Roberto Silvestri
Al Adamson, Dan O’Bannon, George Romero... E adesso perdiamo
anche Tobe Hooper che con Jerry Lewis condivideva la poca passione per i
decenni 80, 90, 2000 e 2010 (che lo confinarono nella produzione seriale
televisiva più narcoptizzata) e la poca passione dei padroni del cinema per
lui.
Hitchcock del gore,
estremista dell’esperienza visiva a 360°
e a grana larga e colori sudici, Hooper divenne celebre per aver
inventato (ma sono 36 le sue regie, l'ultima Dijin, del 2013) uno dei personaggi horror più mitici, il
pazzo della motosega con la maschera di pelle umana di Non aprite quella porta, rispettato, lui e la sua famiglia
degenerata davvero, da un occhio documentaristico che anticipa e sorpassa ogni
cinema del real orrore (Jonathan Demme del Silenzio
degli innocenti gli deve molto).
Insegnò defintivamente, quel film, in parallelo con le
lezioni all’Ecole Normale Superieure di Michel Foucault, che una cosa sono i
rarissimi (perfino in Texas) comportamenti patologici da isolare e curare con
estrema attenzione e un’altra la repressione subita a livello industriale dalle
moltitudini di adolescenti ribelli, trattati da preti, famiglie e società tutta
come mostri prioritari da disciplinare e molto strettamente legare.
Così indimenticabili gli altri affettuosi omaggi ai
teenagers: l’insostenibile Eaten Alive, 1977, con Neville Brand, pazzo e mugugnante
proprietario del motel vicino alla palude
circondato da un famelico coccodrillo bayou che dovrà pur mangiare; il Tunnel dell’orrore (The Funhouse), 1981,
trucchi di Craig Reandon, che è una sorta di corso universitario sul
cinema (era proprio un ex professore
universitario Hooper), capace di abbracciare non solo tutto il patrimonio
storico Universal (che produce) ma anche gli arcipelaghi appena emersi del
brivido, da Phenomena a It’s alive di Larry Cohen. Però a forza
di prendere in contropiede il pubblico dei fan li getta nell’atroce esperienza
della crisi di astinenza. E come esperienza paurosa non è male. E ancora. Il
quasi cronenberghiano Poltergeist che
realizzò nel 1982, anche grazie all’amico Friedkin che lo fece entrare nel giro
grosso, con Spielberg, col quale poi si azzuffò, per divergenze artistiche e
con un budget di lusso. Film che ha comunque provocato una profonda modifica
nel design dei televisori e anticipato l’incenzione di cellulari e pc, perché
se restavano così i piccoli schermi, inquietanti come in quel film, nessuno li
avrebbe più comprati. Lifeforce (Space Vampires), 1985, con
l’aliena succhiasangue Mathilde May (prodotto dalla Cannon che lo voleva
popolare di ogni effetto pauroso: zombies cannibali, apocalissi, fenomeni e
sesso paranormali…) e il remake da
William Cameron Menzies Invaders from
Mars (1986) scritto da Dan O’Bannon,
scomparso nel 2009.
Tobe Hooper |
Ma, si dice, Hooper è il regista di un film solo. Il cui
remake con Dennis Hopper del 1986 non dispiace (due teschi e mezzo, Terminator tre e mezzo) all’Horror
Handbook di Chas Balun e al critico nordamericano Chris Gilpin, soprattutto
per il lavoro di Tom Savini al make up e la decisione Cannon di non assumere nessuno del vecchio cast, a parte il
cuoco, Jim Siedow (nessuna collaborazione, invece, al terzo e quarto remake).
E in realtà il primo Texas
Chainsaw Massacre, diretto nel 1974, ci incantò. Ha innalzato l’asticella
della paura sostenibile di parecchi centimetri. Solo Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, ma tre anni dopo, ha
scavalcato la stessa asticella. Cominciammo a memorizzare e amare anche quel
nome. Tobe Hooper.
Era un periodo elettrizzante (‘74-‘77) caratterizzato dalle
continue e scandalose esplorazioni dentro le parti meno conosciute del nostro
cervello, del nostro mondo, delle nostre istituzioni (molti gli uffici militari
e politici che saltarono in aria, perché gestiti da signori Stranamore - e
senza lasciare vittime in carne ed ossa - e non solo in Usa e in Europa: ma
bisognava scoprire cosa c’era dentro). Si cercava, tutto il movimento cercava,
qualcosa di speciale. Per esempio tenere testa agli incubi più insostenibili
(come perdere la guerra contro un popolo di contadini armati solo di fede, noi
dalla parte della civiltà occidentale). Le nostre zone dark, come dice Dario
Argento, altro esimio esploratore, erano da esibire, da osservare bene negli
occhi e da condividere su alta scala. Basta con le confessioni repressive e da
single. Horror, hanno detto per semplificare. Cinema scientifico-sperimentale,
direi, che fa a fette l’immaginario collettivo consentito, squarcia, sega,
massacra, amputa il buon senso criminale. Scienza slasher. Ricerca gore.
Piacere fantasmatico contro iperviolenza sociale.
Il primo film di Tobe Hooper, che ci ha lasciato
improvvisamente ieri, e di cui certamente scriveranno presto cose meravigliose
Tim Lucas e i redattori di Video
Watchblog - più che una rivista il
nostro partito di riferimento, perché vi collaborano i comunisti del cinema
libertario - è un oggetto da art house, Eggshells, e racconta la vita hippies di
una comune rivoluzionaria verso la fine dell’aggressione al Vietnam. Tipo Ice di Robert Kramer. Lo conoscete? No?
Bè, neanche Eggshells. Il film non
ebbe più di 50 proiezioni. Un fiasco. “Non era né carne né pesce” disse
l’autore, che sottovalutava la fluidità narrativa quasi automatica che può
incorporare inconsciamente un cinefilo come lui, fan del genere d’avventura e
azione, e dei Dracula della Hammer Films.
Visto che il padre era proprietario di una sala cinematografica a
Austin, e poi in altre città del Texas e della Louisiana nell’era d’oro del
consumo di massa. “Ancora prima di pensare mi formai un ricco vocabolario
filmico e il cinema divenne il mio maestro di vita, il mio modo di osservare le
cose”. Proprio come uno dei più prestigiosi critici statunitensi, Jonathan
Rosenbaum. Fortunati, no? Oggi che abbiamo tutti i film a disposizione della
storia in rete, potremmo diventare Hooper e Rosenbaum.
Così, proprio da quell’esperimento fallito nacque Texas Chainsaw. Realismo? Non più. Ma
una catena di Shock audiovisivi da
congegnare assieme ai suoi studenti di corso e con budget zero. Politica
spiegata? Non più. Rivoluzione dell’incoscio in azione. Insomma da allora
Hooper realizzò solo film che non sarebbero passati inosservati. Il passaggio
tra cinema ombelicale didattico e esperienza integrale radicale. Poco televisivo nonostante la committenza fu
anche Salem’s Lot da Stephen King
(1979), anche se poi nella parte finale della sua carriera Tobe Hooper (come
tutta la generazione dell’iperhorror) ha accettato compromessi tv o è sparito
(Henenlotter) o è emigrato all’estero
(Brian Yuzna). Tra le cose tv da rintracciare: I’m dangerous tonight (mostro azteco), Spontaneous Combustion (sui poteri incendiari, sconsigliabile di
questi tempi) e soprattutto
l’odiatissimo (dallo spagnolo Diego Curubeto) Z Tobe Hooper ‘s Night terrors
con Robert Englund (Nightmares on
Elm Street) che è un marchese De Sade redivivo che si vendica dei
discendenti dei suoi nemici (spero anche i wahabiti). Sempre con Englund da vedere The Mangler, da
Stephen King (1995).
Per finire. Austin, Texas. Lì era nato Tobe Hopper, 74 anni
fa. E proprio lì è rinato negli ultimi anni il cinema Usa indipendente. Richard
Linklater, Roberto Rodriguez, Joshua Oppenheimer, Forrest Whiteker, Wes
Anderson, Tommy Lee Jones, Tom Ford, Ethan Hawke, John Cameron Mitchell, Billy
Woodberry, eredi dei vari Kong Vidor, Terrence Malick, Tex Avery, Joshua Logan,
Jack Hill, Julian Schnabel, Jack Starrett e chissà quanti altri ancora. E non dobbiamo dimenticare il grande omaggio
reso a Tobe Hooper dal festival di Cannes nel 2014. La Quinzaine come grande
evento non ebbe Whiplash, ma la versione
restaurata in 4K di Non aprite quella
porta già proiettata al Festival di Austin SXSW in occasione dei 40 anni
del film, con il regista presente alla proiezione.
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