'L'albero della vita' era inizialmente unito, secondo l'esegesi ebraica, all'albero della conoscenza del bene e del male, ma in seguito Abramo ne separò, rizomatico com'era, le radici.
James Cameron, blasfemo, le ha riunificate in Avatar, praticando lo slogan “la metamorfosi, a innesto avulso, è praticabile”, e Terrence Malick si è occupato di delocalizzarci da ogni 'genius loci', con gesto nichilista, costruttivo e cosmico, che risponde sì alla domanda: 'un altro mondo è pianificabile?' ma ci avverte contemporaneamente che non c'è ricordo del futuro senza viaggio eccentrico nel passato.
Il tentativo reazionarietto di separarle di nuovo, quelle radici, lasciandoci in balia della depressione, della disperazione, della morte e del giudizio di dio (colpevolista) se lo è assunto con la consueta modestia di fraseggio Lars von Trier in Melancholia, film apocalittico di fantascienza senza 3d (né schermi al plasma, né cellulari), diviso in tre parti. Un prologo paratestuale, in sostanza i titoli di testa che riassumono in 5 minuti tutto il film in suggestivi quadri pittorici dagli ideogrammi egizi a Dalì (sul leit motif di Wagner) e due lunghe parti narrative, la prima una sinfonia compatta e concentrata, come le precedenti commedie nere Zentropa, e dedicata a Justine (Kirsten Dust, dopo il no di Penelope Cruz), agente segreto in azione contro ogni sontuoso matrimonio borghese; e la seconda, più poema sinfonico libero, arabescato, necrofilo e estetizzante, a dissonanze progressive, ma senza effettacci soliti, dominata da Claire (Charlotte Gainsbourg), donna 'incapace di attendere', officiante dell'estenuante rito pagano che porterà alla catastrofe definitiva, alla Terra che esplode dopo la collusione con il pianeta Melancholia del titolo.
Un requiem al mondo capovolto dalle donne, rappresentate da due sorelle sterminatrici, capaci di deviare il corso degli astri alla faccia di ogni previsione scientifica (dunque maschile). E, come nelle epopee sulla decadenza aristocratica compianta da Visconti, citato da von Trier imitatore di Vinterberg, qui l'home movie è sulla borghesia, che non ha più classi sociali organizzatrici del nuovo cui cedere il comando, per quanto volgari e terroriste siano, e che non è neppure da rimpiangere.
L'espressionismo mitologico di Wagner, e la caduta degli dei- uomini, domina questo film da Palma perduta.
Invece c'è più romanticismo Debussy, impressionismo panteista, le micro e macro influenze della natura che ci guidano verso l'illuminazione, se l'uomo imparerà a pianificare di meno e ad annullarsi di più nell'estasi e nel gioco zen, e ritrova lo sguardo perduto, nel didattico Hanezu, in gara per il Giappone, un film come al solito di sensazioni e suggestioni sottili, senza musiche e azioni, visto che è l'opera sesta di Naomi Kawase: una storia d'amore non lineare lega Takumi a Kayoko, eredi delle speranze dei loro nonni, mentre il fantasma di un antenato perduto in guerra e un uccellino che si è annidato sul condizionatore d'aria De Longhi del soffitto, rendono ellittiche le loro psicologie.
E' un film-acquerello sui dintorni campestri e montagnosi di Nara, circondate dai monti Unebi, Miminashi e Kagu. E secondo la leggenda Unebi era amata da Miminashi, ma anche Kagu spasimava per lei... Le montagne viventi, come una rappresentazione del karma umano, della battaglia furiosa che si svolge nel cuore di ciascuno di noi.
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