domenica 8 settembre 2019

Mostra di Venezia 76. Pannone soldato











Roberto Silvestri

Scherza con i fanti” di Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna

Alle Giornate degli Autori, un Evento davvero speciale. Già è molto provocatorio il titolo di questo film tragico ma a striature comiche, realizzato con il montaggio appassionato di materiali audio-visivi di repertorio (a cura di Angelo Musciagna) e con il contributo dei burattini di Maurizio Stammati, di Pulcinella in persona, e di uno storico come Ferruccio Parazzoli che commenta la vendetta insostenibile (che sa di resa dei conti ancestrale) di popolo a piazzale Loreto.
Siamo abituati da due millenni, come penisola più isole, a essere conquistati e sottomessi, da secoli, o da etnie più guerriere o da seducenti apparati religiosi o da duci prepotenti. Siamo una repubblica giovanissima, leader mondiale in emigrazione, e ancora inesperta ma dalla antichissima memoria, rinchiusa anche nei suoi canti popolari che raccontano della guerra come l'allontanamento violento del contadino inconsapevole dalle sue terre e dai suoi cari e come la trasformazione di un corpo umano in carne da macello. Un genocidio perenne di terroni quel che si insegna a scuola. “Terrone” però, è bene ricordarlo, non è una offesa che il nord rivolge al sud, come credono gli arricchiti lumbard, ma una definizione di classe che il proprietario di terra rivolge a chi proprietario di terra non è. Il bracciante. La religione lo deve consolare e preparare alla vera vita nell'al di là. Intanto, nell'al di qua, ci pensa l'esercito a manovrarlo e a gettarlo vivo sull'altare del patriottico martirio. Ma i nostri canti popolari non sono piagnoni, si avvalgono di paesaggi armonici e melodici di contagiante bellezza.
Gianfranco Pannone (a sinistra) e Ambrogio Sparagna
Ricordiamo anche che il luogo comune “italiani brava gente”, espressione più che discutibile sbagliata, è anche il titolo equivoco di un famoso film con Raffaele Pisu, perché quello vero fu censurato. In effetti il regista di quel capolavoro sull'invasione nazifascista dell'Urss durante il secondo conflitto mondiale, Giuseppe De Santis, aveva chiamato il film, da una battuta di un patriota ucraino, piuttosto sarcastica, “Italiano, brava gente”. Non siamo noi a gloriarci di una presunta maggiore umanità rispetto ad altri popoli aggressivi e coloniali come gli inglesi, i francesi, gli spagnoli, i tedeschi, gli olandesi, i danesi, i serbi, i turchi, i russi, i sauditi e i portoghesi. Sono gli altri che ci sfottono così (da cui l'obbligo ministeriale a cambiare il titolo). Un “documentario di finzione” o un film di finzione documentata, visto a Venezia nella sezione Sconfini, “Il varco” di Federico Ferrone e Michele Manzolini, sempre basato su materiali di repertorio dell'Istituto Luce e di film amatoriali a passo ridotto, spiega proprio, punto per punto, l'evoluzione di quella tragedia, e diventa come la versione in prosa del poema di De Santis, dall'entusiasmo primaverile iniziale, ai treni bloccati dal nemico, dalla marcia a piedi dell'esercito alle esecuzioni di partigiani alle prime scaramucce, dalla neve e dal ghiaccio invernale che trasforma l'Ucraina, visto che gli scarponi in dotazione sono disastrati, in un incubo, alla decimazione dei nostri soldati, alla rotta, alla fuga disperata. Il protagonista, nato da madre russa, tra i pochi a potersi sentire 'pesce nell'acqua' in quella situazione decide di disertare.


Insomma “italiani brava gente” è un non sense.
Abbiamo usato l'iprite, proibitissima dalle convenzioni internazionali, per gasare una parte di popolazione etiope (anche se minima, rispetto alle vittime totali di bombardamenti “normali”). Abbiamo, grazie a Graziani, decretato rappresaglie contro i patrioti africani in rapporto 1 a 30, 1 a 40, tanto che quelle naziste appaiono “umanitarie” all'occhio di uno storico imparziale. Abbiamo costruito in Libia lager che serviranno da modello architettonico-ideologico per Auschwitz. Abbiamo trasformato in leggi che mimano l'antica sapienza giuridica romana quel che è selvaggio istinto razzista, contro i neri prima e contro gli ebrei poi, e le abbiamo regalate a Goebbels e a Daniel Francois Malan, a quest'ultimo per inventare l'apartheid boero. Abbiamo anche inaugurato il genocidio religioso moderno sterminando non atei, buddisti o islamici, ma cristiani africani colpevoli di non essere sottomessi al Vaticano.
Il nostro cinema però ha sempre avuto paura di 'scherzare con i fanti' e si può dire che solo Francesco Rosi ha avuto il coraggio finora, in Uomini contro, Gianikian (sempre) e Guadagnino (Inconscio italiano), di sfidare la censura e l'Avvocatura dello Stato che protegge le gerarchie militari perfino d'epoca fascista da ogni impertinenza e indagine indebita che possa infangare la nostra Storia Ufficiale (quella che si studia a scuola). Ne sapeva qualcosa Guido Aristarco, e il suo progetto impossibile, L'armata Sagapò.


Questo bel documentario di Pannone, che chiude il dittico basato su un antico adagio popolare, e aperto da “Lascia stare i santi', ci racconta molto di tutto questo. Pannone ha tirato fuori dagli archivi più segreti e inaccessibili del Luce Cinecittà, grazie agli esploratori Nathalie Giacobino e Cecilia Spano, materiali militari sconvolgenti e proibitissimi (finalmente vediamo l'effetto dell'iprite sui corpi carbonizzati dei contadini etiopi, delle loro moglie e dei loro nonni e figli) ma ancora una volta è lo sguardo antropologico più che la controinformazione anti-militarista che gli interessa. Il sottotitolo infatti è “piccola storia degli italiani in divisa e di come abbiamo imparato a non aver paura della pace”. Il cineasta sceglie quattro diari di guerra come traccia narrativa. Un bersagliere valtellinese (ed ex austro-ungarico) del re d'Italia, Corlo Margolfo, racconta lo sterminio post unitario dei briganti filo-borbonici meridionali; Elvio Cardarelli, un autista viterbese l' “impresa” etiope come Montanelli non c'è l'ha mai raccontata; una studentessa cattolica, Rosetta Solari, la guerra partigiana che ha combattuto in val di Taro, sull'Appennino tra Parma e La Spezia contro nazi e anche contro i compagni (“staffetta” va tradotto in italiano non maschilista: “unità combattente a tutti gli effetti”, non “smista messaggi”) e Vincenzo Marasco , un sergente napoletano della Marina rievoca la “missione di pace” in Kossovo fiero di esserci andato da volontario ma altrettanto fiero di preferire al mitragliatore la zampogna natalizia. Come rendere corali, e non punto racconto in prima persona singolare, queste autobiografie “dal basso”? Attraverso 17 tra canti popolari (come il friulano “Ai preat”, di Gabriella Gabrielli), canzoni d'autore (“San Lorenzo” di Francesco De Gregori) e nuove composizioni del musicista e musicologo Ambrogio Sparagna, un maestro che parallelamente alle immagini inanella una sorta di storia parallela sonora del proletariato sofferente, che quelle guerre ha combattuto e che da quei conflitti, giusti o ingiusti, di aggressione o di difesa, abietti o rivoluzionari, se vivo, è tornato galvanizzato o traumatizzato e pronto alle più orrende avventure così come alle più rivoluzionarie metamorfosi.



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