Roberto Silvestri
Dragged Across
Concrete di Steven Craig Zahler (Fuori concorso)
Come sedurre lo stereotipo e poi
ammazzarlo
Due sbirri bianchi, uno anziano, Mel
Gibson, e l'altro più giovane, Vance Vaughn, sospesi dal servizio
perché filmati mentre fanno semplicemente i cop, si vendicano dei
loro capi, dei media “che trattano in maniera inappropriata i
comportamenti inappropiati” e di una vita sottopagata e piena di
frustrazione, architettando un bel piano. Rapinare i rapinatori di
una banca (ferocissimi, come prestati da un Marvel movie) e vivere
felici coi loro lingotti d'oro. Però qui chi vince davvero non è il
“giustiziere della notte” e neppure “il principe della città”.
Ma una specie di Charlie Varrick, l'ultimo degli indipendenti...
Fuori concorso un thriller
metropolitano cool e heavy metal, come se ne facevano negli anni 70 e
anche prima. Dragged Across Concrete,
si può tradurre con “trascinato nel cemento”, è
l'opera terza dello scrittore di romanzi trans-pulp, regista,
operatore e musicista di Miami Steven Craig Zahler. Piuttosto abile
sia nelle strofe che nei ritornelli (tutte le song sono sue). Sa
creare atmosfera e tiene bene gli assoli. E, come se fosse uno degli
Skiantos, sa anche auto-sbeffeggiarsi. Un allievo inconsapevole di
Walter Hill, una specie di Don Siegel redivivo e aggiornato, almeno a
giudicare dai film precedenti, il western Bone Tomahawk e
il carcerario Brawl in Cell Block 99,
anche se i suoi miti qui sono i Lumet e Scorsese più dark. Oltre a
tenere sempre desti i riflessi dello spettatore, trattando i suoi
copioni come fanno col nemico i bombaroli, agendo sempre di sorpresa,
Zahler (che deve essere un esperto di videogame perché ne promuove
l'alto valore educativo), attraverso improvvise incursioni splatter,
cambiamenti di ritmo, umorismo inaspettato, sequenze “deboli”
trasformate in scaturigini dalle conseguenze devastanti, fa a pezzi
la cosiddetta sceneggiatura di ferro (vecchio) e la monoliticità dei
personaggi (il buono, il cattivo e il medio sono 'fuori campo' ),
evidenziando e freddandone ogni stereotipo. Ma dopo averlo
deliziosamente maneggiato.
Tramonto di
Lazlo Nemes (Concorso)
La donna senza
qualità
Già
campione del mondo del cinema d'arte, dopo aver vinto l'oscar con
Il figlio di Saul, Laszlo Nemes,
testa di serie ungherese qui al Lido, trasporta la sua affascinante e
inebriante macchina narrativa, fatta di febbrile macchina a mano più
steady cam indagatrice di spazi decolorati della storia, dei corpi e
delle menti, da Auschwitz a Budapest, a un passo dalla prima guerra
mondiale e dalle deflagrazione dell'Impero austro-ungarico. Non a
caso il titolo del film, in concorso, è Tramonto.
Questa volta il personaggio “che non deve chiedere mai”,
inossidabile e indistruttibile nelle sue missioni impossibili, come
fosse l'angelo della vendetta o il non eroe di Musil, è una bella
ragazza bionda e apparentemente fragilissima, ma dagli invidiati
cappelli art nouveau (frutto dei suoi studi modistici triestini).
Rientrata a casa per lavorare nella prestigiosa ditta di famiglia,
scopre di essere capitata dentro un fitto intrigo hitchcockiano fatto
di genitori scomparsi, atelier bruciato, fratello disperso,
minacciose bande di gangster, anarchici, ruffiani travestiti da
borghesi, orrida nobiltà asburgica, tracce di Sissi. E che la via
per far esplodere davvero tutto quel mondo corrotto ha bisogno di una
trasformazione totale, innanzi tutto, del proprio corpo. Che la
metafora della Ungheria di oggi, orbanizzata e miserabile, sia
esplicita non è l'intuizione migliore del film. Che sia una bionda
esplosiva in stato d'allarme ad agire e guidare le lotte cambiando
letteralmente pelle, nomade come sono i gitani sanno essere, è
rincuorante.
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