domenica 28 dicembre 2014

Melbourne, il cinema iraniano che non ci piace. La patria non si lascia. Mai. Inebria lo sciovinismo di Nima Javidi, allievo e seguace di Asghar Farhadi


Negar Javaherian, protagonista di "Melbourne"


di Mariuccia Ciotta

Negar Javaherian e Peyman Moaadi
Una valanga di elogi ha inebriato il 34enne Nima Javidi, regista iraniano di Melbourne, lungometraggio d'esordio, presentato alla Settimana della critica di Venezia, e uscito nelle sale italiane qualche settimana fa, “attesissimo”.   
Discepolo di Asghar Farhadi, Oscar 2012 per il miglior film straniero con Una separazione, Javidi ne assorbe stile e architettura, ispirato, dice, da Hitchcock e Polanski per il suo thriller tutto in una stanza, dove una giovane coppia, Amir (Peyman Moaadi, protagonista di Una separazione) e Sara (Negar Javaherian) si prepara a lasciare l'Iran per la never-land, l'Australia.
Peynan Moaadi
Il “dentro” dell'appartamento, in subbuglio per il trasloco, è violato dal “fuori”, i rumori della modernità, cellulari, campanelli, citofoni che assediano i due eccitati per la nuova prossima vita, e dove lei, bellissima,  potrà finalmente scoprirsi (chissà) la testa velata. 
Ma il senso di colpa per la fuga - leit-motiv del cinema iraniano che passa il visto di censura - si materializza nel corpicino inerte di una neonata, figlia dei vicini, affidata alla coppia da una baby-sitter irresponsabile. La piccola non dorme, è morta. Perché? Quando? E parte la suspense, una tensione crescente, la paura di essere scoperti, i sospetti reciproci e lo scambio di accuse tra Amir e Sara. Nessuno dei due chiama l'ambulanza per timore di un fermo di polizia e di perdere l'aereo. E il cadaverino giace avvolto nelle fasce, testimone dell'innocenza abbandonata, chiara metafora dell'Iran, la patria non si lascia (Farhadi insegna). Ma è l'abilità di Javidi nella costruzione dello psico-dramma a incantare pubblico e critico, la stessa di  Una separazione, rete di coordinate (im)morali che si propongono come “universali”.
Nima Javidi
In un paese dove i maggiori cineasti sono esuli come Amir Naderi e Abbas Kiarostami o agli arresti domiciliari come Jafar Panahi, condannato a 6 anni di reclusione e a 20 di interdizione (non può girare film né rilasciare interviste), il giovane Nima Javidi  dichiara: “Non credo che ci sia molta differenza tra il produrre un film in Iran o altrove”.  I suoi aspiranti alla libertà, i coniugi che sognano Melbourne, saranno dunque puniti.
E' vero che il nuovo corso della repubblica islamica presieduta dal più conciliante Hassan Rouhani sembra dare i suoi frutti, tanto che la decana del “cinema delle donne”,  Rakhshan Bani-E'temad, ha avuto il visto dopo anni di attesa per i suoi timidi quadretti al femminile, Storie, passato sempre a Venezia. Ma il film di Javidi non mostra segni di ribellione etico-estetica, e si propone di rivolgersi innanzitutto al pubblico iraniano, altro che riconoscimenti internazionali riservati ai “disertori”, simulando una godibile confezione all'occidentale (L'appartamento di Billy Wilder!). Il finale di Melbourne sembra aperto, ma non lo è affatto assicura il regista.
Quell'aeroporto non sarà mai raggiunto, perché  “Io credo che non solo in Iran, ma ovunque nel mondo, chi lascia il proprio paese rifiuta di assumere le sue responsabilità. L'emigrazione di per sé ha il sentore della mancanza di responsabilità”. Un aspetto che “cercavo in realtà di tenere nascosto”. Chi ha occhi, però, vede. 

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