Roberto Silvestri
“Scherza con i fanti” di
Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna
Alle Giornate degli Autori, un Evento
davvero speciale. Già è molto provocatorio il titolo di questo film
tragico ma a striature comiche, realizzato con il montaggio
appassionato di materiali audio-visivi di repertorio (a cura di
Angelo Musciagna) e con il contributo dei burattini di Maurizio
Stammati, di Pulcinella in persona, e di uno storico come Ferruccio
Parazzoli che commenta la vendetta insostenibile (che sa di resa dei
conti ancestrale) di popolo a piazzale Loreto.
Siamo abituati da due millenni, come
penisola più isole, a essere conquistati e sottomessi, da secoli, o
da etnie più guerriere o da seducenti apparati religiosi o da duci
prepotenti. Siamo una repubblica giovanissima, leader mondiale in
emigrazione, e ancora inesperta ma dalla antichissima memoria,
rinchiusa anche nei suoi canti popolari che raccontano della guerra
come l'allontanamento violento del contadino inconsapevole dalle sue
terre e dai suoi cari e come la trasformazione di un corpo umano in
carne da macello. Un genocidio perenne di terroni quel che si insegna
a scuola. “Terrone” però, è bene ricordarlo, non è una offesa
che il nord rivolge al sud, come credono gli arricchiti lumbard, ma
una definizione di classe che il proprietario di terra rivolge a chi
proprietario di terra non è. Il bracciante. La religione lo deve
consolare e preparare alla vera vita nell'al di là. Intanto, nell'al
di qua, ci pensa l'esercito a manovrarlo e a gettarlo vivo
sull'altare del patriottico martirio. Ma i nostri canti popolari non
sono piagnoni, si avvalgono di paesaggi armonici e melodici di
contagiante bellezza.
Gianfranco Pannone (a sinistra) e Ambrogio Sparagna |
Ricordiamo anche che il luogo comune
“italiani brava gente”, espressione più che discutibile
sbagliata, è anche il titolo equivoco di un famoso film con Raffaele
Pisu, perché quello vero fu censurato. In effetti il regista di quel
capolavoro sull'invasione nazifascista dell'Urss durante il secondo
conflitto mondiale, Giuseppe De Santis, aveva chiamato il film, da
una battuta di un patriota ucraino, piuttosto sarcastica, “Italiano,
brava gente”. Non siamo noi a gloriarci di una presunta maggiore
umanità rispetto ad altri popoli aggressivi e coloniali come gli
inglesi, i francesi, gli spagnoli, i tedeschi, gli olandesi, i
danesi, i serbi, i turchi, i russi, i sauditi e i portoghesi. Sono
gli altri che ci sfottono così (da cui l'obbligo ministeriale a
cambiare il titolo). Un “documentario di finzione” o un film di
finzione documentata, visto a Venezia nella sezione Sconfini, “Il
varco” di Federico Ferrone e Michele Manzolini, sempre basato su
materiali di repertorio dell'Istituto Luce e di film amatoriali a
passo ridotto, spiega proprio, punto per punto, l'evoluzione di
quella tragedia, e diventa come la versione in prosa del poema di De
Santis, dall'entusiasmo primaverile iniziale, ai treni bloccati dal
nemico, dalla marcia a piedi dell'esercito alle esecuzioni di
partigiani alle prime scaramucce, dalla neve e dal ghiaccio invernale
che trasforma l'Ucraina, visto che gli scarponi in dotazione sono
disastrati, in un incubo, alla decimazione dei nostri soldati, alla
rotta, alla fuga disperata. Il protagonista, nato da madre russa, tra
i pochi a potersi sentire 'pesce nell'acqua' in quella situazione
decide di disertare.
Insomma “italiani brava gente” è
un non sense.
Abbiamo usato l'iprite, proibitissima
dalle convenzioni internazionali, per gasare una parte di popolazione
etiope (anche se minima, rispetto alle vittime totali di
bombardamenti “normali”). Abbiamo, grazie a Graziani, decretato
rappresaglie contro i patrioti africani in rapporto 1 a 30, 1 a 40,
tanto che quelle naziste appaiono “umanitarie” all'occhio di uno
storico imparziale. Abbiamo costruito in Libia lager che serviranno
da modello architettonico-ideologico per Auschwitz. Abbiamo
trasformato in leggi che mimano l'antica sapienza giuridica romana
quel che è selvaggio istinto razzista, contro i neri prima e contro
gli ebrei poi, e le abbiamo regalate a Goebbels e a Daniel Francois
Malan, a quest'ultimo per inventare l'apartheid boero. Abbiamo anche
inaugurato il genocidio religioso moderno sterminando non atei,
buddisti o islamici, ma cristiani africani colpevoli di non essere
sottomessi al Vaticano.
Il nostro cinema però ha sempre avuto
paura di 'scherzare con i fanti' e si può dire che solo Francesco
Rosi ha avuto il coraggio finora, in Uomini contro, Gianikian
(sempre) e Guadagnino (Inconscio italiano), di sfidare la censura e
l'Avvocatura dello Stato che protegge le gerarchie militari perfino
d'epoca fascista da ogni impertinenza e indagine indebita che possa
infangare la nostra Storia Ufficiale (quella che si studia a scuola).
Ne sapeva qualcosa Guido Aristarco, e il suo progetto impossibile,
L'armata Sagapò.
Questo bel documentario di Pannone, che
chiude il dittico basato su un antico adagio popolare, e aperto da
“Lascia stare i santi', ci racconta molto di tutto questo. Pannone
ha tirato fuori dagli archivi più segreti e inaccessibili del Luce
Cinecittà, grazie agli esploratori Nathalie Giacobino e Cecilia
Spano, materiali militari sconvolgenti e proibitissimi (finalmente
vediamo l'effetto dell'iprite sui corpi carbonizzati dei contadini
etiopi, delle loro moglie e dei loro nonni e figli) ma ancora una
volta è lo sguardo antropologico più che la controinformazione
anti-militarista che gli interessa. Il sottotitolo infatti è
“piccola storia degli italiani in divisa e di come abbiamo imparato
a non aver paura della pace”. Il cineasta sceglie quattro diari di
guerra come traccia narrativa. Un bersagliere valtellinese (ed ex
austro-ungarico) del re d'Italia, Corlo Margolfo, racconta lo
sterminio post unitario dei briganti filo-borbonici meridionali;
Elvio Cardarelli, un autista viterbese l' “impresa” etiope come
Montanelli non c'è l'ha mai raccontata; una studentessa cattolica,
Rosetta Solari, la guerra partigiana che ha combattuto in val di
Taro, sull'Appennino tra Parma e La Spezia contro nazi e anche contro
i compagni (“staffetta” va tradotto in italiano non maschilista:
“unità combattente a tutti gli effetti”, non “smista
messaggi”) e Vincenzo Marasco , un sergente napoletano della Marina
rievoca la “missione di pace” in Kossovo fiero di esserci andato
da volontario ma altrettanto fiero di preferire al mitragliatore la
zampogna natalizia. Come rendere corali, e non punto racconto in
prima persona singolare, queste autobiografie “dal basso”?
Attraverso 17 tra canti popolari (come il friulano “Ai preat”, di
Gabriella Gabrielli), canzoni d'autore (“San Lorenzo” di
Francesco De Gregori) e nuove composizioni del musicista e musicologo
Ambrogio Sparagna, un maestro che parallelamente alle immagini
inanella una sorta di storia parallela sonora del proletariato
sofferente, che quelle guerre ha combattuto e che da quei conflitti,
giusti o ingiusti, di aggressione o di difesa, abietti o
rivoluzionari, se vivo, è tornato galvanizzato o traumatizzato e
pronto alle più orrende avventure così come alle più
rivoluzionarie metamorfosi.
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