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giovedì 20 settembre 2018

Mostra di Venezia 75. Cuarón, un Leone all’unanimità



Roberto Silvestri

Mai un Leone d'oro è stato meno contestato. Mai è stato anticipato da tanti unanimi apprezzamenti internazionali. Il film messicano Roma di Alfondo Cuarón, autobiografia “da cucciolo”, e non solo, del regista, montatore, sceneggiatore e produttore, ha vinto senza polemiche o fischi o insulti la Mostra di Venezia 2018.
Roma produce uno tsunami di emozioni estetiche immediate, potenti e originali. Come se fosse l'antidoto, spettacolarmente corretto, ai Marvel movie. Qui esci dal cinema (anzi dal tuo megaschermo domestico, perché è un prodotto Netflix) sentendoti un super eroe e non più schiacciato dalla potenza dei superpoteri altrui. Rimetti in sesto il sistema sensorio, ogni facoltà percettive. Come una droga digitale alla carnitina che inietta più sensibilità umana, più acume politico e più capacità di collegare le due cose.
Il fatto che siano stati premiati, a margine, due para-western claudicanti (Audiard e i Coen) e altri tre film storici in costume (il Van Gogh, il diavoletto della Tasmania di Nightingale e La favorita) che deragliano verso emozioni “di genere” troppo messe a fuoco (l'agiografico, lo splatter etnocolpevole, la parodia encomiastica) sembrerebbe invece una indicazione antitetica, a parte le qualità performative sofisticate di Willem Dafoe e di Olivia Colman. Sulla stessa linea di Roma metterei invece i dimenticati dal palmarès: La quietud di Trapero, (neppure messo in concorso), i tre ottimi film italiani, e soprattutto Suspiria, né horror né pamphlet politico, folgorante immersione nel cinema e nella rivoluzione totale; The Mountain, troppo odiato da tutti per non possedere qualità visuali e concettuali premonitrici; l'Arpa birmana di uno Tsukamoto che purifica le sue forme fino all'essenziale; Peterloo, ovvero come tornare alle origini del Capitale di Marx per bastonare Trump, e Vox Lux che di ogni parodia, di ogni agiografia e di ogni attrazione splatter è la critica. 
Film eccitanti, non antidolorifici. Solo così si è competitivi nell'immaginario. Rischiando di perdercisi, come questo Nemes ancora più presuntuoso del precedente.
Torniamo a Cuarón. L'autore (cittadino onorario di Pietrasanta, Toscana, perché la sua ex moglie è italiana) ha raccontato in bianco e nero e tensione espressionista il quartiere Colonia Roma di Mexico City (le gite al mare, il cinema e la passione per la fantascienza, le lunghissime auto americane, la famiglia agiata e poi in crisi economica, le donne di servizio indios, il massacro del Corpus Christi) con la nostalgia un po' lisergica di chi aveva nel 1970 dieci anni, subiva già i traumi, molto ravvicinati, di un regime stragista e corrotto e di un papà irresponsabile e ancora doveva diventare il director di film di successo internazionale come Anche tua madre, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban e Gravity.
Si è detto che Roma (notare il furto di un titolo felliniano) è l'8 e ½ più Amarcord latino americano, e la libertà di fraseggio è identica, ma il concept è opposto. Lo sguardo in soggettiva sugli avvenimenti esistenziali (quasi una morte per annegamento suo e dei suoi fratelli) e sui fatti storicizzati dell'era riformistico-criminale di Echeverria, ormai patrimonio dell'immaginario collettivo, come in un quadro di Bacon si complica, viene contorto e distorto da una sovrimpressione proibita finora, dallo sguardo obliquo e avulso e altrettanto consapevole della sua adorata tata, del sottoproletariato inurbato delle campagne, e, come in Sissignora di Poggioli, o Le noire de di Sembene Ousmane, o Diario di una cameriera di Bunuel, diventa “scandalosamente” il centro di gravità della storia. Soprattutto perché come quella tata centinaia di migliaia di messicani poveri sono rispediti oltre muro e separati dai figli da Trump per salvare qualche briciolo di Pil e le promesse anticostituzionali elargite ai suoi selvaggi elettori.
Un film di 135' che poteva essere molto, molto più lungo. E probabilmente lo è. Come quello di Martone, che ha evidentemente tagliato la sua versione originale per non debordare pericolosamente, come 22 luglio sulla strage di giovani socialdemocratici norvegesi e Opera senza autoredel pittore della Germania Est perseguitato ancora dai nazisti. Come La favorita. Sunset di Nemes.  O Nightingale. Il cinema va disperatamente verso il racconto lunghissimo e dettagliato. Che esce ed entra da costellazioni di genere. Lo aveva ben anticipato il regista filippino Lav Diaz, un insuperato e dimenticato vincitore della Mostra perché il suo film non ha incassato e non è uscito (neppure su Netflix). Anche se oggi tutti lo imitano (e Kluge è andato proprio in Filippine a risciacquare i suoi panni) e incassano. 
Forse un prestigioso festival internazionale deve stare attento a non confondere i suoi film con le serie tv che di troppa (e finta) libertà narrativa moriranno.
Da quando non ci sono più nelle giurie dei mega festival i critici, gli storici del cinema e le personalità planetarie di grande prestigio culturale (e fragile risonanza mediatica), ma solo cineasti per lo più di origine occidentale, colleghi dei premiandi, a copiare il modello Oscar, i premi si stanno talmente svalutando come indicazione potente di “altro mercato”, che a stento si ricorda chi ha vinto Cannes 2015, Berlino 2016 o Venezia nel 2014. 
Così la Mostra d'arte di Barbera ha avuto l'astuzia di far presiedere la giuria 2018 proprio dal vincitore dell'edizione passata, il messicano Guillermo Del Toro, poi Academy Award con il fantastico fantapolitico La forma dell'acqua, a sottolineare la “via della seta” che deve collegare da ora in poi il Lido alla cerimonia del Dolby Theatre di Los Angeles. Anche la scelta di aprire le gare con il nuovo Chazelle, il lungo ricalco di Apollo 13, First Man va nella stessa direzione. Se una sola regista ha vinto l'Oscar, la statistica dice che è meglio non portare in gara troppi film diretti da donne. Soprattutto perché la maggioranza proviene da paesi lontani e statisticamente poco premiabili. E restringere così all'area angloamericana i confini della competizione e i paesi di origine della giuria. Muri che speriamo verranno fatti brillare da Barbera e dai suoi esperti che possono essere soddisfatti a metà del loro lavoro.  In particolare per la scelta del giurato italiano, che non era certo chiamato a favorire il cinema di bandiera, ma il buon cinema.  

Mostra di Venezia 75. S. Craig Zahler e Laszlo Nemes


Roberto Silvestri

Dragged Across Concrete di Steven Craig Zahler (Fuori concorso)




Come sedurre lo stereotipo e poi ammazzarlo
Due sbirri bianchi, uno anziano, Mel Gibson, e l'altro più giovane, Vance Vaughn, sospesi dal servizio perché filmati mentre fanno semplicemente i cop, si vendicano dei loro capi, dei media “che trattano in maniera inappropriata i comportamenti inappropiati” e di una vita sottopagata e piena di frustrazione, architettando un bel piano. Rapinare i rapinatori di una banca (ferocissimi, come prestati da un Marvel movie) e vivere felici coi loro lingotti d'oro. Però qui chi vince davvero non è il “giustiziere della notte” e neppure “il principe della città”. Ma una specie di Charlie Varrick, l'ultimo degli indipendenti...
Fuori concorso un thriller metropolitano cool e heavy metal, come se ne facevano negli anni 70 e anche prima. Dragged Across Concrete, si può tradurre con “trascinato nel cemento”, è l'opera terza dello scrittore di romanzi trans-pulp, regista, operatore e musicista di Miami Steven Craig Zahler. Piuttosto abile sia nelle strofe che nei ritornelli (tutte le song sono sue). Sa creare atmosfera e tiene bene gli assoli. E, come se fosse uno degli Skiantos, sa anche auto-sbeffeggiarsi. Un allievo inconsapevole di Walter Hill, una specie di Don Siegel redivivo e aggiornato, almeno a giudicare dai film precedenti, il western Bone Tomahawk e il carcerario Brawl in Cell Block 99, anche se i suoi miti qui sono i Lumet e Scorsese più dark. Oltre a tenere sempre desti i riflessi dello spettatore, trattando i suoi copioni come fanno col nemico i bombaroli, agendo sempre di sorpresa, Zahler (che deve essere un esperto di videogame perché ne promuove l'alto valore educativo), attraverso improvvise incursioni splatter, cambiamenti di ritmo, umorismo inaspettato, sequenze “deboli” trasformate in scaturigini dalle conseguenze devastanti, fa a pezzi la cosiddetta sceneggiatura di ferro (vecchio) e la monoliticità dei personaggi (il buono, il cattivo e il medio sono 'fuori campo' ), evidenziando e freddandone ogni stereotipo. Ma dopo averlo deliziosamente maneggiato.

Tramonto di Lazlo Nemes (Concorso)



La donna senza qualità

Già campione del mondo del cinema d'arte, dopo aver vinto l'oscar con Il figlio di Saul, Laszlo Nemes, testa di serie ungherese qui al Lido, trasporta la sua affascinante e inebriante macchina narrativa, fatta di febbrile macchina a mano più steady cam indagatrice di spazi decolorati della storia, dei corpi e delle menti, da Auschwitz a Budapest, a un passo dalla prima guerra mondiale e dalle deflagrazione dell'Impero austro-ungarico. Non a caso il titolo del film, in concorso, è Tramonto. Questa volta il personaggio “che non deve chiedere mai”, inossidabile e indistruttibile nelle sue missioni impossibili, come fosse l'angelo della vendetta o il non eroe di Musil, è una bella ragazza bionda e apparentemente fragilissima, ma dagli invidiati cappelli art nouveau (frutto dei suoi studi modistici triestini). Rientrata a casa per lavorare nella prestigiosa ditta di famiglia, scopre di essere capitata dentro un fitto intrigo hitchcockiano fatto di genitori scomparsi, atelier bruciato, fratello disperso, minacciose bande di gangster, anarchici, ruffiani travestiti da borghesi, orrida nobiltà asburgica, tracce di Sissi. E che la via per far esplodere davvero tutto quel mondo corrotto ha bisogno di una trasformazione totale, innanzi tutto, del proprio corpo. Che la metafora della Ungheria di oggi, orbanizzata e miserabile, sia esplicita non è l'intuizione migliore del film. Che sia una bionda esplosiva in stato d'allarme ad agire e guidare le lotte cambiando letteralmente pelle, nomade come sono i gitani sanno essere, è rincuorante.


sabato 16 maggio 2015

Il figlio di Saul. Opera prima insostenibilmente bella




di Roberto Silvestri
CANNES


Laszlo Nemes, sul set di "Son of Saul"

Film d’esordio dell’ ungherese Laszlo Nemes, 38 anni,  Son of Saul, Il figlio di Saul, unica “opera prima” del concorso numero 68. Il set e l'argomento del film (diretto dall'allievo prediletto di Bela Tarr) è Auschwitz, nell' ottobre del 1944. I russi stanno per arrivare e per liberare i prigionieri ebrei (e anche comunisti, dissidenti, rom e omosessuali) sopravvissuti alle camere a gas, agli stenti e al superlavoro. La “soluzione finale” richiede un surplus di efficienza e velocità burocratica. Il Fuhrer forza la macchina dello sterminio ai ritmi altissimi di cui parlerà Adolf Eichman, con una certa soddisfazione professionale, al processo in Israele, avvenuto troppi anni dopo, che lo condannerà a morte. Intanto anche la resistenza interna si avvicina e si prepara una rivolta nel Lager... Alto il quoziente di difficoltà per un cineasta esordiente, anche perché il cinema civile occidentale ma soprattutto dell'est Europa ha scodellato, soprattutto a caldo, nell'immediato dopo guerra, talmente tante opere folgoranti, “per non dimenticare” l'orrore, dai capolavori di Jakubisko e Wajda, Resnais e Munk, Grifi e Marker, Pontecorvo e Lanzmann fino a Benigni e Spielberg, da costringere i cineasti di oggi a un necessario spostamento di sguardo o salto di ingegno per non essere controproducenti, retorici o ripetitivi e per non colpire a vuoto un immaginario che non sopporta il gioco facile con i sentimenti. Ed ecco l'originalità dell'operazione di Nemes (coadiuvato alla sceneggiatura da Clara Royer). Intanto lo sguardo su Auschwitz è quello di un prigioniero ebreo, Saul Auslander, ungherese, membro del Sonderkommando, squadra speciale isolate e apparentemente “privilegiata”, perché destinate a essere giustiziate dopo, solo poco prima dei kapò e dei “Murmelstein” (da notare che al Biografilm Festival è stato presentato il nuovo lavoro di Giovanni Cioni, Del Ritorno sulle memorie di Silvano Lippi, vittima del perfido gioco dei nazi e sbattuto nel Sonderkommando, di Mathausen, questa volta).
Saul è dunque un prigioniero speciale, ha una grossa croce rossa ben visibile sul retro della giacca, e non è scarnificato come gli altri, mangia qualcjhe patata in più, e può trafficare agevolmente, perché deve fare lavori molto faticosi: è obbligato a trasportare i prigionieri nelle camere a gas travestite da docce, e non tutti sono inconsapevoli, a raccattare e dividere vestiti e beni personali (trafugando quel che serve, a volte, per la sopravvivenza spiccia), a pulire dai cadaveri nudi i locali avvelenati, a spalare e gettare al fiume la montagna di cenere dopo ogni cremazione dei corpi… 

Tra “i gasati”cdal Ziklon B, un giorno, trova un ragazzo miracolosamente ancora vivo, che crede di riconoscere come suo figlio. Un medico delle SS lo giustizia, soffocandolo con fastidio. Ma Saul riesce a sottrarre il corpo alla cremazione e si impegna a trovare un rabbino, a rischio di morire, pur di dare a quel corpo sepoltura ebraica, sottoterra, con tanto di Kaddish. Come un simbolo di resistenza e di rivolta. Come un sintomo di follia vendicatrice. La rivolta scoppia davvero, ma... Non è tanto importante il racconto degli avvenimenti posteriori (anche il film sembra disinteressarsene). Quanto il lavoro con gli attori e con la cinepresa di Nemes. Un estremo micronaturalismo provoca - secondo la lezione di Pina Baush o di Peter Stein, e utilizzando implacabilmente e claustrofobicamente il primo piano e il “primo piano rovesciato” (cioé il protagonista è spesso inseguito in piano sequenza ad altezza di nuca semovente) - un effetto astratto. Da Raffaello Sanzio. Vediamo la violenza nella sua astrazione pura e non una messa in scena. Notevole. 
Lo stesso effetto di perdita totale dell'identità provocato dalla situazione di un prigioniero nel lager nazi. Spossessati del corpo e del nome, numeri deambulanti, i prigionieri possono diventare qualunque cosa, trasformarsi anche in “rabbino”, per esempio, pur di sopravvivere una mezzora di più, e lo stesso sguardo può opacizzarsi sui morti (sono tutti inquadrati a distanza, fuori fuoco o in flou perché non si “vedono” più) o metamorfizzare gli spazi e i corpi, come accade al ragazzo trasfigurato in altro (probabilmente Saul non ha mai avuto un figlio, ma la prospettiva di un altro David possibile è l'unica che permette di accettare un altro, più immane, sterminio). Questo gioco tra naturalismo e sacralità è quel che fa il film molto interessante e di Nemes un sicuro talento. Nonostante un finale che perde la tensione “teatrale e documentaristica assieme” dell'inizio rifugiandosi nel narrare standard dello scontro, della fuga e dell'inseguimento. Di cui conosciamo già l'esito atroce.

venerdì 15 maggio 2015

Woody Allen gioca nolto con se stesso. Saul cerca David. In gara l'esordiente ungherese Laszlo Nemes.


Emma Stone e Joaquin Phoenix in "Irrational Man"



Roberto Silvestri

CANNES. Woody Allen ormai è Mozart. Uno sceneggiatore così perfetto, un direttore di attori così adorato da poter far indossare qualunque cosa a tutti i più superbi performer. Qui Joaquin Phoenix e Emma Stone, Parker Posey e Jamie Blackley. Per cui il suo nuovo lavoro, la commedia acida con delitto L'uomo irrazionale, che sta tra The rope di Hitchcock (l'estremismo esistenzialista in filosofia se male interpretato, soprattutto dagli accademici americani che semplificano Derrida, può provocare sfracelli) e la parodia del film di Margarete von Trotta su Hannah Arendt (non credo che Woody condivida la teoria della banalità del male), pur non essendo tra i suoi incastri umoristico-seriosi più riusciti merita un certo interesse, soprattutto grazie ai suoi sunti filosofici che perfezionano i bignami,  al set, un campus universitario dove non volano soltanto coltelli teorici affilati ma anche lame contundenti autentiche e alla scelta musicale di supporto, non più swing ma "moderna", finalmente un jazz più complesso e cool, il Ramsey Lewis Trio, il Modern Jazz Quartet. L'arrangiamento visuale se ne avvantaggia e le immagini vengono avvolte da una atmosfera sofisticata, brillante, cool che rende l'oggetto particolarmente chic. E non è la prima volta che Woody fa furiosamente i conti con Heidegger fingendo di interessarsi di altro.

Joaquin Phoenix e Parker Posey in Irrational Man
Jane Fonda è la prima cineasta premiata dal programma “Women in motion”. Le donne che hanno saputo imporsi dentro un'industria inguaribilmente maschilista, dalla produzione alla ricezione. Bella idea. Il suo doc, realizzato alla fine degli anni 60, con Claudia Weil, sul Vietnam e dalla parte dei vietcong, per quanto ripudiato successivamente in un rigurgito di nazionalismo dalla attrice pentita, resta una pietra miliare di anticonformismo e libertà di pensiero, due qualità rare che perfino nei paesi democratici vengono pagate a duro prezzo (Claudia Weil infatti è proprio sparita dalla circolazione, mi pare).

Emma Stone, Woody Allen e Parker Posey a Cannes
Il produttore Harvey Weinstein, che ogni anno presenta all'Hotel Majestic i suoi gioielli, cioé un listino che inevitabilmente contiene i futuri candidati ai premi Oscar (c'è anche il nuovo Tarantino, The Hateful Eight), indica in Carol, di Todd Haynes il papabile n.1 per la Palma d'oro, e in Macbeth un altro successo sicuro del festival. Interessante iniziativa dell'Hollywood Reporter, a proposito, che in un'inchiesta immaginaria sui film ideali per i membri della giuria di Cannes subdolamente suggerisce proprio un suo film come il favorito (è l'unico a cui vanno due voti). I Coen sarebbero infatti per gli “autori più spinti”, Audiard e Lanthimos (e Hou Hsiao Hsien?); Rossy de Palma, almodovariana doc, per i melodrammi dai toni forti e dunque per Chronic di Michel Franco; Jake Gyllenhaal prediligerebbe Gus Van Sant e Denis Villeneuve, anche perché ha lavorato con loro; Guillermo del Toro potrebbe avere un debole per il soft-drink real-fantasy di Matteo Garrone; l'attrice Sienna Miller è certamente per Todd Haynes e per Justin Kurzel di Macbeth perché adorerebbe Kate Blanchett e Marion Cotillard; la cantante Rokia Traoré essendo maliana non può che battersi (terzomondismo?) per Jia Zhang-Ke ma ama anche Macbeth di Kurzel... Sophie Marceau è patriottarda e dunque sta con le cineasti francesi, Donzelli e Maiwenn; infine l'enfant prodige canadese del Quebec, Xavier Dolan, si batterà per Mia Madre di Nanni Moretti, ovviamente (non ha fatto Mommy?), ma sarebbe anche un fan dell'esordiente ungherese Laszlo Nemes, 38 anni, il cui Son of Saul, Il figlio di Saul, è l'unica “opera prima” del concorso 68 e gareggia anche per la Camera d'or.

Il figlio di Saul di Laszlo Nemes
Il set e l'argomento del film (diretto dall'allievo prediletto di Bela Tarr) è Auschwitz, nell' ottobre del 1944. I russi stanno per arrivare e per liberare i prigionieri ebrei (e anche comunisti, dissidenti, rom e omosessuali) sopravvissuti alle camere a gas, agli stenti e al superlavoro. La “soluzione finale” richiede un surplus di efficienza e velocità burocratica. Il Fuhrer forza la macchina dello sterminio ai ritmi altissimi di cui parlerà Adolf Eichman, con una certa soddisfazione professionale, al processo in Israele, avvenuto troppi anni dopo, che lo condannerà a morte. Intanto anche la resistenza interna si avvicina e si prepara una rivolta nel Lager...

Alto il quoziente di difficoltà per un cineasta esordiente, anche perché il cinema civile occidentale ma soprattutto dell'est Europa ha scodellato, soprattutto a caldo, nell'immediato dopo guerra, talmente tante opere folgoranti, “per non dimenticare” l'orrore, dai capolavori di Jakubisko e Pontecorvo, Wajda e Munk, Grifi, Lanzmann fino a Benigni e Spielberg, da costringere i cineasti di oggi a un necessario spostamento di sguardo o salto di fantasia per non essere retorici o ripetitivi e per non colpire a vuoto un immaginario che non sopporta il gioco facile con i sentimenti. Ed ecco l'originalità dell'operazione di Nemes (coadiuvato alla sceneggiatura da Clara Royer). Intanto lo sguardo su Auschwitz è quello di un prigioniero ebreo, Saul Auslander, ungherese, membro del Sonderkommando, squadra speciale isolate e apparentemente “privilegiata”, perché destinate a essere giustiziate dopo, poco prima dei kapò e dei “Murmelstein”. Saul è dunque un prigioniero speciale, ha una grossa croce rossa ben visibile sul retro della giacca, e non è scarnificato come gli altri, perché deve fare lavori molto faticosi: è obbligato a trasportare i prigionieri nelle camere a gas travestite da docce, e non tutti sono inconsapevoli, a raccattare e dividere vestiti e beni personali (trafugando quel che serve, a volte, per la sopravvivenza spiccia), a pulire dai cadaveri nudi i locali avvelenati, a spalare e gettare al fiume la montagna di cenere dopo ogni cremazione dei corpi. Tra i morti, un giorno, trova un ragazzo miracolosamente ancora vivo, che crede di riconoscere come suo figlio. Un medico delle SS lo giustizia, soffocandolo. Ma Saul riesce a sottrarre il corpo alla cremazione e si impegna a trovare un rabbino, a rischio di morire, pur di per dare a quel corpo sepoltura ebraica, con tanto di Kaddish. Come un simbolo di resistenza e di rivolta. La rivolta scoppia davvero, ma...

Non è tanto importante il racconto degli avvenimenti. Quanto il lavoro con gli attori e con la cinepresa di Nemes. Un estremo naturalismo provoca, secondo la lezione di Pina Baush o di Peter Stein, e utilizzando implacabilmente e claustrofobicamente il primo piano e il “primo piano rovesciato” (cioé il protagonista è spesso inseguito in piano sequenza ad altezza di nuca semovente) un effetto astratto. Da Raffaello Sanzio. Vediamo la violenza nella sua astrazione pura e non una messa in scena. Notevole. Lo stesso effetto di perdita totale dell'identità provocato dalla situazione di un prigioniero nel lager nazi. Spossessati del corpo e del nome, numeri deambulanti, i prigionieri possono diventare qualunque cosa, trasformarsi anche in “rabbino”, per esempio, pur di sopravvivere una mezzora di più, e lo stesso sguardo può opacizzarsi sui morti (sono tutti inquadrati a distanza o in flou perché non si “vedono” più) o metamorfizzare gli spazi e i corpi, come accade al ragazzo trasfigurato in altro (probabilmente Saul non ha mai avuto un figlio, ma la prospettiva di un altro David possibile è l'unica che permette di accettare un altro, più immane, sterminio). Questo gioco tra naturalismo e sacralità è quel che fa il film molto interessante e di Nemes un sicuro talento. Nonostante un finale che perde la tensione “teatrale e documentaristica assieme” dell'inizio rifugiandosi nel narrare standard dello scontro, della fuga e dell'inseguimento. Di cui conosciamo già l'esito atroce.