Fist Man, film d'azione, ma“da
fermo” (*)
Roberto Silvestri
Venezia
Soggetto a frequenti cambiamenti di
umore. E' la definizione di “lunatico”. Non c'è oggi attore più
adatto di Ryan Gosling, il più sobrio e “medio” tra i corpi
dall'indecifrabile inquietudine, ad andare sulla Luna e a impersonare
per 135 minuti Neil Armstrong, il primo dei non tanti astronauti ad
avere passeggiato sul nostro satellite. Circa 50 anni fa. Accade nel
bio-pic First Man, film non musicale di Damien Chazelle (il
regista feticcio di Gosling questa volta non è responsabile della
sceneggiatura), prodotto da Steven Spielberg, che apre senza
esplosioni il concorso di Venezia 75 ma torna sull'impresa spaziale
più sensazionale, pericolosa e “stravista” della storia Nasa,
preparata fin dal 1961, quella che permise, non senza difficoltà,
tragedie e polemiche, il famoso “sorpasso” sull'Urss di Gagarin.
Indimenticabile quella nottata del 20
luglio 69, che in Italia è legata a ben altra personalità (Tito
Stagno) ma che per la prima volta incollò agli schermi tv l'intera
umanità (Albania e Cina escluse). Troppo costosa, “inutile” e
addirittura “falsa” impresa per deviare l'opinione pubblica dalla
feroce aggressione Usa in Vietnam, come ci hanno raccontato nel corso
degli anni tanti film hollywoodiani antisistemici, da The Right
Stuff a Capricorn One, e
odiatissima dai radicali
african-american, come si ricorda anche qui, ma solo per sfotterli?
Oppure
l'ennesima riproposizione del
mito della Frontiera: una volta stabilito l'ordine, la casa, la
famiglia, il buon vicinato e i confini, ecco che l'uomo abbandona
tutto e riparte? Un inno all'individualismo americano (maschile) che
si inebria solo di sfide impossibili, come affermò Kennedy, e che
scopre, finita l'epopea del West, un altro orizzonte da conquistare
(e, per ora, con perdite irrisorie)? La space-opera cerca di piacere
a tutti e due i palati. Bipartizan.
Alcuni
film più o meno recenti hanno buttato nella spazzatura non poca
paccottiglia ideologica legata al Mito spaziale, come Il
diritto di contare, sull'indispensabile
contributo di 4 matematiche
african-american alla riuscita del progetto Apollo - insomma non
c'erano solo donne in lacrime che aspettano pregando, come in Apollo
13 di Ron Howard - o come Space
Cowboys (2000) che ha chiarito,
sotto una patina satirica di 4 eroi “da rottamare”, gli intenti
squisitamente militari di quegli ingenti investimenti da guerra
fredda. Doveva proprio dirigerlo Clint Eastwood anche questo film, ma
la sostanza poco dark e troppo sit-com del progetto deve averlo
respinto. In fondo è la storia di un uomo che deve concentrarsi per
8 anni sulle cifre e sulle variabili impreviste del suo corpo e dei
corpi celesti e che non riesce mai a lavorare in pace, e proprio
questo “disturbo” gli permetterà di arrivare nel modo giusto
all'incontro giusto con la Storia, mentre i contribuenti, come
ricorda in un materiale di repertorio lo scrittore di fantascienza
Kurt Vonnegut, poco eccitato dall'allunaggio, si chiedono come mai
alla città di Manhattan stiano scippando tutti i finanziamenti
pubblici, lasciando la metropoli deperire, in famelica attesa di un black out...che verrà.
Nonostante
un viso di statuaria immobilità, Gosling non ha rivali
nell'utilizzare le labbra sottili per quelle microvariazioni
di espressione che ne hanno fatto un oggetto erotico dai reconditi
moti interiori. C'è una scena però nella quale Gosling piange a
dirotto, dopo la morte di cancro della piccola figlia. Ed è come un
terremoto. Sembra che l'attore vada in mille pezzi. Come neanche
nelle scene di sballottamento continuo durante le simulazioni di volo
spaziale o dentro l'aereo a reazione a Mach 3.2. Senza bisogno di
muoversi troppo per ballare plastic jazz (in La La Land), qui
sono gli altri, i capi, il lavoro, gli amici e la moglie che lo
smuovono e lo stiracchiano: Neil è il primo eroe fermo di un
kolossal d'azione. Il romanzo del premio Pulitzer James R.Hansen che
si butta a capofitto nei rapporti e nei drammi soprattutto famigliari
del grande pilota-ingegnere, è alla base del copione - perennemente
a caccia di battute “politiche” per equilibrare la tensione
interiore - di Josh Singer, che sta da tempo rimuginando sul
Sessantotto, sue origini (The Post), umorismo (First man)
e conseguenze (Spotlight).
L'agonia di Stefano Cucchi
Sulla mia pelle, di
Alessio Cremonini, è un altro film “one man show”. Un requiem
concentrato interamente e quasi cristologicamente sulla performance
dell'attore maschile protagonista, l'ottimo Alessandro Borghi. Il
soggetto del film (sezione Orizzonti) è il corpo di Stefano Cucchi
massacrato di botte, soprattutto il viso tumefatto e la schiena
spezzata. Autori del crimine? La benemerita. Per mano di 5
carabinieri, di cui due in borghese, anche se la scena di selvaggio
regolamento fascista dei conti in una cella chiusa si intuisce
solamente, non la vediamo e avremmo dovuto invece vederla. Cucchi,
una delle tante, troppe vittime dell'impunità di cui godono le forze
(incontrollabili) dell'ordine. Ma l'unica su cui si è fatta, forse,
giustizia, 9 anni dopo i fatti e solo grazie alla forza d'animo e
alla lucida determinazione della sorella di Cucchi (interpretata da
Jasmine Trinca con la solita asciuttezza e precisione gestuale e
emotiva) capace di smantellare una dopo l'altra tutte le
ricostruzioni giudiziarie congegnate per depistarci dalla verità. Il
vero grande film politico è stato quello iniziato dopo la fine di
questo film. Ma non lo vedremo. Cinepresa invece puntata, giorno dopo
giorno, sull'odissea tragica di quel corpo imprigionato che va verso
la morte, affogato da una musica schizoide, dove il piano soccorre e
accarezza e l'elettronica minaccia, senza che nessuno dei 140 testimoni oculari - magistrati,
infermieri, dottori, guardie carcerarie, avvocati, genitori, stampa,
politici, compagni di cella e lo stesso Stefano....- abbia il
coraggio o la possibilità di deviare la forza del destino. I
carabinieri godono forse di una speciale impunità “secretata”?
Non mi ricordo di averlo imparato a scuola. Cremonini gioca poi sul
“tra le righe” e il “non detto”, evidentemente ben
consigliato dagli avvocati della pellicola. Quale è infatti il
movente del delitto Cucchi così apparentemente insensato? Sadismo
poliziesco criminale gratuito? Nostalgia dell'ubriacatura Diaz? O
piuttosto interferenze tra la piccola fastidiosa manovalanza della
droga leggera e “dal basso” con chi controlla il grande giro
“alto” e pesante protetto da divise intoccabili? Il film di
Cremonini non ha le prove, ma lo fa capire. Va visto obliquamente.
Ps. Netflix ha prodotto il film. Dunque né con lo stato né con i privati italiani (che senza stato non esisterebbero) si può realizzare un film come questo, che non deve, prima di circolare, chiedere il nulla osta dell'Arma. E questo fatto basta per trovare ridicole le proteste di autori e distributori, produttori ed esercenti italiani, di destra, centro sinistrra e estrema sinistra contro Netflix. Che andrebbe criticata quando caccia Kevin Spacey come se fosse una strega dai suoi palinsesti non quando produce opere di livello che nessun altro avrebbe il coraggio di produrre. Merito del Web. Che è diventato per molti italiani il cinema dentro casa anche perché sotto casa il cinema non c'è più.
Jasmine Trinca, la sorella di Cucchi in Sulla mia pelle |
(*) da Alfabeta2
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