giovedì 20 settembre 2018

Mostra di Venezia 75. Chazelle astronauta e Cucchi, passione e morte



Fist Man, film d'azione, ma“da fermo” (*)

Roberto Silvestri
Venezia





Soggetto a frequenti cambiamenti di umore. E' la definizione di “lunatico”. Non c'è oggi attore più adatto di Ryan Gosling, il più sobrio e “medio” tra i corpi dall'indecifrabile inquietudine, ad andare sulla Luna e a impersonare per 135 minuti Neil Armstrong, il primo dei non tanti astronauti ad avere passeggiato sul nostro satellite. Circa 50 anni fa. Accade nel bio-pic First Man, film non musicale di Damien Chazelle (il regista feticcio di Gosling questa volta non è responsabile della sceneggiatura), prodotto da Steven Spielberg, che apre senza esplosioni il concorso di Venezia 75 ma torna sull'impresa spaziale più sensazionale, pericolosa e “stravista” della storia Nasa, preparata fin dal 1961, quella che permise, non senza difficoltà, tragedie e polemiche, il famoso “sorpasso” sull'Urss di Gagarin.
Indimenticabile quella nottata del 20 luglio 69, che in Italia è legata a ben altra personalità (Tito Stagno) ma che per la prima volta incollò agli schermi tv l'intera umanità (Albania e Cina escluse). Troppo costosa, “inutile” e addirittura “falsa” impresa per deviare l'opinione pubblica dalla feroce aggressione Usa in Vietnam, come ci hanno raccontato nel corso degli anni tanti film hollywoodiani antisistemici, da The Right Stuff a Capricorn One, e odiatissima dai radicali african-american, come si ricorda anche qui, ma solo per sfotterli?
Oppure l'ennesima riproposizione del mito della Frontiera: una volta stabilito l'ordine, la casa, la famiglia, il buon vicinato e i confini, ecco che l'uomo abbandona tutto e riparte? Un inno all'individualismo americano (maschile) che si inebria solo di sfide impossibili, come affermò Kennedy, e che scopre, finita l'epopea del West, un altro orizzonte da conquistare (e, per ora, con perdite irrisorie)? La space-opera cerca di piacere a tutti e due i palati. Bipartizan.
Alcuni film più o meno recenti hanno buttato nella spazzatura non poca paccottiglia ideologica legata al Mito spaziale, come Il diritto di contare, sull'indispensabile contributo di 4 matematiche african-american alla riuscita del progetto Apollo - insomma non c'erano solo donne in lacrime che aspettano pregando, come in Apollo 13 di Ron Howard - o come Space Cowboys (2000) che ha chiarito, sotto una patina satirica di 4 eroi “da rottamare”, gli intenti squisitamente militari di quegli ingenti investimenti da guerra fredda. Doveva proprio dirigerlo Clint Eastwood anche questo film, ma la sostanza poco dark e troppo sit-com del progetto deve averlo respinto. In fondo è la storia di un uomo che deve concentrarsi per 8 anni sulle cifre e sulle variabili impreviste del suo corpo e dei corpi celesti e che non riesce mai a lavorare in pace, e proprio questo “disturbo” gli permetterà di arrivare nel modo giusto all'incontro giusto con la Storia, mentre i contribuenti, come ricorda in un materiale di repertorio lo scrittore di fantascienza Kurt Vonnegut, poco eccitato dall'allunaggio, si chiedono come mai alla città di Manhattan stiano scippando tutti i finanziamenti pubblici, lasciando la metropoli deperire, in famelica attesa di un black out...che verrà.
Nonostante un viso di statuaria immobilità, Gosling non ha rivali nell'utilizzare le labbra sottili per quelle microvariazioni di espressione che ne hanno fatto un oggetto erotico dai reconditi moti interiori. C'è una scena però nella quale Gosling piange a dirotto, dopo la morte di cancro della piccola figlia. Ed è come un terremoto. Sembra che l'attore vada in mille pezzi. Come neanche nelle scene di sballottamento continuo durante le simulazioni di volo spaziale o dentro l'aereo a reazione a Mach 3.2. Senza bisogno di muoversi troppo per ballare plastic jazz (in La La Land), qui sono gli altri, i capi, il lavoro, gli amici e la moglie che lo smuovono e lo stiracchiano: Neil è il primo eroe fermo di un kolossal d'azione. Il romanzo del premio Pulitzer James R.Hansen che si butta a capofitto nei rapporti e nei drammi soprattutto famigliari del grande pilota-ingegnere, è alla base del copione - perennemente a caccia di battute “politiche” per equilibrare la tensione interiore - di Josh Singer, che sta da tempo rimuginando sul Sessantotto, sue origini (The Post), umorismo (First man) e conseguenze (Spotlight).



L'agonia di Stefano Cucchi



Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini, è un altro film “one man show”. Un requiem concentrato interamente e quasi cristologicamente sulla performance dell'attore maschile protagonista, l'ottimo Alessandro Borghi. Il soggetto del film (sezione Orizzonti) è il corpo di Stefano Cucchi massacrato di botte, soprattutto il viso tumefatto e la schiena spezzata. Autori del crimine? La benemerita. Per mano di 5 carabinieri, di cui due in borghese, anche se la scena di selvaggio regolamento fascista dei conti in una cella chiusa si intuisce solamente, non la vediamo e avremmo dovuto invece vederla. Cucchi, una delle tante, troppe vittime dell'impunità di cui godono le forze (incontrollabili) dell'ordine. Ma l'unica su cui si è fatta, forse, giustizia, 9 anni dopo i fatti e solo grazie alla forza d'animo e alla lucida determinazione della sorella di Cucchi (interpretata da Jasmine Trinca con la solita asciuttezza e precisione gestuale e emotiva) capace di smantellare una dopo l'altra tutte le ricostruzioni giudiziarie congegnate per depistarci dalla verità. Il vero grande film politico è stato quello iniziato dopo la fine di questo film. Ma non lo vedremo. Cinepresa invece puntata, giorno dopo giorno, sull'odissea tragica di quel corpo imprigionato che va verso la morte, affogato da una musica schizoide, dove il piano soccorre e accarezza e l'elettronica minaccia, senza che nessuno dei 140 testimoni oculari - magistrati, infermieri, dottori, guardie carcerarie, avvocati, genitori, stampa, politici, compagni di cella e lo stesso Stefano....- abbia il coraggio o la possibilità di deviare la forza del destino. I carabinieri godono forse di una speciale impunità “secretata”? Non mi ricordo di averlo imparato a scuola. Cremonini gioca poi sul “tra le righe” e il “non detto”, evidentemente ben consigliato dagli avvocati della pellicola. Quale è infatti il movente del delitto Cucchi così apparentemente insensato? Sadismo poliziesco criminale gratuito? Nostalgia dell'ubriacatura Diaz? O piuttosto interferenze tra la piccola fastidiosa manovalanza della droga leggera e “dal basso” con chi controlla il grande giro “alto” e pesante protetto da divise intoccabili? Il film di Cremonini non ha le prove, ma lo fa capire. Va visto obliquamente. 


Ps. Netflix ha prodotto il film. Dunque né con lo stato né con i privati italiani (che senza stato non esisterebbero) si può realizzare un film come questo, che non deve, prima di circolare, chiedere il nulla osta dell'Arma. E questo fatto basta per trovare ridicole le proteste di autori e distributori, produttori ed esercenti italiani, di destra, centro sinistrra e estrema sinistra contro Netflix. Che andrebbe criticata quando caccia Kevin Spacey come se fosse una strega dai suoi palinsesti non quando produce opere di livello che nessun altro avrebbe il coraggio di produrre. Merito del Web. Che è diventato per molti italiani il cinema dentro casa anche perché sotto casa il cinema non c'è più.  

Jasmine Trinca, la sorella di Cucchi in Sulla mia pelle


(*) da Alfabeta2

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