di Roberto Silvestri (*)
Zan (Killing)
di Shinya Tsukamoto
Un tram a
Gerusalemme di Amos Gitai
Lettera a un
amico di Gaza di Amos Gitai
Pippo Delbono sul tram di Gerusalemme |
Nel 1997 Jonathan Demme,
profeticamente, riunì un gruppo di cineasti, tra i quali Julie Dash,
Abel Ferrara, Patricia Benoit e il fratello Ted, per raccontare due o
tre cose acide e adorabili sulla Manhattan transculturale e i suoi
conflitti attraverso dieci Subway stories, avventure
in metropolitana. Una sorta di discesa nelle profondità di una
megalopoli che stava per essere colpita a morte perché “cuore
dell'Impero del Male” ma in realtà colpita proprio perché stava
producendo gli anticorpi dell'Impero....
Venti anni dopo, mentre è legge la
trasformazione di Gerusalemme in capitale di uno stato integralista
“ebraico” che scimmiotta Ryad, anche il cineasta israeliano mai
riconciliato Amos Gitai rende omaggio alla sensibilità politica e al
coraggio del compianto amico americano utilizzando in Un tram a
Gerusalemme un'unità di luogo e
movimento simile, il tram (bellissimo, modernissimo).
Alla
Mostra già altri 3 film sono stati dedicati esplicitamente a Demme,
Supiria, Vox Lux di
Brady Corbet e
Carmine Street Guitars del
canadese Ron Mann. Bisogna fare qualche gesto, magari utopistico, per
opporre l'arte - come faceva Demme nella finzione e nella
documentazione sempre attenti all'interpretazione bipartizan (uomo e
donna) dei cambiamenti della storia - alla maligna politica imperante
oggi ovunque, quella che aizza al sovranismo e all'odio tra i popoli.
Così
Un Tramway a Jerusalem,
situation comedy dai sapori e ritmi asimmetrici, sceglie la strada
della metafora ottimista e ironica, della coesistenza pacifica tra
membri di comunità che si rispettano o comunque sono costretti per
forza di cose a sopportarsi almeno un po' e non della violenza
immediata e della contrapposizione frontale, irrispettosa di ogni
giudice o regola: ciò che caratterizza oggi, purtroppo, la
spaccatura insanabile della Città santa dei cristiani dei musulmani
e degli ebrei.
Il
tram che è stato, ovviamente, anche l'oggetto prediletto degli atti
terroristici, diventa, miracolo del cinema, della cinepresa empatica
di Gitai e della cosceneggiatrice Marie José Sanselme, il mosaico di
una inebriante diversità, mentre attraversa i quartieri palestinesi
est di Shuafat e Beit Hanina, prima di arrivare a Mont Herzl,
Gerusalemme Ovest. Storie quotidiane, ricordi struggenti, proclami,
provocazioni poliziesche, discussioni chassidiche, amicizie che
nascono d'improvviso, letture laiche di viaggi esotici (Flaubert),
preti cattolici invadenti ma intensi che ricordano la passione di
Cristo, paure improvvise, sguardi turistici famelici, canti
suggestivi e musiche in gruppo, un arresto, ultras in trance,
interviste sportive improvvisate ma finite male...Sono frammenti di
vita che potrebbero essere colti ovunque, perché i conflitti
politici, religiosi e d'amore sono comuni. Ma qui incontriamo Noa,
che apre le danze con un arabesque mozzafiato, Pippo Delbono in
performance indimenticabile, Mathieu Amalric e il figlio, che
stranamente hanno deciso di non prendere il taxi anche perché il
tram è mozza fiato, non come a Roma: sembra di ultima generazione,
supersonico e con l'aria condizionata perfettamente azionata. Una
vera fantasmagoria.
Mathieu Amarlic e il figlio |
Il film è preceduto però da un corto
più radicale e sulfureo, Lettre a un ami de Gaza. Quattro
attori, due palestinesi e due israeliani, leggono testi illuminanti
sulle origini della crisi tra israeliani e palestinesi e durissimi
contro il premier, indiscusso e inquisito, Netanyahu, perennemente
impegnato in viaggi d'affari con i massimi leader antisemiti – ma
soprattutto anti-Islam - d'Europa. E non solo Orban....
Mahmoud Darwish, Izhar
Smilansky, Emile Habibi e Amira Hass sgretolano con le loro fragili
parole, come David contro Golia, il terribile tsunami che ci viene
addosso, quel climax xenofobo e razzista che si sta diffondendo
dappertutto portando al potere gli uomini politici più abili
nell'ottimizzare e aizzare i sondaggi "giusti". Diffondere l'odio paga.
Per questo l'arte deve essere violentissima nel proporre una cultura
del rispetto e del dialogo almeno quanto è violentissima la
repressione missilistica di Israele contro ogni centro d'arte
palestinese, notoriamente covo di trinariciuti bombaroli. Il tutto in
omaggio a Camus e alla sua celebre lettera antinazista scritta nel
1943 e che dà il titolo al film.
Ultimo film in concorso, in costume,
l'applauditissimo Killing del
giapponese Shinya Tsukamoto, dedicato ai diversi, alle
coccinelle “strane”, quelle che hanno sul dorso un numero di
palline non regolamentare. Ma che salgono sugli alberi su, su, fino a
librarsi nell'aria. Quasi nello stesso spirito zen di Mario Martone. Anche se il titolo giapponese del film è Zan
Un
giovane ronin di campagna, cioé un samurai senza padrone, add.estrato
perfettamente alla guerra, grazie al suo servo-contadino che lo
allena perennemente, come fossimo dentro un episodio della Pantera
rosa con Peter Seller, e pronto
a difendere con la spada lo Shogun del momento dai suoi nemici,
improvvisamente ha l'illuminazione e sfrontatamente risponde al più
esperto Ronin (lo stesso Tsukamoto) che lo ha arruolato, blandendolo,
un secco: “preferirei di no”. Rischia la morte per
vigliaccheria...Ma una cosa è l'arte del combattimento simulato e
un'altra vederlo davvero i corpi maciullati della guerra. E il sangue scorrere.
Siamo
dentro un sorprendente apologo “francescano” pacifista, o da
bodhisattva keruachiano, quasi in clima Arpa birmana.
Il più temuto regista asiatico di horror, creatore finora di mostri
muscolar-meccanici di terrificante efficacia, surrealisticamente
sadici e profetici sul nostro futuro ibrido e sintetico - pensiamo al ciclo
cyberpunk Tetsuo – ormai avanti negli anni si sarebbe pentito?
In realtà anche
questo “chambara”, come si chiamano i film di cappa e spada
giapponesi tradizionali, che fuggono come la peste la presenza di un
personaggio femminile (qui c'è ed è particolarmente irritante) e che oggi sono
di nuovo tornati in auge, non ci risparmia momenti di combattimento e
di sventramento insostenibili, il sangue zampillante degli scontri e
dei regolamenti di conti scorre a profusione. Il ronin anziano (interpretato dallo stesso regista),
distruggendo una banda di briganti pezzenti, li fa morire lentamente,
dissanguati. Così hanno il tempo di pensare alla vita, alla morte e
di dare un senso alla loro esistenza visto che, per la prima volta,
sono costretti come Tetsuo, a sentirsi “diversi”, senza una
gamba, privi di un braccio o con le guance infilzate alla parete
dalla spada. Il film è una produzione indipendente a basso costo e
pochi dialoghi. Ma lo scheletro del cinema di Tsukamoto c'è tutto.
Il grande trauma del Giappone odierno di Abe che istiga al neo
militarismo provoca come risposta l'alto tradimento pacifista,
proprio come l'intossicazione totale del paese, tipo una giantesca
Ilva imposta ai cittadini in nome dello sviluppo economico
accellerato, obbligava alle mutazioni genetiche e alla resistenza
polimorfica. Sempre lucido Tsukamoto. Sempre non riconciliato. E
questa volta sobrio, essenziale, non un gesto di troppo, non una
mossa prevedibile. Come nei combattimenti virtuali. Senza spargimento
di sangue. Ma vincenti.
(*) da Alfabeta2
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