo la prima mondiale a Cannes e l’enigmatico trionfo in Costa Azzurra, il film-Eurocanzone Mon Roi, love story diretta da Maiwenn, genere sentimentale, quello che i registi e le registe transalpine sanno maneggiare con maggiore perizia e sfoggio di nuances - ma qui è più che altro idolatria da matrimonio che non ammette sfumature - e che ha permesso alla attrice e regista Emmanuelle Bercot (nonché collaboratrice alla sceneggiatura di Naiwenn in Polisse che fu a Cannes qualche anno fa e fu miracolosamente fu premiato) di aggiudicarsi ex aequo la Palma d’oro per per migliore sposina del festival.  Inspiegabile, anche se un riconoscimento ex aequo. Ma non va confuso (anche se i maligni lo hanno fatto) con il riconoscimento semiserio assegnato al cane di Le mille e una notte di Miguel Gomes, "miglior animale recitante" del festival.
Eppure Bercot, nel ruolo di una donna autodistruttiva, non smania forse a 360°, e con la gola e con la lingua, guaisce perfino, per essere o tornare ad essere "la più fedele adoratrice del maschio latino"?
Questi problemi d’identità sessuale, di riconquista del genere, più che una epidemia misteriosa da suicidio-omicida che colpisce i ventenni d’ambo i sessi, spiegano l’attrazione fatale di uomini molto barbuti verso il califfato molto fascista. E quella di donne inquiete in cerca di una collocazione più precisa, dentro un burka, e al fianco (e un po’ sotto) dei loro uomini tornati, grazie a dio, definitivamente machi padroni.
Mi sa che per la Bercot, in questa commedia deprimente serissima, "Je suis Charlie" vuol dire, approfittando del doppio senso in francese, "io seguo Charlie", vengo sempre dopo di lui... Se sono rotta dentro mi riaggiusto e ne riconquisterò la tenerezza che so nascondersi dentro la scorza del duro... Inquitante davvero se fosse così.
Il film (del genere rimatrimonio, ma per nulla screwball) è un inspiegabile duetto d'amore e odio, un'odissea di liberazione che dura estenuanti 2 ore e più, dopo una relazione decennale complicata da scenografie coi colori pop sparatissimi e oggettistica kitsch sbandierata ovunque, dentro e fuori gli interni domestici.
L'idea centrale è quella che il super macho smetta a un certo punto di esser solo attratto da donne-manichino, sempre tutte uguali e noiose. E a quel punto una donna che sa giocare di contro balzo e mettere nel sacco un paio di battute spiritose e inaspettate (aiutata da un fratello, Louis Garrel, per la prima volta davvero brillante, quasi lubitschiano) che riescano a sorprenderlo, a scoprirne le zone dark, intime e pornografiche del "sentimento", lo farà suo.
Non troppo originale, vero, questa apologia della donna con le palle che sa sottomettersi?


Così lei, Tony, in un night riadesca nel giorno giusto (letto sull'oroscopo?) un lui, Georgio, Vincent Cassel, che già l'aveva fulminata da studentessa-lavoratrice. Ora è un imprenditore farfallone di effimero successo (ristoratore) e, non lo manda a dire, da sempre un impenitente sciupa femmine. Ma la fa tanto ridere.  Tony e Georgio in effetti sembrano nomi scelti per rendere universale il film, e farlo piacere non solo fuori dalla Francia ma anche dalle coppie gay e lesbiche. Georgia on my mind.... Mon Roi Cassel (piacionissimo, che si compiace di farsi vedere, come al solito, dall'epoca di L'odio non riesce mai a portare se stesso in un viaggio schermico avventuroso e inquietante, fuori dall'ammirazione obbligatoria), il disinvoltone, miracolo, se la sposa. E prende tutti in contropiede. Poi il figlio. E le corna. Scandalo, urla, separazione. Forse un ritorno.. Più probabilmente un suicidio (di lei). Il pubblico dice: approfittane! scappa! scappa!


Il film inizia dalla fine, e poi fa un lungo flashback, con l'incidente di sci che rompe la gamba, malamente a Tony, ricoverata in un centro di riabilitazione dove la ritroveremo nel corso della storia tra le mani sapienti di un fisioterapista. Una paziente in via di guarigione, attorniata da una assistenza di lusso (congratulazioni per il ministero della sanità) e soprattutto da una rosa multiculturale e sorridente di riabilitati, che neanche Benetton.  
Cassel, Maiwenn e Bercot a Cannes 2015
La bionda Bercot, intimamente complice della regista, suo alter ego castano scuro, si è fatta confezionare una partitura rococò (merito anche di Etienne Comar) per sfogare narcisisticamente tutto il suo repertorio di smorfie, gesti di mano e sguardi ululanti, un po' come fa Mag Ryan o Camern Diaz quando producono un film con sé stesse super star.
Il suo personaggio si nasconde dietro il ben dire, ma non riesce mai a catturare una sonorità charming o la postura sexy e impudica di chi sa indagarsi dentro e rappresentare un orginale bersaglio del desiderio. Tony non è una donna problematica a tal punto da giustificare un approccio così  tecnicamente variegato e costantemente sopra le righe. E' una masochista moderata che ha perso la gioia di vivere, da quando il suo uomo, Giorgio l'ha abbandonata, facendole perdere l'equilibrio interno ed esterno. E soprattutto si è fatto pignorare maldestramente un mobile di famiglia a cui teneva profondamente.
Così assistiamo all'ascesa e alla caduta  e alla ricucitura di un personaggio senza essere mai "trascinati dal vento", senza esserne travolti. Piuttosto sfogliamo un saggio da scuola di recitazione. Bercot è manierata nel pianto, nel riso, nell'urlo di disperazione; se la cava così così nei litigi, nella seduzione, nell'amplesso, nell'amore filiale, sfuma lo sbigottimento, accentua la perplessità... come soltanto una professionista da sit-com sa fare, stile Giorgio Albertazzi nella parodia di Carmelo Bene.
Non è, purtroppo, un robot commuovente che cresce tra le mani del dottor Frankenstein. E' Bercot. Al naturale. Rappresenta solo i bordi estremi di un personaggio (non standogli mai "un po' accanto", secondo il saggio metodo brechtiano di Margherità Buy in Mia madre) memorizzato anche nei gesti più improvvisati, sempre conditi con tic e orpelli. Insomma passeggia sullo schermo come su un marciapiede. Diciamola tutta. E' tremendamente, oscenamente disinvolta. O è solo tutta colpa degli anti dolorifici? 


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