venerdì 4 settembre 2015

Sokurov al Louvre. Perplesso

Francofonia. Per chi non afferrasse il concetto
Roberto Silvestri
Venezia

Dai film impariamo molte cose. E i festival fanno un po' da periodici corso di aggiornamento. Motti di spirito, detti popolari e saggezza impopolare, informazioni destabilizzanti, cose false ma suggestive, comportamenti utili, affascinanti, anticonformisti. Mai senza bloc notes in sala buia. Gli sceneggiatori, in costante gara di originalità, sono costretti a scovare storie, ed  eccentricità per aromatizzare quei plot, che più saltino all'occhio. Dal grasso di vacca, "senza il quale non si produce mai un buon gelato" (Neon Bull di Gabriel Mascaro, un bel film brasiliano - scuola Recife - presentato per errore nella sezione Orizzonti e non in gara, un omaggio vaccaro al cinema novo tendenza Cacà Diegues, quello di Bye Bye Brasil, Tir delle magie compreso), al 50% dei sacerdoti della diocesi di Boston (che sono circa 1000) che eludono il voto di castità, ma solo il 6% in stile pedofilo drastico; dal "sedano, ottimo compagno di lavoro delle prostitute" (Black Mass di Scott Cooper, con Johnny Depp) ai 2000 dollari a settimana pagati da una ricca novantottenne bianca per finire i suoi giorni in un ospizio del Queens, New York City. Costa caro morire, almeno quannto vivere per un non wasp, a giudicare da uno dei frammenti di In Jackson Height di Frederick Wiseman, impressionante doc fuori concorso sull'America "terra di libertà, democrazia, voto libero e tolleranza", ma anche omofoba, classista, razzista, poliziesca, corrotta e tanto tanto ipocrita.
Ma oggi è la giornata di Alexander Sokurov e del suo Francofonia, un film transgender (documentario, fiction, film-saggio, home movie perfino) che è stato respinto da Cannes perché irrispettoso, almeno così hanno pensato Lescure e Fremaux, della Francia e dei suoi grandiosi Miti: la Rivoluzione, Marianna, Napoleone, la Resistenza e perfino il Louvre, l'ex residenza dei Re, trasformata poco prima di Marianna in un museo del popolo, costantemente ampliato architettonicamente e ingigantito urbanisticamente fino a diventare infine il più grande spazio d'arte del mondo, e che quei miti li custodisce e li sintetizza tutti.
Il Louvre è al centro della storia. Anzi l'isituzione stessa ha coprodotto l'opera. E il centro del centro è nel 1940, con l'occupazione tedesca della Francia, quando Hitler commissaria l'edificio, mantendo alla guida un direttore francese che nel frattempo ha nascosto in vari castelli del paese la maggior parte delle preziose collezioni. Conservatore francese e amministratore nazista incaricato della salvaguardia del patrimonio culturale "europeo" si incontrano, si stimano e collaborano tranquillamnente. E Sokurov utilizza nelle prime scene le celebre immagini dei nazisti che occupano una Parigi "città aperta" completamente deserta, le stesse sequenze di Casablanca: l'SS a cavallo coi tamburoni, i plotoni sugli Champs Elisees, i generali della Werhmacht "ospiti" del Ritz Hotel, Hitler che ammira la torre Eiffel (irresistibile la tentazione di giocarci sopra con lo stile della commedia all'italiana, perfino per un cineasta raffinato come lo sfregiatore del Faust), le musichette marziali che poi Russ Meyer ci ha tramandato ai posteri, ridipinti di pop, nei suoi celebri soft porno. E i francesi dove sono? In fuga. Scappati. Nascosti. O tutti a Vichy, a  rendere omaggio al collaborazionista Petain che ha salvato la Francia e Parigi dai bombardamenti e dalla distruzione totale. Non come Londra. Non come Rotterdam. Perché si chiede Sokurov? Perché Parigi e Berlino sono parenti serpenti ma incarnano perfettamente lo spirito dell'Europa e una identica cultura. Le distruzioni, i bombardamenti, i massacri sono tutti dedicati al fronte orientale, perché è lì il vero nemico dell'Occidente, il bolscevismo. Leningrado e il suo Hermitage saranno sotto assedio perenne. Ma anche lì, per fortuna, i quadri sono spariti. Messi in salvo. Come a Palmira. Se il direttore non parla, lo si uccide. Ma se collabora tutto va bene. Non c'è nel film di Sokurov, che pure sembra voler essere storicamente corretto e filologicamente completo, nulla che si riferisca alle gigantesche delocalizzazioni di opere d'arte trasferite in Germania, di cui abbiamo saputo nei più umili, apparetemente, ma molto più feroci Monument Men e Il colonnello von Ryan. Insomma avete presente Il silenzio del mare? Qui è come se Melville, all'arrivo del colto e sofisticato generale nazista, avesse chiesto alla sua coppia di coniugi francesi di mostrarsi sinceramente contenti. Il problema del film, a parte la ingloriosa censura dei fatti accaduti al Louvre durante la Comune di Parigi (quando furono proprio i borghesi a mettere a repentaglio i tesori dell'arte mondiale, del tutto secondari quando si tratta di riafferrare la Borsa e le industrie) e la cattiva comprensione dell'arte europea non da parte di Sokurov ma della generazione sovietica deformata dal realismo socialista. E dalla incapacità di afferrare la rivoluzione dell'umanesimo e del rinascimento. Da qui il lungo monologo iniziale su ciò che differenzia la pittura europea da quella islamica. L'ossessione del ritratto e dello sguardo. Ciò che una parte della cultura islamica giudica blasfemo. Non si rappresenta l'uomo, perché sarebbe come rappresentare l'Eterno che lo ha creato. E' proprio quella sfida prometeica che ha aperto altre prospettive al di là della fissità iconica della rappresentazione sacra bizantina. Con quello sguardo mai individuale, sempre assoluto.Il comunismo sovietico ha cercato di far avanzare l'economica del paese, magari forzando le tappe e resistendo a una invasione. Ma non ha avuto il tempo di recuperare il gap culturale con l'europa dell'ovest. Tipica di questa incomprensione il giudizio di Sokurov su chi è il più grande architetto di tutti i tempi. Per lui il più grande vuol dire architetto che fa cose gigantesche. Come il Cremlino.             

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