sabato 12 settembre 2015

I premi. W il nuovo Venezuela (nonostante tutto)

Roberto Silvestri

Venezia

Ha stravinto il cinema dell'America Latina. Con due bei drammi grondanti sangue e vita nuda, come in un affresco di Masolino, striate da profonde metafore storico politiche, ma sottopelle, con una capacità di fabbricare suspense aritmica, estranea a ogni canone di genere. Giuria, ben fatto. Anche se il Rabin di Gitai durerà più a lungo nei ricordi. Ma quel che inebria i festival di categoria super A sono proprio le commedie e le tragedia, fatte strane, diversamente, i film civili ma con un certo non so che.  Come il film turco che ha vinto il premio speciale della giuria. Imperfetto, dark, affilatissimo.
E a film così sono stati assegnati tutti gli altri premi: a un cartone animato atipico, a un melodramma sessualmente capovolto come quello di Gaudino (mattatrice Valeria Golino, ai livelli delle sue stravaganze con Pee Wee e della sua prima coppa Volpi, che Citto Maselli le cucì addosso), a una commedia che consacra Fabrice Luchini, sicuramente l'unico al mondo che riesce a ricreare in tutte le sue sfumature e contraddizioni, perfettamente "Fabrice Luchini", che incarna da 30 anni - con un sarcasmo al vetriolo identico a quello dell'attrice che ha presentato la cerimonia di chiusura -  tutta la crudeltà e la misantropia, il calore e la sensibilità, il cinismo bonario della civiltà euro-latina. Il suo giudice è un grande mostro.
Insomma Venezia 72 ha rispettato il progetto. Indica una "seconda via" per riempire le sale commerciali di opere competitive con il cinema mainstream e di genere locale o con Hollywood, e non con film troppo difficili e fuori generi (i documentari rigorosi, per esempio, o i film esplicitamente da galleria d'arte, o gli home movie, per quanto ci scortichino vivi  come quello di Laurie Anderson).
Dunque. Leone d'oro a Da Lontano di Lorenzo Vigas, venezuelano, 48 anni, documentarista e cortista scoperto a Cannes, Leone d'argento a Pablo Trapero che invece fu consacrato a Venezia, Settimana della Critica (circa venti anni fa, quando Silvana Silvestri scovò Mondo Grua che vinse). E per la prima volta scopriamo l'esistenza di un cinema venezuelano. Mai approdato a Venezia e, in fondo, neanche a Cannes (se non come produttore). Noi credevamo che il cinema di Caracas si fermasse a Franco Rubartelli.... Merito di Chavez che ha sviluppato finalmente una cinematografia nazionale proibita dalle dittature liberali, proprio come Castro fece con quella cubana? Merito di un film aspro, ma non troppo, pasoliniano, ma non troppo, che in fondo ci spiega sotto traccia (il racconto si focalizza su un uomo traumatizzato da violenze domestiche subite in gioventù che cerca di ritrovare faticosamente, senza riuscirci, una strada di redenzione e d'amore) come il Venezuela ha cercato di distruggere i suoi figli, oggi ribelli; come la borghesia corrotta e servile ha impedito per decenni con la forza e con la repressione militare di far vivere decentemente e dinamizzare tutto il paese. Di politici che hanno istigato alla guerriglia urbana e rurale, ottimo escamotage per allargare i profitti. E ci avvicina a un paese vivo che se oggi si ribella, anche maldestramente, è anche per colpa di antichi traumi che ne hanno deformato a lungo la psiche collettiva. La presenza del direttore della fotografia dei film di Pablo Larrein (Tony Manero in particolare) conferma la volontà di fare di questo film un manifesto di nuovo cinema latinoamericano: "E' vero, abbiamo molti problemi nel nostro paese . ha detto il regista ricevendo il leone d'oro -  ma stiamo cercando di risolverli. E' vero che il Venezuela è anche infelice ma è un paese meraviglioso". Ovvio che solo un cineasta latino americano poteva affascinare i suoi colleghi spiegando il perché delle loro good vibrations vedendo il film. Un cineasta messicano, emigrante di lusso a Los Angeles, dove è arrivato con le sue scarpe, Alfonso Cuaron che deve avere ipnotizzato i suoi colleghi della giuria. Quando una personalità forte non ha rivali il verdetto accontenta quasi tutti. Chi meglio di lui poteva spiegare le complesse metafore che si nascondono dentro un film su problemi e tragedie del sottosviluppo sudamericano? 
Per il secondo anno consecutivo abbiamo la sensazione di non aver visto i due migliori film del festival. Il palinsesto della Mostra di Venezia deve essere organizzato proprio male. E qualche errore nella lista dei film in gara e dei film fuori gara è stato commesso.
I film della sezione Orizzonti, infatti - affidati poi a una supergiuria guidata da Jonathan Demme e Charles Burnett, ovvero i migliori cineasti statunitensi della generazione anni 70 e della Black Renaissence californiana - sono inseriti in modo tale nel programma che se anche si vedono tre film al giorno e ci si scrive sopra è difficile imbattersi in Free in deed (Libero di agire) il film super indie e a basso costo diretto dal neozelandese Jake Mahaffy (e coprodotto dagli Usa perché Mahaffy ha vinto premi al Sundance e al Sxsw, il festival di Austin Texas che sta crescendo di interesse e di importanza di anno in anno) e in The childood of a leader , di un altro gioiellino del Sundance, il newyorkese Brady Corbet, 27 anni. A Cannes molti film del Certain Regard, la sezione qui più o meno fotocopiata, sono inseriti in maniera da essere visti. Per esempio la proiezione stampa della mattina è unica. Certo, è più faticoso per i critici (e la sala è zeppa, mentre a Venenzia sembra che sia semi deserta perchè è raddoppiata subito dopo). La qualità di Orizzonti è confermata da un film che i cinefili certo hanno visto perché il brasiliano Gabriel Mascaro, qui premio speciale a conferma della superiorità delle immagini latino-americano a Venenzia 72, aveva vinto l'anno scorso il festival di Locarno. Il suo atteso (ma non dagli esperti di Barbera) Boi Neon conferma non solo la qualità di narratore orginale e antropologicamente ben radicato dentro il road movie che ha originato e scatenato (l'ambiente è quello dei cowboys dei dintorni di Recife e dei rodei delle Vaqueiadas) ma anche la definitiva metabolizzazione del cinema novo che non è più il codice da evitare e da cancellare, il cinema "di papà", per quanto pazzoide, di cui fare a meno se si vuole crescere con le propie gambe, ma un serbatoio di immensa suggestioni e passioni etiche, estetiche e erotiche da repuperare, e maneggiare ormai senza alcuna soggezione. 

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