Roberto Silvestri
Morris vs. Bannon. Il generale
Selvaggio e il documentarista bombardiere
Che sorpresa non vedere qui al Lido,
dopo Salvini, anche Steve Bannon, il cervello dei conservatori
americani, l'istigatore di Charlottesville, il fidato e astuto
braccio destro di Trump nella fase finale, vincente e
spettacolarmente scorretta della campagna presidenziale 2016.
E non sentire neppure il suo nome
scandito dall'altoparlante alla proiezione non pienissima di American
Dharma (ovvero il destino, il
fato e il dovere americano è quello di essere i killer del mondo, a
fin di bene) che Errol Morris,
il più adorato dei documentaristi-artisti, convinto elettore di
Hillary, ha voluto realizzare con e sul suo ex compagno di studi ad
Harvard, l' “apocalittico razionale”, come si definisce, che vuol
strappare i repubblicani ai petrolieri e fondare un “partito
operaio nazionale d'America”. Perché parlare con Mazzarini moderni
così pericolosi? Perché - spiega Morris - “con i nemici bisogna
discutere, comprenderne le strategie”, smascherarne le bugie,
convincerli dei loro errori, se no come si batte la destra
suprematista, nativista e fascistoide, rampante in tutto il mondo?
Perché, cerco di spiegarvelo, sono Richelieu “tigri di
carta”.
C'è
comunque chi assicura di avere visto il biondo e corpulento
“Lucifero di Breitbart” (il sito on line di “fake news”
finora più efficace della storia che si è avvalso di protettori ben
globalizzati) intrufolarsi subdolamente nella platea del Palazzo del
Cinema, ma più per citare, da cinefilo quale è, i tic nevrotici di
Terrence Malick, che per paura di una sinistra festivaliera, che
sembra sparita, o di una destra giustizialista. Ma le polemiche
suscitate a New York e Londra dopo il doppio invito del New
Yorker e dell'Economist
e il boicottaggio dei loro festival da parte di Jim Carrey, Judd
Apatow, Laurie Penny e Ally Fog che si rifiutano di discutere con
questo nuovo prototipo di un-american,
gli devono aver consigliato il profilo bassissimo.
Eppure
della “requisitoria” di Errol Morris, 95' di interrogatorio in un
hangar d'aeroporto (per citare Cielo di fuoco,
il film preferito da Bannon), opera prudentemente collocata fuori
concorso da Barbera, il Falstaff di Trump (il Presidente si è poi
sbarazzato del suo acuto giullare) è il protagonista assoluto.
Qualcuno aggiunge stupito, non in qualità di imputato ma di
interrogato mai troppo incalzato (se non attraverso la
sovrimpressione dei titoli di giornali on line che commentano a
raffica, approfondiscono e contestano le sue affermazioni: ma solo
gli esperti in videogame riescono a seguire tutto senza giramenti di
testa). Bannon oltrettutto di dice uno sfegatato ammiratore di The
fog of War e condanna il partito
democratico per aver mandato a morire proletari nelle due guerre
mondiali e in Vietnam. Dimenticando la repubblicana guerra di Corea,
di Afghanistan e Iraq....
Certo,
Morris non è un umorista d'assalto, come Michael Moore, non
aggredisce, lascia piuttosto ai suoi soggetti la parola, in modo che
quel che dicono venga usato contro di loro. O, almeno, rende un po'
più aromatici e poetici sciovinismo, ignoranza e fanatismo dominanti
(Mike Leigh ci ha ben spiegato in Peterloo perché
il modello democratico applicato in Usa, di derivazione britannico,
permette di far perdere le elezioni a chi le vince con 3 milioni di
voti in più: basta modificare le aree elettorali e usare con astuzia
il maggioritario contro candidate precedentemente “distratte”).
Morris
h applicato il suo metodo di lavoro, con risultati stupefacenti, con
McNamara, di cui abbiamo ben compreso prima di The Post
la teoria della minimizzazione delle perdite in Vietnam (120 mila
morti in Corea si ridussero a 60 mila), e, con risultati più
modesti, con Rumsfield, che della gang Bush jr. è stato un
pericoloso stratega, l'untore del radicalismo islamista nel pianeta e
un ambiguo nemico-amico dell'Isis.
Bannon,
come Trump e come Reagan è un politico sui generis. La triade viene
dal mondo dello spettacolo (che è però solo un comparto minore dei
megaconglomerati ingegneristico-managerial-finanziari). Reagan ex
attore del cinema, Bannon ex regista di film di propaganda e
organizzatore di “festival del cinema conservatore”, affinché
anche la destra comprenda che la cultura (bitcoin compresi) deve
guidare la politica; e Trump un ex divo della televisione e icona pop
ben prima di convincere i suoi concittadini a portare alla Casa
Bianca lui, erede di papponi del Clondike, perennemente rispettoso di
quei valori aviti, anima della civiltà cristiana bianca. Ed è
proprio alla Hollywood classica degli anni 20-50, e ai suoi divi
mitici, John Wayne, Gregory Peck e Henry Fonda (così giocondamente
fraintesi), che, come gli squadristi di Act of Killing,
Bannon si ispira per raccontare
la sua fisolofia ed etica. Secondo Bannon, ammiratore di Napoleone e
della Brexit, la globalizzazione provoca una reazione dal basso che
senza immediati e radicali cambiamenti potrebbe sfociare in una
pericolosa rivoluzione sociale. Conferma, in questo senso, che contro
Sanders lo scontro poteva essere perdente, mentre Hillary è caduta
nella loro trappola, perché impossibilitata a rispondere con
soluzioni concrete (muro, dazi, America First) ai diktat del mercato
globale. Si ha l'impressione che Morris voglia rispondere a Bannon
cone le sue stesse armi. Producendo con il suo film un “sovraccarico
sensoriale” che intontisca l'avversario (e il pubblico non esperto
in informazione digitale). E utilizzi contro l'ammiratore di Alec
Guiness e di Un ponte sul fiume Kwai
e di Kubrick di Orizzonti di gloria,
che molto poco hanno a che fare con la Hollywood classica, l'identica
unità di combattimento che il generale Savage (Gregory Peck)
ottimizza in Cielo di fuoco di
Henry King (1949) l'unità di bombardieri 918. “Peck non è il mio
mito, ma ha inventato la comunicazione moderna. A costo di farsi
odiare utilizzare l'arma emozionale. Fuori uscire da sé, quando in
gioco c'è il destino della Nazione. Diventare pedine del Fato.
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