Roberto Silvestri
Didi Gnocchi è una giornalista
televisiva pavese, autrice di inchieste anticonformiste, di
documentari d'arte e anti-fascisti dedicati tra gli altri ai furti
nazisti di opere d'arte, a Giosetta Fioroni e a Dino Risi, e regista
di due film. Venti anni dopo Betty Bee firma
e porta al Lido un altro
emozionante ritratto d'auotre, Citizen Rosi diretto
con Carolina Rosi, attrice, regista teatrale e figlia del regista di
Salvatore Giuliano,
Mani sulla città e
Il caso Mattei.
L'originalità
di questo crito-film, di uno dei tanti “film sul cinema” della
Mostra (il Fulci, il Vivarelli, l'horror anni 60, il filone “Europa
di notte”, il Felkini di Cappuccio, il progetto su Alberto
Grimaldi,...) è infatti proprio il colloquio critico-analitico tra
Francesco Rosi e la figlia sulle opere che hanno scandito la storia
di un 'genere nobile' della nostra cinematografia. Rubato e
rigenerato, come il western, alla Hollywood post maccartista e
kennediana, il “cinema civile” fiorisce qui come interpretazione
poetico-documentata, radicale e mai ufficiale, dei nodi scoperti del
Novecento italiano. Il massacro dei proletari combattenti nella
Grande Guerra, il sacco mafioso delle metropoli democristiane, il
progetto Eni di autonomia energetica nazionale (piuttosto
combattuta), la riflessione sulla lotta armata degli anni 70 (ma Tre
fratelli resta l'opera di Risi
più irrisolta e impacciata), le leggi razziali che videro il nostro
paese come leader nel mondo, l' eliminazione fisica in Sicilia di
sindacalisti e oppositori (di Cosa Nostra) d'ogni tipo, lo scontro
fratricida nella Dc... Il gangster Lucky Luciano
liberato dal carcere e spedito lì quasi come un ministro degli
esteri (ombra) Usa per prendere possesso dell'isola che aveva
contribuito a liberare (un bel libro di Daglio spiega molto bene
perché), con l'aiuto di fascisti riciclati e non poco traditori
(Junio Valerio Borghese) e di autonomisti idealisti da sacrificare a
tempo debito (Giuliano), e per controllarne l'economia con la droga,
dal 1945 ad oggi.
Anche
Rosi, come Gnocchi, è stato ed è rimasto sempre un giornalista
d'inchiesta. Ma l'immagine è sempre stata la sua vera passione, un
mezzo di comunicazione con l'Italia anche analfabeta ma vitale che lo
ha amato. Ilsuo stesso modo di parlare, scandendo le parole
chiaramente, senza mai usare termini di gergo, e quasi modellando la
bocca a forma di cinemascope, ne fanno un intellettuale organico
atipico. Forse i suoi eredi e allievi li troviamo soltanto nella
controcultura sessantottina, più dalle parti di Alberto Grifi che di
Giuseppe Ferrara.
Napoletano,
di scuola e indole Fonseca Pimentel, ha guardato bene in faccia e con
coraggio inusuale i fenomeni di corruzione e autocorruzione del
Potere. Ma è piuttosto interessante il fatto che la sua
“rooseveltiana” visione del mondo si possa esprimere solo dal
1962, l'anno (in cui muore Lucky Luciano) del primo governo di centro
sinistra - fermato non senza difficoltà e non poche lotte cruente il
golpe Tambroni - e dell'ingresso del Psi nel governo. Rosi diventa
la “quinta colonna” culturale di un processo di democratizzazione
dello stato che culmina in una serie di riforme (edilizia popolare,
la semi espropriazione dei latifondi, la cassa per il mezzogiorno e
perfino una legge-cinema) che lascerà molte vittime sul campo, da
Sullo a Moro.
Ma
perché andare a girare proprio in quei mesi fuori da Roma? Perché
in Sicilia o in Basilicata o a Napoli? Perché abbandonare gli studi
di Cinecittà? Perché De Laurentiis e Ponti meditano proprio allora
il grande viaggio in California o l'apertura di altri mega studios?
Perché Sergio Leone sul set di Il colosso di Rodi
pensa che la Spagna sia davvero un meraviglioso set per inventare il
western spaghetti? Perché presto Antonioni e Bertolucci dovranno
scappare a Londra e Parigi per creare i loro capolavori
internazionali? Da una parte si scappa dall'Italia per la soffocante
censura clericale e bigotta, ancora profumata di fascismo. Dall'altra
le majors hollywoodiane hanno occupato militarmente con i loro
kolossal miliardari tutti gli studi di Cinecittà, perché sono in
grave crisi creativa e di profitti e perché hanno trovato il
sistema di pagare poco blockbuster spettacolari di alta qualità e
per farsi finanziare dai contribuenti italiani perfino parte dei
costi di produzione, inventando false società italiane (in base alla
legge vigente La caduta dell'Impero romano
costo' ai cittadini italiani mezzo miliardo di lire). Oltretutto la
nostra industria stava dando pericolosi segnali di ascesa e di
intraprendenza sui mercati interni e esteri con film di genere a
costo zero (comici, commedia, sexy, peplum...) e profitti alti. Ecco
perché nasce il “cinema civile” proprio in quel momento. E' un
genere popolare che incassa e vince anche i festival. Dispone di un
parco attori drammatici di alto livello (Gian Maria Volontè su
tutti) e utilizza il gioco delle star internazionali per creare
attenzione di mercato e dunque cofinanziamenti in tutta Europa.
Francesco Rosi adorava essere chiamato “Citizen Rosi”, dal titolo
di una retrospettiva che gli avevano dedicato all'estero. Essere il
portavoce della società civile indignata, non di uno schieramento
politico. Questo il suo progetto. Non fare propaganda ma dare
sostanza, sfondo connettivo, alle sue riletture storiche, più
accurate possibili nei dettagli. E' molto interessante nel
documentario, infatti, la passione che mette nel raccontarci, alla
luce dei documenti nordamericani finalmente messi a disposizione del
pubblico e degli studiosi mezzo secolo dopo, quello che girando
Salvatore Giuliano non
poteva sospettare a proposito dell'intervento della Decima Mas nel
massacro di Portella della Ginestra. Furono loro a sparare. Ma nel
film la geniale idea è proprio inquadrare i contadini falciati dai
mitragliatori e non i misteriosi killer prezzolati nascosti sulle
montagne.
Il
pianeta in mare di Andrea Segre
I
comignoli di Porto Marghera, il Pipeline ben analizzato da Toni Negri
negli anni delle grandi lotte operaie per “aumenti uguali per tutti
e sganciati dalla produttività “ e dei padroni tremanti, non erano
a regime. Erano troppo bassi. Mangiava profitti per i manager
renderli più alti e sicuri. Si chiama da allora 'sindrome Ilva'...E
il veleno chimico sbattuto dal vento diffondeva così il cancro a
manetta. Mi ricordo che una inchiesta tv dei filmmaker ex underground
poi convertiti alla contro informazione, Guido Lombardi Alfredo
Leonardi e Anna Lajolo, incredibilmente programmata dalla Rai senza
censura in prima serata, mise talmente in difficoltà la Montedison
che dopo la recensione entusiasta che scrissi per il manifesto mi
arrivò una letterona di chiarimenti dell'azienda dicendo che il
servizio conteneva inesattezze e minacciando di denuncia penale gli
autori che proprio sull'avvelenamento ambientale avevano allertato
pionieristicamente l'opinione pubblica (eravamo alla fine degli anni
70-inizi 80). Dalle immagini di oggi del petrolchimico ischeletrito e
fantasma si vedono che poi quelle torri alte furono messe, e
probabilmente quei manager promossi e rimossi con lauta buonauscita
ma il documentario che Andrea Segre dedica a Marghera di oggi –
esiste ancora - tocca solo marginalmente l'epoca nella quale il
petrolchimico fu la capitale del Potere Operaio. Ora l'operaio massa
è un fantasma dimenticato. E gli operai vengono qui da 60 nazioni
differenti e i cantieri navali, le società informatiche, i
containers delle navi intercontinentali sono diventati il cuore
diversamente pulsante della laguna veneziana. Camionisti, cuoche,
lavoratori immigrati, tecnocrati che vivono in Austria intrecciano le
loro vite, i loro sogni e i loro letti, mentre di cozze mangiabili
sotto il ponte della ferrovia Mestre-Venezia non c'è più traccia.
Il documentario di Segre tiene sottotraccia l'indignazione per una
globalizzazione dall'alto schiaccia sassi, ma non è descrittivo o
impressionistico. Anzi sa collegare biografie e emozioni avulse come
un amanuense decifrava codici lontani.
Barbara Steele, La maschera del demonio 1960 |
Boia
maschere e segreti. L'horror italiano degli anni sessanta di Steve
Della Casa
Bisogna
ancora ricorrere alla produzione indie
o perfino all'autoproduzione e al microbudget quando si tratta di
rendere omaggio ai nostri più grandi artisti del passato? Tutto il
mondo glorifica oggi l'horror-spaghetti, il tocco italiano nel
cinema-bis, il superamento del gotico inglese Hammer style e del suo
modello polveroso e letterario. E vede nell'immigrata Barbara Steele
e in Christopher Lee, in Mario Bava, Antonio Margheriti e Riccardo
Freda, il corpo e le menti di un immaginario altro. I visionari
estremi e perversi (La frusta e la carne!)
creatori di gesti e immagini paurose fine all'astrazione, pop e
inquietanti, gli esploratori implacabili dei nostri più nascosti e
inconfessabili lati dark e i pionieri dell'horror contemporaneo,
quello che attraverso la grafica unica di Dario Argento è stato
rielaborato poi da John Carpenter, Wes Craven o Joe Dante. Ma i soldi
per spedire Steve Della Casa in California o a Manhattan a
intervistare Martin Scorsese, il Quentin Tarantino fulcidipendente o
Tim Lucas che a Bava ha dedicato il più voluminoso studio al mondo e
rendere questo documentario meno euro-dipendente, possibile che non
si trovino? Assurdo. Cosa ci sta a fare il Luce Cinecittà o Rai
cinema se è ancora tabù considerare Bava l'ispiratore visuale di
Fellini o tornare ai Vampiri o
alla Maschera del demonio o
a La morte ha fatto l'uovo
come ai testi sacri del cinema di alta qualità artistico-commerciale
che squinterno' la stessa Hollywood? Comunque i piccoli film degli
anni 60 girati nei castelli cadenti del viterbese, straordinariamente
dotati di effetti speciali ad alta resa e costo zero, capaci di
produrre terrore innestando corpi di star internazionali avulsi, e di
impaurire perfino i burocrati senza anima degli uffici di censura,
perché l'intero paesaggio peccaminoso del nostro inconscio veniva
spiattellato senza pudori con la sola giustificazione della
necessaria redenzione, stanno diventando, per i giovani cineasti,
l'unico messale da mandare a memoria. Pensiamo a Guadagnino e anche
ai neosplatter. Peccato che Steve sia ancora costretto a spiegare in
prima persona singolare, o con l'aiuto di Tavernier (a cui neanche
piacciono) l'importanza di Polselli e Mastrocinque e i diritti dei
film costino ancora troppo per un critofilm indie di profondità.
Strano poi ascoltare da Jean Gili, che di Brian De Palma fu nemico,
l'elogio dei suoi maestri. Anche se bisogna riconoscere che i
francesi hanno sempre saputo scoprire prima di noi le virtù
artistiche nascoste del nostro cinema di qualità commerciale. Gli
americani però hanno scoperto anche le virtù rivoluzionarie e
politiche per esempio di Questi, con i suoi horror antifascisti e
anti clericali (Non si sevizia così un paperino)
di cui ancora non riusciamo a vedere la versione integrale.
Piero Vivarelli e Adriano Celentano sul set di Super rapina a Milano (1964) |
Life
as a B-movie: Piero Vivarelli di Fabrizio Laurenti e Niccolò
Vivarelli
Due
paracadutisti in volo possono fare l'amore nella misura in cui si
gettano ad altissima quota? Era l'ultimo progetto di film e l'ultimo
desiderio erotico del regista senese e interista Piero Vivarelli,
giornalista musicale finissimo, dedicato a una ballerina classica che
dopo un maledetto incidente alla gamba era stata costretta a
diventare paracadutista per replicare, nell' aria, i suoi virtuosismi
danzanti. Vivarelli era anche lui parà. Voleva morire volando. E
girare scene con lei buttandosi con un cuore pieno di bypass...Ex
repubblichino da cucciolo. Poi marxista e cattolico, riabilitato da
Togliatti come Dario Fo e Ingrao. Era iscritto al partito comunista,
ma cubano, assieme al Che Guevara l'unico straniero cui era stato
consentito. Amico di Fidel. Polemizzava con Rossanda su questo punto,
anche se era del manifesto e scriveva sul manifesto. Fu il più
dichiaratamente antirazzista tra i nostri cineasti. Un suo amico fu
Dijbril Diop Mambety, il Godard del Senegal, attore a Cinecittà
negli anni 70. Ebbe una moglie nera giamaicana bellissima che gli fu
amica per sempre. Covava un progetto di film dalla parte dei rasta.
Come Wakamatsu amava dire per scandalizzare i critici di fare cinema
per scopare le attrici. Era membro di Cinema Democratico, durante il
68, e non dell'Anac revisionista, perché contestava all'autore il
suo ruolo di dittatore del set. Per lui il cinema era un gioco
collettivo. I suoi nemici erano i nipotini di Greggi cui dedicò
Provocazione con Moana
Pozzi. Fu con Fulci l'ideatore di un genere, mal chiamato
'musicarello', che registrò il cambiamento rock dei nostri costumi e
consumi giovanili. Negli anni di Big e di Fiammetta, di Ghigo e del
suo amico Adriano Celentano (con cui scrisse 24 mila baci e il tuo
bacio è come il rock e a cui insegnò i fondamentali della regia)
portò Mina e Dallara, Chet Baker e Joe Sentieri, The Rokes e Rita
Pavona davanti alla cinepresa. E la cinepresa italiana non fu più,
da allora, la stessa. Horror spaghetti, thriller psicotico, ultimo
tango, blow up hanno dentro qualcosa di quel rock serio e demenziale,
pre punk e anarchico, lisergico e zeppo di ganja, che Vivarelli
sapeva sprigionare anche nei copioni del western Django, dei
fumettistici Mister X e Satanik, e nei suoi film più reichiani, come
Il dio serpente, frutto
di un lavoro a Haiti non meno serio di quello underground di Maya
Deren. Fabrizio
Laurenti (che consegnò involontariamente a Bellocchio tutto il
lavoro sulla prima moglie di Mussolini, Ida Dalser, in un bellissimo
doc) riesce a montare come fosse una scatenata “Rumbera” ricordi
di famiglia e interviste raccolte da Nick Vivarelli, nipote
giornalista e critico di Variety, e dai suoi collaboratori. E rende
le interviste e i materiali di archivio una ronde elettrizzante ed
erotica che avrebbe divertito molto Piero. Troppo hippie per i suoi
figli, che avrebbero vissuto momenti e psicosi più freak e cupi
anche senza conoscere Ferida e Valenti, e i loro amici nazi.
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