giovedì 1 settembre 2016

VENEZIA 73. No no "La La Land"


Mariuccia Ciotta

VENEZIA

Un americano a Parigi o un francese a Hollywood? Tutte e due. Damien Chazelle, 31 anni, nato a Providence, Rhode Island, porta il cognome del padre nato in Francia e studia cinema a Harward dove si insegna Minnelli e il musical fiammeggiante degli anni 50, a giochi cromatici perfetti (Oscar a John Alton), con Gene Kelly che piroetta avvinto a Leslie Caron mentre le fontane zampillano luci e la Senna è un tappeto di acqua ricostruito in Studio. Los Angeles vista dall'università di Boston ha gli stessi cieli dipinti, panorami vertiginosi dall'alto di Muholland Drive e tramonti rossi sul Sunset Boulevard. In questo cinema “amatoriale” si sente il profumo delle origini, il silent-movie che piaceva a un altro regista francese, Michel Hazanavocius di The Artist, tanto che Chazelle usa il mascherino di Méliès per inquadrare Ryan Goslyng e Emma Stone in La La Land, musical in concorso che ha aperto la 73ma Mostra di Venezia.
Valanga di sovrimpressioni con il musical dalle origini a oggi, mappa delle star per turisti cinephiles e un po' jezzofili, così amabile e nostalgico da valere un Golden Globe quasi certo e un Oscar probabile. Fotografia che gioca ai colori incrociati di Linus Sandgren. Lui bianco lei nera, e viceversa (come in Grease), lei calda di rosso, lui azzurro cool, e viceversa... Ma nel dittico Jacques Demy i colori pastello danzavano liberi, qui le macchie marroni del completo di Goslin imprigionano, indicano, segnalano la flagranza di una star.
L'entusiasmo prima e dopo la proiezione risente della passione per i principianti, prediletti anche da Chazelle, il regista pluripremiato per Whiplash, storia di un giovane batterista ginnasta e militarizzato, qui sostituito da un ambizioso pianista jazz, Sebastian (Gosling), quasi un fondamentalista monkiano, e da un'aspirante attrice del jet set, Mia (Stone).

Il film inizia su una freeway di Los Angeles con un numero di ballo collettivo irrealistico e vitalistico che si rifà ai numeri acrobatici all'aperto, al contagio della joie de vivre di Cantando sotto la pioggia e prima ancora del Mamoulian di Amami stanotte, ma finisce come uno spot pubblicitario della CocaCola con l'orchestrina dixieland in agguato dentro un furgone.
Chazelle sforna cartoline d'epoca – abiti e decappottabili sono vintage – da ogni angolo della città e del cinema, l'Osservatorio di Griffith Park, per esempio, dove Nicholas Ray inquadrò James Dean e Nathalie Wood. Ambienta negli Studios Warner, là sotto la finestra di Casablanca, e attenzione al finale strappalacrime.
In La La Land (La sta per Ellei) si sente il rumore farraginoso della macchina da presa che tenta invano la ginnastica ritmica di Stanley Donen e incolla performance romantiche su paesaggi cine-leggendari, tipo l'ex locale dei divi, Musso & Frank, sull'Hollywood Boulevard.


I due cantano e ballano, anche loro principianti, senza rompere il tessuto narrativo, one show man e woman, assenti le geometrie corali del musical, assente la jam sassion contagiosa e collettiva dell'amato jazz. Gosling pensa al suo locale e alla sua musica e quando si esibisce in una grande orchestra di jazz rock eretico è solo per denaro. E' l'individuo che deve farcela, proprio come il ragazzino di Whiplash dalle mani sanguinanti. Ma musical e jazz richiedono caos multipli e melodie asincroniche e non l'assolo che porterà la coppia a dividersi. Una miete successi sotto la tour Eiffel, l'altro strimpella il piano in solitudine nel club tutto per lui. Un rapido resumé finale ci dice come sarebbe stata felice la vita di Mia e di Sebastian se a dirigerli fosse stato un regista che non considera il cinema un gesto atletico né una marea di citazioni irriverenti... non si esce dalla sala dove proiettano Gioventù bruciata, anche se a bruciare è (digitalmente) un fotogramma. Il mondo posticcio di Chazelle, però, piace per la sua innocente visione del cinema, che fa brillare Los Angeles e Hollywood di una luce ancor più sinistra del Maps to the Stars di Cronenberg. E in quanto ex jazzista fallito (“perciò sono passato al cinema”), il regista si prende la rivincita e spara il suo jazz light, ammiccante, melodico e canzonettistisco, come il suo cinema. Niente a che fare con il plurievocato, dannato Thelonious Monk.

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