giovedì 13 ottobre 2022

"A Cooler Climate" di James Ivory e Giles Gardner apre la Festa di Roma. Premio alla carriera per il regista di "Camera con vista"

Roberto Silvestri Grande partenza a Roma con A cooler climate di James “Solid” Ivory. Un film (appena visto anche al New York Film Festival) profondamente personale. Finalmente Ivory è entrato nella “modernità” espressiva, anche se da molto adulto (Luca Guadagnino ce lo aveva un po’ anticipato in Chiamami col tuo nome, scritto da Ivory). Ma per l’americano Ivory, provinciale e gay nel regno dei boscaioli, non era stato proprio facile fare coming out. Almeno non come per Christopher Isherwood, l’impertinente inglese che scandalizzava i salotti letterari e le spiagge dei surfisti di Los Angeles anni 50, esibendo il suo amante minorenne (ce lo hanno raccontato in Chris & Dan Tina Mascara e Guido Santi). La proiezione di A Cooler Climate (che è anche il titolo di un vecchio tv movie di Susan Seidelman) era affiancata a un grande riconoscimento che il presidente Gianluca Farinelli e la direttora della Festa di Roma, Paola Malanga, gli hanno squisitamente voluto fare. Il premio alla carriera. Invece Solid Ivory è il titolo del suo recente libro di memorie, nelle quali racconta la sua vita e le sue avventure sul set con Maggie Smith, Anthony Hopkins, Vanessa Redgrave, il suo rapporto con il British Style, comprese le musiche commoventi e spigolose di Richard Robbins. Il premio alla carriera della Festa di Roma è stato infatti consegnato oggi al cineasta più nomade e transcontinentale di tutti. James Ivory. 94 anni e 40 film sempre fotogenici all’attivo, unici e sensuali, fuori schema, illuminati dagli attori e dalle attrici più cool e da ambienti e luci chic, e se “accademici” e “classici” appartenenti però a due Accademie e a due classicismi ben contrapposti e da lui quasi fusi: l’Orientale e l’Occidentale. Basta ripensare alle sue opere più note. Party selvaggio, Roseland (dimenticato, ma oggi ci sembra il suo più obliquo, libero e charmant), Gli europei, Quartet, I Bostoniani, Calore e polvere, Camera con vista, Casa Howard, Quel che resta del giorno….
Ivory, cittadino di agiata famiglia industriale dell’Oregon, settore legname, è già coinvolto da piccolo nel mondo magico del cinema (il padre vende legname per i set hollywoodiani della Mgm e se lo porta dietro). Nel nostro immaginario la sua opera è irresistibilmente collegata all’India e all’Oriente meno estremo. Stilisticamente all’adorato modernista Satyajit Ray. Sentimentalmente al suo partner di sempre, il produttore indiano Ismail Merchant (ma in Solid Ivory si svela che il compositore Robbins era anche l'amante di Merchant, un rapporto che non sembra aver minacciato il primato della loro relazione) e alla sua sceneggiatrice indiana, Ruth Prawer Jhabvala…
Testi letterari di pregio, sempre, dietro ai loro lavori, compreso questo, presentato all’Auditorium Parco della Musica. A cooler climate (Un clima più fresco), 75’, accompagnato da un giro melodico minimalista, ripetuto e vivace di Alexandre Desplat, malinconico documentario introspettivo, puzzle di memorie, è l’autobiografia di un corpo represso che si scioglie e cresce molto lontano dall’ambiente claustrofobico natio. Strano, no? Proprio a Kabul. E non può che iniziare proustianamente e affidarsi poi al fascino della prima autobiografia di pregio letterario e pittorico, redatta nei primi anni del XVI secolo, da un condottiero, il mongolo Babur, il conquistatore dell’Afghanistan, poi fondatore della dinastia Moghul, che ha regnato in India per tre secoli, ma anche raffinato scrittore d’avangardia. Ivory ce ne legge molte pagine. A cooler climate, il piacere di un clima favolosamente temperato, accomuna proprio Ivory e Babur (entrambi omosessuali), e prende lo spunto da un anno giovanile trascorso in Afghanistan tanto tempo fa. Inizia con il regista che oggi, intento al trasloco dalla sua casa stile coloniale (ovviamente) americana, un po’ screpolata, ritrova in una cassa le pizze piuttosto scolorite nonostante i ritocchi digitali di un film mai montato, che sarebbe stata la sua opera terza, del 1960, sequenze girate a Kabul, nei dintorni, sul fiume, nelle campagne, prima dell’invasione sovietica, della resistenza talebana, degli americani, dei mujaheddin…. Diventa uno stupendo documentario raccontato fuori campo in prima persona singolare maschile gay (non solo illustrato dunque dal suo archivio privato di immagini a colori), e diretto, per pudore penso, con il montatore inglese Giles Gardner (che in Afghanistan nel 2018 ha scritto con Sara Mahni “Mille ragazze come me”, un doc sulle figlie molestate e violentate dai padri, poi protetti nei tribunali da un sistema giudiziario patriarcale).
Alla ricerca del tempo perduto Ivory lo ha letto proprio mentre viveva a Kabul e la scrittura di Proust evoca per lui il raglio del bestiame, la sua madeleine privata acustica, visto che si trovava in un paese per il 99% rurale, che ambiva alla modernizzazione (strade finanziate dagli americani, dighe dai sovietici, entrambi pronti ad assaltare quello strategico ma indocile territorio) ma manteneva tracce coriacee del secolare passato, come il girovagare del bestiame tra gli autobus pubblici e il chador e il burqa non più obbligatori, ma vivamente consigliati alle donne. In quel momento Ivory aveva all’attivo solo due documentari, uno dedicato alle bellezze di Venezia e un corto sulle antiche miniature indiane. Ed era atterrato in un paese lontano (che non era ancora la meta fissa del turismo hippies, inebriato dall’hascisc, dall’afghano nero e dai suoi poteri lisergici) e nell’aeroporto più disagevole e abbandonato del mondo, oltretutto lontano dalla capitale, solo perché affascinato proprio dal leggendario clima di quel paese, “il migliore del mondo”, temperatura mai superiore ai 30 gradi, “si dormiva con le coperte anche d’estate”.
Città bruttina, senza monumenti di rilievo, Kabul, circondata però da montagne magnifiche che conservano le vestigia della muraglia edificata da quel grande conquistatore mongolo, morto a 48 anni, discendente diretto di Tamerlano. Esotismo zero, nel testo e nelle immagini. Il ricordo, invece, dell’estrema l’avversione per il cibo, un incubo per il suo apparato digerente, molte scene di vita quotidiana cittadina e rurale, come l’arrivo a Kabul dal Pakistana di una signora inglese cliente fissa dei parrucchieri locali, altro che Karachi, e che lui riaccompagnerà a casa in auto, o bimbi che giocano nel fiume lanciandosi come fosse un pallone la testa mozzata di una capra. Sono però i giovani adorati amanti maschi di Babur, raffigurati negli antichi libri illustrati a guidare e ispirare Ivory nei suoi ricordi, il vagabondaggio intellettuale dell'imperatore nei vicoli della città, l’incontro con un quasi mendicante malvestito che offriva la rosa al sovrano e poi spariva, in contrapposizione alle sue avventure sensuali o eroticamente abbozzate tra i sunniti, e soprattutto in contrasto con i traumi infantili, alla derisione in Oregon dei suoi coetanei quando, per Natale, affermò in classe che, come regalo, non voleva fucili, ma una “casa di bambole” da decorare minuziosamente (era già l’ossessione scenografica, e non per le “bambole”, a ispirarlo) . Grazie Kabul, per la via di fuga che gli hai regalato, per quella spinta ricevuta verso l’autorealizzazione, anche creativa, data a un cineasta ormai pronto a regalarci le grandi narrazioni cinematografiche che hanno poi conquistato i prestigiosi festival negli anni 80 e 90. Grazie anche per quella statua di Buddha sopravvissuta per migliaia di anni ed eternizzata in questo film, anche se i talebani l’hanno sbriciolata nel 2001. Il momento più toccante del film è quando Ivory racconta l’incontro con due uomini afgani, l’amicizia rapida, l’invito casa, James che si chiede: “chissà se faremo sesso”, in un misto di desiderio e paura. Non lo faranno. Almeno questo ci dice il film.

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