Roberto Silvestri
Mai un Leone d'oro è stato meno contestato. Mai è stato anticipato da tanti unanimi apprezzamenti internazionali. Il film messicano Roma di Alfondo Cuarón, autobiografia “da cucciolo”, e non solo, del regista, montatore, sceneggiatore e produttore, ha vinto senza polemiche o fischi o insulti la Mostra di Venezia 2018.
Roma produce uno tsunami di emozioni estetiche immediate, potenti e originali. Come se fosse l'antidoto, spettacolarmente corretto, ai Marvel movie. Qui esci dal cinema (anzi dal tuo megaschermo domestico, perché è un prodotto Netflix) sentendoti un super eroe e non più schiacciato dalla potenza dei superpoteri altrui. Rimetti in sesto il sistema sensorio, ogni facoltà percettive. Come una droga digitale alla carnitina che inietta più sensibilità umana, più acume politico e più capacità di collegare le due cose.
Il fatto che siano stati premiati, a margine, due para-western claudicanti (Audiard e i Coen) e altri tre film storici in costume (il Van Gogh, il diavoletto della Tasmania di Nightingale e La favorita) che deragliano verso emozioni “di genere” troppo messe a fuoco (l'agiografico, lo splatter etnocolpevole, la parodia encomiastica) sembrerebbe invece una indicazione antitetica, a parte le qualità performative sofisticate di Willem Dafoe e di Olivia Colman. Sulla stessa linea di Roma metterei invece i dimenticati dal palmarès: La quietud di Trapero, (neppure messo in concorso), i tre ottimi film italiani, e soprattutto Suspiria, né horror né pamphlet politico, folgorante immersione nel cinema e nella rivoluzione totale; The Mountain, troppo odiato da tutti per non possedere qualità visuali e concettuali premonitrici; l'Arpa birmana di uno Tsukamoto che purifica le sue forme fino all'essenziale; Peterloo, ovvero come tornare alle origini del Capitale di Marx per bastonare Trump, e Vox Lux che di ogni parodia, di ogni agiografia e di ogni attrazione splatter è la critica.
Film eccitanti, non antidolorifici. Solo così si è competitivi nell'immaginario. Rischiando di perdercisi, come questo Nemes ancora più presuntuoso del precedente.
Torniamo a Cuarón. L'autore (cittadino onorario di Pietrasanta, Toscana, perché la sua ex moglie è italiana) ha raccontato in bianco e nero e tensione espressionista il quartiere Colonia Roma di Mexico City (le gite al mare, il cinema e la passione per la fantascienza, le lunghissime auto americane, la famiglia agiata e poi in crisi economica, le donne di servizio indios, il massacro del Corpus Christi) con la nostalgia un po' lisergica di chi aveva nel 1970 dieci anni, subiva già i traumi, molto ravvicinati, di un regime stragista e corrotto e di un papà irresponsabile e ancora doveva diventare il director di film di successo internazionale come Anche tua madre, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban e Gravity.
Si è detto che Roma (notare il furto di un titolo felliniano) è l'8 e ½ più Amarcord latino americano, e la libertà di fraseggio è identica, ma il concept è opposto. Lo sguardo in soggettiva sugli avvenimenti esistenziali (quasi una morte per annegamento suo e dei suoi fratelli) e sui fatti storicizzati dell'era riformistico-criminale di Echeverria, ormai patrimonio dell'immaginario collettivo, come in un quadro di Bacon si complica, viene contorto e distorto da una sovrimpressione proibita finora, dallo sguardo obliquo e avulso e altrettanto consapevole della sua adorata tata, del sottoproletariato inurbato delle campagne, e, come in Sissignora di Poggioli, o Le noire de di Sembene Ousmane, o Diario di una cameriera di Bunuel, diventa “scandalosamente” il centro di gravità della storia. Soprattutto perché come quella tata centinaia di migliaia di messicani poveri sono rispediti oltre muro e separati dai figli da Trump per salvare qualche briciolo di Pil e le promesse anticostituzionali elargite ai suoi selvaggi elettori.
Un film di 135' che poteva essere molto, molto più lungo. E probabilmente lo è. Come quello di Martone, che ha evidentemente tagliato la sua versione originale per non debordare pericolosamente, come 22 luglio sulla strage di giovani socialdemocratici norvegesi e Opera senza autoredel pittore della Germania Est perseguitato ancora dai nazisti. Come La favorita. Sunset di Nemes. O Nightingale. Il cinema va disperatamente verso il racconto lunghissimo e dettagliato. Che esce ed entra da costellazioni di genere. Lo aveva ben anticipato il regista filippino Lav Diaz, un insuperato e dimenticato vincitore della Mostra perché il suo film non ha incassato e non è uscito (neppure su Netflix). Anche se oggi tutti lo imitano (e Kluge è andato proprio in Filippine a risciacquare i suoi panni) e incassano.
Forse un prestigioso festival internazionale deve stare attento a non confondere i suoi film con le serie tv che di troppa (e finta) libertà narrativa moriranno.
Da quando non ci sono più nelle giurie dei mega festival i critici, gli storici del cinema e le personalità planetarie di grande prestigio culturale (e fragile risonanza mediatica), ma solo cineasti per lo più di origine occidentale, colleghi dei premiandi, a copiare il modello Oscar, i premi si stanno talmente svalutando come indicazione potente di “altro mercato”, che a stento si ricorda chi ha vinto Cannes 2015, Berlino 2016 o Venezia nel 2014.
Così la Mostra d'arte di Barbera ha avuto l'astuzia di far presiedere la giuria 2018 proprio dal vincitore dell'edizione passata, il messicano Guillermo Del Toro, poi Academy Award con il fantastico fantapolitico La forma dell'acqua, a sottolineare la “via della seta” che deve collegare da ora in poi il Lido alla cerimonia del Dolby Theatre di Los Angeles. Anche la scelta di aprire le gare con il nuovo Chazelle, il lungo ricalco di Apollo 13, First Man va nella stessa direzione. Se una sola regista ha vinto l'Oscar, la statistica dice che è meglio non portare in gara troppi film diretti da donne. Soprattutto perché la maggioranza proviene da paesi lontani e statisticamente poco premiabili. E restringere così all'area angloamericana i confini della competizione e i paesi di origine della giuria. Muri che speriamo verranno fatti brillare da Barbera e dai suoi esperti che possono essere soddisfatti a metà del loro lavoro. In particolare per la scelta del giurato italiano, che non era certo chiamato a favorire il cinema di bandiera, ma il buon cinema.
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