giovedì 1 settembre 2016

VENEZIA 73. I raptus segreti di Helen. Un documentario sul trobettista jazz Lee Morgan ucciso dalla moglie nel 1972



Roberto Silvestri
VENEZIA


Jazz. Questa volta quello vero. Non come La la land. O vogliamo chiamarla Great Black Classic Music? Fuori concorso nella sezione documentari “I called him Morgan”, diretto da un veterano del genere e fan svedese da sempre, anche se ha solo 44 anni, Kasper Collin, che ci ricorda l'arte sopraffina e la fine tragica di un famoso trombettista african-american, ucciso nel febbraio del 1972, a 33 anni, dalla moglie Helen. Ma che ci parla anche e soprattutto dell'assassina. Le dà la parola. Era proprio lei a chiamarlo Morgan: “Odio il nome Lee”. Veniva dal sud. Le ricordava il generale razzista della guerra civile? Helen era diventata mamma a 13 anni. Moglie a 16. Vedova poco dopo. Raggiunge Manhattan abbandonando i figli in campagna dai nonni. Le piace la metropoli e la buona musica. Non lascerà mai New York. Grande cuoca e abile comunicatrice, come si dice oggi, diventa il punto di riferimento degli artisti e del vicinato tutto. Una forza della natura. La sua casa è sempre aperta a tutti. Anche ai figli che la raggiungono, ormai maggiorenni. Conosce Morgan e il suo giro. Si risposa con lui. Lei troppo più vecchia. 50/30. Ma. Lo salverà dall'eroina quando ormai il trombettista è all'ultimo stadio della degradazione. Lui si rimette in carreggiata.
Lee e Helen (a destra)
Riprende a suonare. Incide dischi indimenticabili. Ma la tradisce con una più giovane e bella anche se ormai, marchio indelebile delle droghe assuefanti, sessualmente non c'è più molto. Lei lo raggiunge al club. Lui sta per suonare una song in omaggio a Angela Davis, imprigionata dai pigs. Lei litiga. Lui la sbatte fuori. Fuori c'è la neve e il gelo. Torna dentro. Lo incrocia. Urla: “voglio il mio compenso”. Gli spara con la pistola nella borsetta, l'arma che lui le aveva regalato affinché si difendesse. L'ambulanza arriva con troppo ritardo. Lui muore. 5 anni di libertà vigilata. Omicidio di secondo grado. Poco no? Strana sentenza. Forse Morgan, a parte le attenuanti generiche, stava sulle palle all'establishment per le sue idee e pratiche radicali e per la sua amicizia con Albert Ayler, che verrà misteriosamente assassinato forse per motivi politici, e con i panther (ma il film tace stranamente su questo aspetto. Eppure Collin ha girato My nome is Albert Ayler...). Chi è nato nel 1972 forse questa materia non la sa proprio maneggiare o gli hanno insegnato a trovarla “ideologica” coloro che di materialistico hanno ben poco. *



Helen tornerà in Nord Carolina. Si dedicherà ad attività benefiche. Andrà all'università per anziani. Conoscerà un professore esperto, oltre che di storia e cultura africana, anche di jazz, che la intervisterà prima della morte, nel 1996. Quei nastri sono la base su cui Collin ha costruito il film. Adornandola con una intervista a Lee, ai suoi colleghi musicisti, ad amici di quartiere, a parenti e all'amante fatale. Oltre alle registrazioni televisive dell'artista superdandy che con Miles Davis e Art Blakey, Thelonious Monk e Wayne Shorter simboleggiò quella particolare atmosfera di cool jazz che fu catturata negli anni 50-60 dall'etichetta (bianca) Blue Note, prima della rivoluzione free che lui contribuì a far nascere.
Erano artisti di tecnica impareggiabile, charmant, meravigliosamente vestiti, sfacciatamente seducenti e stracopiati dai loro omologhi bianchi che, come racconta Leroy Jones, più li invidiavano e più si arricchivano. Moderno, essenziale, straboccante idee, dal virtuosismo fantastico e sorprendente, Lee Morgan era arrivato da da Filadelfia e aveva conquistato subito Manhattan da sedicenne, entrando nell'orchestra di Dizzie Gillespie che non aveva paura di confrontarsi con un ragazzino capace perfino di sopraffarlo. “Vai Lee, racconta la tua storia”. Il jazzista con maggiori capacità narrative ed emotive delle storia, così diceva Art Blakey che lo avrà con sé nei Jazz Messangers e così confermano i suoi colleghi di quartetto e di quintetto, come Jymie Merritt e Wayne Shorter. Quello che manca al film, di produzione svedese dunque la cosa è incomprensibile, però è lo sfondo politico di quegli anni, la fuga dei musicisti radicali in Europa, la repressione durissima del movimento, a cui Morgan partecipò attivamente. Un inquietante vuoto.




* A proposito di ideologia. Da qualche parte, cioé su Film Tv, leggo che il documentario di Munzi sul sessantotto-settantasette sarebbe “sugli anni di piombo”. E magari uno legge la frase e dice: eh già... proprio così......    

Venezia 73. Il film di Wenders girato con la chitarra. Les Beaux Jours d'Aranjuez


Roberto Silvestri
Venezia

Un dialogo estivo, il dramma teatrale senza azione, scritto a colori, e in francese, la lingua prediletta dai sentimenti d'amore, da Peter Handke, Les Beaux Jours d'Aranjuez, è il nuovo lavoro in 3D di Wim Wenders (in concorso). Opera che ci sorprende per la sua apparente semplicità (proprio come quel classico concerto alla chitarra di Segovia, che ci fece scoprire Aranjuez), anch
e se il legame con la scrittura di Handke è antico, conflittuale e profondo. Perché qui è come se il regista tedesco rendesse anche un omaggio alla Francia, e alla sua cultura e lingua. Al cinema straparlato di Rohmer e di quel francofono folle di de Oliveira (c'è Paulo Branco produttore) e perfino alle conversazioni in giardino ai margini della foresta di Michel Lonsdale e dei suoi radicalissimi amici in Detruire dit-elle di Marguerite Duras... E ci sorprende il “divertimento” anche perché a che serve il 3D quando la prospettiva spaziale è così chiara (stanza che da sul giardino, sotto il gazebo di fronte due persone parlano, un cane sotto il tavolo, sullo sfondo un paesaggio che fa intravedere in lontananza Parigi mentre uccelli e insetti attraversano il cielo e la foresta), da non esserci bisogno di marcare la tridimensionalità dello schermo, che è ahimé sempre e solo piatto? Però la tecnologia 3D è così avanzata che ormai l'occhialetto non dà più fastidio e questo gioco che trasforma un esterno in “palcoscenico naturale” a poco a poco avvince. Anche se non siamo nell'Empedocle di Straub-Huillet, è chiaro che il modello inimitabile da imitare è quello. Rigidità di un testo, libertà dei corpi, tragicità della natura. E tutti e tre implicati in un gioco panteista.
Un duetto d'attori, dunque, scandaloso perché intimo, e inquietante perché va in profondità, a scoperchiare “strati geologi profondi” non della femminilità e della mascolinità in generale, ma certamente di questi due personaggi specifici, curiosi e complici in un gioco che li disancora dalle loro corazze simbolico-sessuali. Un gioco tecnicamente arduo, perché bisogna afferrare e non mollare lo sguardo e il tono di voce giusto, con Reda Kateb e Sophie Semin che devono interpretare se stessi ed essere il loro doppio, conversando in un giardino assolato tra la dolce brezza, di viaggi in Spagna e di esperienze sessuali di gioventù, di maschile e di femminile, dell'essenza dell'estate, di vento, uccelli e boschi, mentre lo scrittore crea i dialoghi che ascoltiamo, più sesso lei, più turismo colto lui, ed entrambi alle prese con “racconti immorali". E veste i due personaggi che dialogano, diversificandoli o combaciandoli, a seconda della loro distanza o vicinanza emotiva, sullo sfondo di una villa che si apre su una terrazza, davanti alla scrivania, alla macchina da scrivere (ma con l'ipad al fianco e un juke boxe in corridoio che funziona senza pagare e dove Nick Cave la fa da padrone). Ma l'estate sta finendo...... 

"The Light Between Oceans", e un film alla deriva


Mariuccia Ciotta

VENEZIA

La coppia sullo schermo e nella vita Michael Fassbender-Alicia Vikander val bene Venezia e il suo tappeto rosso. Ma The Light Between Oceans (concorso), che offre ai due grandi attori una prova di recitazione imponente, resta impigliato nelle pagine del romanzo della scrittrice australiana M.L. Stedman al suo debutto, un caso letterario che non sfugge alla DreamWorks, ed è subito film. Il regista 40enne del Colorado Derek Cianfrance firma la sceneggiatura senza riuscire a districare la trama carica di vibrazioni emotive, di spinte e controspinte, di capovolgimenti di fronte a proposito dell'amore e dei suoi crimini.

Australia 1918, cromatismi d'epoca, aplomb da Commonwealth, Tom (Fassbender) ha inciso in faccia la carneficina della Grande guerra e si fa spedire su una roccia desolata, l'isola di Janus, tra l'oceano indiano e quello australe, guardiano di un faro che metaforicamente allude al suo cuore spento. A riaccendere la scintilla è Isabel (Vikander, The Danish girl), che decide di seguirlo da moglie nel deserto dell'isola, e qui la metafora comincia a scricchiolare sotto il peso della realtà. Perché Isabel perde per due volte il figlio atteso in mancanza di un medico o di un aiuto qualsiasi mentre il marito scruta il mare? Perché quando lei è incinta non torna nel continente, dal quale arrivano regolarmente le provviste? Siamo nell'astrazione filosofica, probabilmente, e tutto va verso l'ossessione della madre mancata, che s'impossessa di una neonata arrivata dal mare, su una barca alla deriva, e non vuole cederla alla vera madre (Rachel Weisz). Il feuilleton emerge e ammicca con l'interrogativo posto al lettore-spettatore, fa bene o no Isabel a tenersi la bambina? Sullo sfondo l'odio anti-tedesco, la depressione post-bellica, la solitudine, la preghiera, il lutto... Cianfrance, che ha studiato cinema con il cineasta underground Stan Brakhage, cerca di sperimentare punti di vista multipli, però, la materia visiva da materiali d'archivio, solenne e statica, ha il sopravvento. Resta anche l'intensità drammatica e ammirevole di Fassbender, Vikander e Weisz.



VENEZIA 73. "Arrival" di Denis Villeneuve. "L'estate addosso" di Gabriele Muccino

Roberto Silvestri
VENEZIA

"Se vedessi tutta la mia vita scorrermi davanti, dall'inizio alla fine, cambierei qualcosa?” si chiede il matematico (Jeremy Renner) nel film di fantascienza “intelligente” Arrival di Denis Villeneuve (in concorso), dal romanzo di Ted Chiang Storia della tua vita. E risponde, soprattutto per far colpo sulla avvenente docente in linguistica, la poliglotta Louise (Amy Adams), “farei capire di più cosa provo dentro. Per tutta la vita ho osservato le stelle e scrutato lo spazio. Ma quando finalmente ho incontrato gli alieni la cosa che mi ha sconvolto di più sei stata proprio tu”. Prodotto dalla multinazione Sony, riscritto da Eric Heisserer, questo apologo femminista ma “marziano” che le armonie minimaliste di Johann Johannson dotano di flusso continuo, per introdurre un fatalismo benigno, e le luci di Bradford Young scelgono la strada del tonalismo, che è sempre spiritualmente corretto, ha l'originalità di proseguire l'intuizione di Spielberg. Negli “Incontri ravvicinati” quel che conta è il contatto con chi è diverso, capirsi, poter dialogare. Lì ci si comprendeva grosso modo, attraverso la musica. Ma qui le astronavi che scendono sulla terra pretendono di più e all'apparenza sono molto più minacciose. Dodici giganteschi baccelloni, a forma d'uova color marrone Kiefer, dotati di stratosferica tecnologia che planano ovunque, dalla Spagna al Montana, dalla Cina al Sudan. Cosa vorranno? Hanno cattive intenzioni oppure sono pacifici? I militari americani per una volta hanno l'umiltà di farsi aiutare perché non ci capiscono niente, e “sequestrano” la professoressa che al mondo sa tradurre qualunque cosa meglio di tutti (perfino della collega di Harvard) e la introducono, scafandro incluso, nell'astronave. Riuscirà a comunicare con gli esseri dai sette tentacoli e a forma di piovra oblunga, che sembrano usciti dalle fantasie spaziali di Roger Corman? Non siamo più alle prese, purtroppo, con gli alieni che parlano l'idioma di Shakespeare meglio di Eisenhower. E non basta una linguista, perché emettono suoni concreti sovrimpressi che neanche Edgar Varese saprebbe, oggi, trascrivere. Ci vuole una semiologa, esperta in linguaggi non verbali, dotata di mentalità matematica e soprattutto adepta dell'ipotesi Sapir-Whorf, secondo cui la lingua può cambiare la nostra percezione della realtà e impadronirsi di un idioma diverso che rivitalizzerà tutte le nostre facoltà. Come fosse una droga estetica. Già. La lingua è proprio “come una forma di arte”. La prova? Louise Banks, all'università, sta per darcela, parlando del regno medievale di Galizia dove fu creato il portoghese, lingua romanza che rinnovò l'idioma latino, quando arriva la notizia dell'invasione spaziale. Riuscirà la nostra eroina, segnata dalla vita, ma che dalla tragedia di una figlia morta giovanissima, e dai suoi ricordi di lei, a decodificare segnali segreti transtemporali, a parlare con gli alieni e a capirne le intenzioni? Di che armi stanno parlando? Il finale, con l'arrivo dei cinesi cattivi, è naturalmente bassa ideologia. Ma, siccome il mercato cinese è indispensabile, perfino i cinesi diventeranno buoni. Ma non vi sveliamo come la prenderanno gli ufo né i sudanesi.

Scorrere tutta la vita davanti e decidere se cambiare qualcosa di decisivo è anche il problema del pianista di jazz rigoroso, ma in stato d'allarme, protagonista di La La Land, musical che rischia molto perché ai ragazzi la black classic music proprio non piace più. Infatti la coprotagonista dichiara, sinceramente, “Io odio il jazz”. E lei intende quello che conosce, da ascensore. O da playlist della radio californiana Kjazz 88.1. O quello orchestrato nel film da Jordan Horowitz, il genio dei timbri accattivanti e delle melodie facili, come quelle cromatiche che Linus Sandgren utilizza per fare la parodia visiva del technicolor di John Alton in Un americano a Parigi. Il jazz che vince l'oscar per la migliore song e un jazz che ci insospettisce. E dopo La la land (e Whiplash) lo si odierà ancora di più il jazz, hot o cool. Come se il jazz fosse una compilation di standard orecchiabili per far comunicare popoli dalle lingue differenti, da Misty di Errol Garner a Merci Merci Merci di Cannonball Adderly. Tra addestramento da marine alla batteria e lettura romantica del solista come ottimizzatore finale di arrangiamenti commestibili, quello che viene gettato dalla finestra è la storia profonda di una musica e di una cultura. Però il tono light piace, è commuovente, comunicativo, scolastico in senso di Scola, sa far uscire la lacrimuccia a comando. Gabriele Muccino in L'estate addosso tratta San Francisco proprio come Chazelle Los Angeles. Come cartolina per turisti e cinefili pigri? No, l'europeo che guarda a occhi sgranati il ponte dei suicidi, l'ex carcere di Alcatraz, le strade sali scendi e vi ambienta i suoi natali e capodanni, fa commedia di comici e ha estremo bisogno di set credibile. Muccino racconta invece di sentimenti sommersi e tragicomici. Cose che conosce di prima mano. Il resto è sfondo. Tanto che si dimentica il famoso detto chandleriano: “era un inverno freddo come un'estate a San Francisco”. Ma a lui interessa altro. Per esempio il quasi primo amore tra due diciottenni della Roma nord bene (che a casa si odiano), lo scafato Marco, un futuro veterinario, e la noiosissima Maria, ma bigotta reazionaria solo nell'apparenza, nasce forse e si rafforza un po' in California grazie a quel tocco di magia costituito dalla vacanza, dai loro ospiti, una divertente coppia omosessuale (per una ragazzina sedurre un gay è poi un punto in più di autostima) e dalle circostanze che li obbligano gioco forza (e per lo scherzo da prete di un amico sadico) a condividere lo stesso letto. Quel che nasce in effetti è un rapporto a quattro che è ancora più solido, consapevole, carnoso e profondo di un rapporto d'amore estivo di coppia, e finirà addirittura in un viaggio a Cuba, che rischia lo spot Campari. Matilda Lutz come fiore che nasce dal letame, è davvero imbattibile. 

VENEZIA 73. No no "La La Land"


Mariuccia Ciotta

VENEZIA

Un americano a Parigi o un francese a Hollywood? Tutte e due. Damien Chazelle, 31 anni, nato a Providence, Rhode Island, porta il cognome del padre nato in Francia e studia cinema a Harward dove si insegna Minnelli e il musical fiammeggiante degli anni 50, a giochi cromatici perfetti (Oscar a John Alton), con Gene Kelly che piroetta avvinto a Leslie Caron mentre le fontane zampillano luci e la Senna è un tappeto di acqua ricostruito in Studio. Los Angeles vista dall'università di Boston ha gli stessi cieli dipinti, panorami vertiginosi dall'alto di Muholland Drive e tramonti rossi sul Sunset Boulevard. In questo cinema “amatoriale” si sente il profumo delle origini, il silent-movie che piaceva a un altro regista francese, Michel Hazanavocius di The Artist, tanto che Chazelle usa il mascherino di Méliès per inquadrare Ryan Goslyng e Emma Stone in La La Land, musical in concorso che ha aperto la 73ma Mostra di Venezia.
Valanga di sovrimpressioni con il musical dalle origini a oggi, mappa delle star per turisti cinephiles e un po' jezzofili, così amabile e nostalgico da valere un Golden Globe quasi certo e un Oscar probabile. Fotografia che gioca ai colori incrociati di Linus Sandgren. Lui bianco lei nera, e viceversa (come in Grease), lei calda di rosso, lui azzurro cool, e viceversa... Ma nel dittico Jacques Demy i colori pastello danzavano liberi, qui le macchie marroni del completo di Goslin imprigionano, indicano, segnalano la flagranza di una star.
L'entusiasmo prima e dopo la proiezione risente della passione per i principianti, prediletti anche da Chazelle, il regista pluripremiato per Whiplash, storia di un giovane batterista ginnasta e militarizzato, qui sostituito da un ambizioso pianista jazz, Sebastian (Gosling), quasi un fondamentalista monkiano, e da un'aspirante attrice del jet set, Mia (Stone).

Il film inizia su una freeway di Los Angeles con un numero di ballo collettivo irrealistico e vitalistico che si rifà ai numeri acrobatici all'aperto, al contagio della joie de vivre di Cantando sotto la pioggia e prima ancora del Mamoulian di Amami stanotte, ma finisce come uno spot pubblicitario della CocaCola con l'orchestrina dixieland in agguato dentro un furgone.
Chazelle sforna cartoline d'epoca – abiti e decappottabili sono vintage – da ogni angolo della città e del cinema, l'Osservatorio di Griffith Park, per esempio, dove Nicholas Ray inquadrò James Dean e Nathalie Wood. Ambienta negli Studios Warner, là sotto la finestra di Casablanca, e attenzione al finale strappalacrime.
In La La Land (La sta per Ellei) si sente il rumore farraginoso della macchina da presa che tenta invano la ginnastica ritmica di Stanley Donen e incolla performance romantiche su paesaggi cine-leggendari, tipo l'ex locale dei divi, Musso & Frank, sull'Hollywood Boulevard.


I due cantano e ballano, anche loro principianti, senza rompere il tessuto narrativo, one show man e woman, assenti le geometrie corali del musical, assente la jam sassion contagiosa e collettiva dell'amato jazz. Gosling pensa al suo locale e alla sua musica e quando si esibisce in una grande orchestra di jazz rock eretico è solo per denaro. E' l'individuo che deve farcela, proprio come il ragazzino di Whiplash dalle mani sanguinanti. Ma musical e jazz richiedono caos multipli e melodie asincroniche e non l'assolo che porterà la coppia a dividersi. Una miete successi sotto la tour Eiffel, l'altro strimpella il piano in solitudine nel club tutto per lui. Un rapido resumé finale ci dice come sarebbe stata felice la vita di Mia e di Sebastian se a dirigerli fosse stato un regista che non considera il cinema un gesto atletico né una marea di citazioni irriverenti... non si esce dalla sala dove proiettano Gioventù bruciata, anche se a bruciare è (digitalmente) un fotogramma. Il mondo posticcio di Chazelle, però, piace per la sua innocente visione del cinema, che fa brillare Los Angeles e Hollywood di una luce ancor più sinistra del Maps to the Stars di Cronenberg. E in quanto ex jazzista fallito (“perciò sono passato al cinema”), il regista si prende la rivincita e spara il suo jazz light, ammiccante, melodico e canzonettistisco, come il suo cinema. Niente a che fare con il plurievocato, dannato Thelonious Monk.

VENEZIA 73. "La Rete" Di Kim Ki-duk. Iniziamo dalla Sala Giardino

Kim Ki Duk, quattro edizioni fa
Roberto Silvestri
VENEZIA

E' cominciata l'edizione 73, madrina Sonia Bergamasco, marmorea divinità (ma cinefila) che scoprì Carmelo Bene. Accolto simpaticamente da tutti il cartellone, ora si tratta di valutare i film. Risolti i nostri problemi di wifi Tim, che ci hanno bloccato ieri. I magnifici sette film nordamericani in concorso, bell'atto di spavalderia di Barbera e soci, sgomineranno gli avversari euroasiatici? Anche se i cognomi dei cineasti di questi americani sono proprio alieni: Villeneuve, Chazelle, Kusturica, Larrain, Amirpour... Non ci fossero Tom Ford e Terrence Malick...Ma l'America è uno stato dello spirito, no?
Non sono mancate le prime critiche al presidente Baratta. Accolte con un plateale “vergogna!” (urlato da un giornalista straniero) gli immancabili imprevisti di una sala nuovissima - il bel parallelepipedo rosso Dior - non perfettamente pronta per accogliere l'anteprima stampa di Rete, di Kim Ki-duk, scelta sudcoreana della sezione “Cinema nel Giardino”, che bonifica l'area contaminata dall'amianto della Mostra, dopo troppi anni, e la riporterà allo stato antico (speriamo) di pineta. Piccoli alberi, intanto, crescono.
Kim Ki-duk che ogni film che fa sembra l'esordio, e questa volta quel che puzza di scuola del cinema è addirittura il copione, che incastra tutte le caselle troppo al posto giusto, come se certe cose non le potesse dire, è arrivato in sala con i suoi giovani e magnifici attori mentre gli operai cercavano di fissare con alcune rumorose pistole elettriche una decine di fila di sedie che vacillavano pericolosamente. Mal bullonate. Quasi fossero stati i servizi segreti di Corea del Nord e di Corea del sud insieme a boicottare nottetempo lo screening di una storia che li riguarda, li inchioda e li accomuna. “Stessa faccia, stessa razza”, anche se la cadenza di coreano che parlano a nord e a sud è dissimile, come cercano di provare in una scena.

Geumul (La rete) non c'entra con il web, ma con la pesca. Un pescatore del nord (Ryo seung-bum), sposato e con figlia piccola (un omone robusto che quando era nell'esercito veniva soprannominato “pugno di pietra” per la sua maestria nella lotta, e dunque un po' sospetto è) vive e pesca pericolosamente vicino al confine e un bel giorno di nebbia sconfina con la sua barchetta in panne e viene catturato da Seul. Il pescatore pescato. Brutali interrogatori all'innocente, perché i capitalisti drastici lo vorrebbero sbandierare sui media come pericolosa spia rossa scoperta, o glorificare come disertore strappato all'inferno del lavoro senza gloria in banca (e per questo lo abbandonano in pieno centro di Seul a godersi lo splendore delle merci). Lui resiste alle lusinghe e alle botte, e anche al più fascista e anticomunista dei torturatori, aiutato da un carceriere che Clint Eastwood soprannominerebbe “fighetta” (è Lee Won-gun, l'idolo delle ragazzine coreane). La particolare cattiveria del cattivone che sbriciola un posacenere di cristallo in faccia al prigioniero viene giustificata dal fatto che la stampa (libera?) ha scoperto bugie, corruzione e crimini nei servizi segreti di Seul (che mal si adattano a uno stato di diritto), dietro la caccia alle spie comuniste, soprattutto dopo lo “scandalo Lee Sang Taek”. Bisogna trovarne di fresche subito, anche a costo di acquistare al mercato nero cinese (“quelli si vendono tutto”) falsi documenti da sbandierare. Nella scena, improvvisa, più kimkidukiana del film, un prigioniero sospetto, incastrato con la frode, si taglia la lingua, e muore dissanguato non prima di aver escogitato un piano per mettere il salvo i colleghi. Ma il pescatore patriota non molla e viene così a malincuore rispedito indietro, nudo come era arrivato. O quasi. Brutali interrogatori anche al nord (dietro la facciata propagandistica). Lo vorrebbero utilizzare come arma di propaganda contro il capitalismo corrotto. In realtà di corrotti e di stupidi avidissimi è pieno perfino il nord... Finirà stecchito, il pescatore, colpito da una pallottola burocraticamente corretta. Chissà perché al nostro lavoratore fedele è stata infatti ritirata la licenza di pesca. Per qualche dollaro nascosto malamente? Per un orsacchiotto di peluche capitalista a cui la figlia preferirà sempre quello, tutto rattoppato, made in repubblica democratica? Morale della favola, come direbbe il detto popolare: “troppa luce? molte ombre”. Luci al neon dei mega centri commerciali che il pescatore non immaginava esistessero. Troppa luce e dunque troppe ombre anche quella dell'ideologia, sciovinista più che marxista-leninista, della genia di Kim Il Sung. Che però di una cosa è davvero innocente, anche se i media occidentali continuano a diffondere na notizia falsa che per fortuna solo i cinefili hanno smascherato. Se qualcuno vi racconta che il "principe dei registi coreani" Shin Sang-ok  sarebbestato rapito sulla fine degli anni 70 dagli agenti di Kim Jong-il, futuro leader supremo, indottrinato e vittima del lavaggio di cervello assieme alla ex moglie e megastar del cinema di Seul, Choin Euu-hee, non credegli. Non perché ve lo dico io. Ma perché un amico di Shin Sang-ok, Edgar G. Ulmer, ha raccontato bene la sua storia inchiodando alle sue responsabilità liberticide non la dittatura feroce rossa di Pyongyang, ma quella capitalista e altrettanto feroce di  Park Chung-hee.

mercoledì 6 luglio 2016

I 5 preti (cristiani) piu' sexy della storia del cinema

di Roberto Silvestri e Mariuccia Ciotta *

La madre non e' solo il capolavoro di Pudovkin. E non e', esplicitamente, un horror, anche se il titolo e' identico a quello di uno splatter uscito nel 2013 e prodotto da Guillermo Del Toro. E non e' neanche Mia madre di Nanni Moretti. E' invece quasi il remake di Proibito, un melodramm rusticano del 1954 nonche'  l'opera prima di Mario Monicelli, distribuito da Raicinema due anni fa. E' un film sulla tensione erotica, dunque intrisa di istinti di morte e vitalissimi sensi di colpa, tra un giovane prete bello e innamorato, ma non solo di dio, e Agnese, una donna ricca e bellissima (erano Mel Ferrer e Lea Massari nella versione degli anni 50) che ama quel prete irraggiungibile. Non basterebbe la fine del celibato e permettere il matrimonio etero e omosessuale ai sacerdoti cattolici? Non e' cosi' semplice. Anche se eviterebbe una serie di orribili violenze e altri crimini che stanno distruggendo la reputazione della chiesa di Roma. Comunque. Insegna la saga Twilight che piu' l'oggetto del desiderio e' inarrivabile e proibito, sia esso un prete cattolico o un vampiro o un nuovo coniuge (adesso la Chiesa tollera il divorzio, ma raccomanda astensione sessuale totale), piu' la passione si scatena.... La Madre in questo caso - niente incesto, non e' l'amante del Padre
inteso come prete - e' il terzo personaggio di un quartetto passionale freudiano tipico (l'altro e' Dio), cioe' proprio la mamma del sacerdote, che vigila, anche troppo, gelosissima - ma e' un fardello della cultura latina - affinche' lui non devii (troppo) dalla retta via. Ma altre ombre complicano la scena. Si puo', pero', delocalizzare e rendere metafisico, quasi astratto, un testo sanguigno e passionale, radicato cosi' profondamente in una terra e in un tempo specifico e speciale come la Sardegna di un secolo fa? Per farlo bisognerebbe ritrovare un tessuto di situazioni e di personaggi tipici, e sganciarsi dal maschilismo post grande guerra, contro cui il romanzo a cui si ispira il film, gettava
invettive, sarcasmi e maledizioni. Non e' facile. Ma e' la scommessa, anzi la missione impossibile, del regista del film, Angelo Maresca, marito dell'ex Monella Debora Caprioglio, ora molto pia, ci assicura, che per la sua opera prima (presentata al Taormina Film Festival 2014) non ha scelto, come il mercato impone, di misurarsi con la commedia giovanilistica, frivola e scanzonata, ma addirittura con un dramma della fede. E' vero che, grazie a papa Francesco, e' diventato di moda il film di argomento religioso, trattato anche con una certa non chalance. Da Si accettano miracoli, di Alessandro Siani, a Il Paradiso per davvero, di Randall Wallace, con un pastore protestante allibito davanti al figlioletto che, uscito dal coma, racconta com'e' il
Paradiso, con dovizia di particolari davvero conturbanti (ma non di numeri da giocare al lotto); e dalla miriade di film prodotti in Usa dai fondamentalisti cristiani a La ricostruzione dell'argentino Juan Taratuto, dove quel che si ricostruisce, nella tierra del fuego, e' l'identita' e la serenita' di un vedovo in frantumi, diventato odioso e poco racccomandabile, perche' ha perso l'adorata moglie, dopo 3 anni di agonia per cancro, e l'artefice di questo trionfale miracolo e' una famiglia “normale” che lo adottera', perche' solo la famiglia normale e' alla base del consesso umano e che senza di lei c'e' il vuoto, il gelo, il nulla e l'abisso.
Testo di partenza e di ispirazione del film di Monicelli e di Maresca, invece, e' La madre, il romanzo, adorato da D.H. Lawrence (verista o decadentista? Il dibattito prosegue) della scrittrice sarda, e premio Nobel 1926 (proprio quando Pudovkin giro' la sua Madre), Grazia Deledda. Ci immaginiamo faide di famiglia nel nuorese, canne al vento, bordelli alla Cipri' e Maresco e il melodramma
fiammeggiante, che sempre di un amore impossibile e insaziabile tratta, e invece ci troviamo in piena asettica Roma di oggi, davanti all'architettura algida dell'Eur fascista e razionalista, statue virili e nude, ma che piu' vestite di sentimenti patriottici e di vettismo spirituale di cosi' non si puo' (se non a Pretoria, durante l'apartheid). Il film potrebbe essere muto. Pochi i dialoghi. Ma questo lo collega a Deledda, e al cinema dei suoi tempi. Vittorio Omodei Zorini, il direttore dell fotografia (20 sigarette) affonda l'Eur (spazio fantasy per eccellenza di Petri e Antonioni, Fellini e Titus) dentro un impasto azzurro-argento che trafigge le ossa come le melodie minimaliste e isteriche in cerca di
quiete di Francesco De Luca e Alessandro Forti, e come si faceva nel cinema muto per indicare un esterno giorno rassicurante. E anche l'appartamento di Agnese e la chiesa di don Paolo (dello scenografo Massimiliano Nocente) sono cosi', trasparenti, tutte vetrate e aperture, esterni puri, quasi bianco-neri. E invece e' lo spazio (fallocentrico, attenti ai colonnati) del peccato. E' proprio li, nella parrocchia, nella casa alto borghese di lei, quasi alla vista di tutti, che avvengono gli accoppiamenti carnali sacrileghi, improvvisi, sudati e diabolici. La madre, Maddalena, viene soffocata invece da ombre scure, a retrogusto ocra caravaggiano, che Griffith avrebbe usato per gli interni-notte, per il
dubbio e per l'inferno claustrofobico e spirituale, per lo scoppio barocco delle
contraddizioni e delle allucinazioni. Invece queste tenebre, questo quasi nero zeppo di incubi e di fantasmi, e' il regno della casa e della pace, della limpidezza, della grazia di dio. Il dark per i buoni e il bianco immacolato per i cattivi, come insegno' Eisenstein. Se non si vuole essere banali.
Don Paolo, il parroco, che sembra un perfetto soldato di dio, tanto da sedurre perfino i giovinetti piu' sensibili della zona che vogliono “diventare proprio prete come lui”, e' uno Stefano Dionisi, l'ex partigiano Johnny, sempre ottimo nel sostituirsi ai copioni, quando c'e' da colmare di ambiguita' i vuoti di una sceneggiatura che disdegna la spiegazione psicologica (tra gli sceneggiatori c'e' anche Stivaletti). Anche se il tasto omosessuale non se la sente di spingerlo. Sua madre Maddalena, molto devota a dio, e' l'attrice di Almodovar Carmen Maura che non nasconde la sua origine spagnola e, nel film, umile e plebea, un passato tragico di ragazza quasi madre sempre sfruttata, un matrimonio infelice... E neppure la sua ossessionante onnipresenza nella vita di Paolo. Possessivita',
spirito protettivo e morbosita' sono le sue grandi qualita'. Il difetto e' una sottomissione atavica all'uomo, e in particolare al vecchio parroco morto, “maiale e sacrilego davvero” che continua a inseguirla e perseguitarla dall'oltretomba minacciando di contaggiare anche Paolo e di corteggiarla in eterno. Intanto Agnese (“deciditi: me o dio”) minaccia di svelare pubblicamente, dall'altare, la sua relazione scoop ai fedeli... E Paolo, a questo punto, vede davanti a se' uno squallido futuro da maschio italiano.
Come ci spiegava Alberto Lattuada, il fascista vero dell'epoca Deledda era quello che si vantava: “Sono andato a casa e ho fatto un figlio poi sono andato al casino poi sono tornato a casa e ho fatto un altro figlio”. Il maschilismo era l'emblema piu' preciso del potere fascista, fatto per tirannizzare. Burruano, l'ex parroco, ne da' un ritratto davvero accurato e pregnante, in una sola scena. “Per trovare davvero la fede e' necessario allontanarsi il piu' possibile da dio”, e' il suo consiglio. Era la falsa morale del fascismo. L'abbandono dell'umilta' per il culto dell'eroismo, l'esaltazione della forza piuttosto che dell'onesta', l'orgoglio contro la semplicita'. Malattie dello spirito che stanno ancora deformando la
psiche europea malata. Meglio starne alla larga, ci consiglia prete Paolo. E se avesse solo sbagliato amante?

I cinque preti piu' sexy della storia del cinema


1. Richard Chamberlein in Uccelli di rovo (serie tv del 1983, Australia) di Daryl Duke. “The Torn Birds” e' il vero spartiacque del genere erotico-talare. Prima soprattutto allusioni e desideri frustrati... La ricca latifondista aussie Maggie Cleary (Rachel Ward) si innamora a prima vista, e insegue per quattro puntate, quasi sempre respinta, un ambizioso prete irlandese, padre Ralph de Bricassart, inviso alle alte sfere e sbattuto per questo agli antipodi, che ha gia' conquistato il cuore della sua anziana zia, Barbara Stanwyck. Grazie ai soldi della sua eredita', Ralph diventera' un pezzo grosso della Chiesa. E anche il papa' di un bel bambino, futuro prete. Anche se non conoscera' la verita', da Maggie, se non nell'ultima puntata. Frase celebre di Maggie: "E va bene, vattene, scappa dal tuo dio. Ma sono sicura che tornerai da me. Perché io ti amo più di lui".


2. Jean Paul Belmondo in Leon Morin prete di Jean-Pierre Melville (1961). Una performance sottile e sensuale quella della super star francese alle prese con un personaggio difficile, quello di un sacerdote francese desiderato da tutte le donne di un piccolo villaggio normanno sotto l'occupazione nazista. La piu' implacabile ed efficace delle corteggiatrici e' agnostica e comunista, Emmanuelle Riva, e lo costringe, anche nel confessionale, a destreggiarsi ai confini della fede. E oltre. Grazie a Melville ne uscira' indenne. E a fede rafforzata. Anzi sara' incrinata per sempre la sicurezza laicista della Riva. Dal romanzo di Beatrix Beck.

3. Roberto Citran in Il prete bello di Carlo Mazzacurati (Italia, 1989). Nel 1939 a Vicenza, a guerra di Spagna finita, don Gastone, ex cappellano militare, fascista convinto, organizza spettacoli benefici, circondato da un gruppetto di signorine senza marito in palese ammirazione, come Immacolata, che per lui stravede e che è l'anziana padrona di un grande caseggiato. Quando affitta un appartamento in quel palazzo la bella prostituta veneziana Fedora, don Gastone non potra' resisterle, costi quel che costi. E' un maschio italiano, prima che un prete, no?

4. John Mills in Il coraggio e la sfida di Ward Roy Baker (Gb, 1960). Dal romanzo di Audrey Erskine Lindop. Un prete cattolico irlandese prende possesso della parrocchia in un villaggio messicano oppresso da una banda di prepotenti. Dirk Bogarde, tormentato e isterico, vestito in pelle nera, lo seduce molto piu' di Milene Demongeot, espulsa via via dalla dinamica della reciproca attrazione che s'instaura tra i due uomini e che li portera' a morire insieme. La donna e' la diabolica tentatrice (vedere il suo impeto, quasi necrofilo, sul suo letto di morte). Ma gli uomini no, nella Bibbia non c'e' scritto cosi' chiaramente. I
bambini, poi....

5. Mel Ferrer in Proibito (Italia, 1954). Stava per sposare Audrey Hepburn, ed era al massimo della bellezza, dell'anitpatia e della arroganza Mel Ferrer quando fu coinvolto nell'esordio di Monicelli, vagamente ispirato a Grazia Deledda, ma soprattutto alle faide nel nuorese che avvenivano in quel periodo. Comunque resta il fatto che Lea Massari si innamora di lui e cerca di strapparlo a dio, inutilmente. Anche perche' Mel Ferrer che voleva cambiare la sceneggiatura, la trattava malissimo. Luciano Emmer lo doveva girate
con Mastroianni e Bose'. Ma per ragioni censorie si preferi' annacquare la sceneggiatura con altri scritti di Deledda e darlo a Monicelli. “Mel Ferrer era un disastro. Ne venne fuori un film senza senso” assicura Suso Cecchi D'Amico. Pero' incasso' molto.

*pezzo pubblicato su Pagina 99 nell'agosto 2014