venerdì 6 settembre 2019

1962, l'anno chiave del cinema italiano. Rosi, horror e Vivarelli


Roberto Silvestri


Didi Gnocchi è una giornalista televisiva pavese, autrice di inchieste anticonformiste, di documentari d'arte e anti-fascisti dedicati tra gli altri ai furti nazisti di opere d'arte, a Giosetta Fioroni e a Dino Risi, e regista di due film. Venti anni dopo Betty Bee firma e porta al Lido un altro emozionante ritratto d'auotre, Citizen Rosi diretto con Carolina Rosi, attrice, regista teatrale e figlia del regista di Salvatore Giuliano, Mani sulla città e Il caso Mattei.
L'originalità di questo crito-film, di uno dei tanti “film sul cinema” della Mostra (il Fulci, il Vivarelli, l'horror anni 60, il filone “Europa di notte”, il Felkini di Cappuccio, il progetto su Alberto Grimaldi,...) è infatti proprio il colloquio critico-analitico tra Francesco Rosi e la figlia sulle opere che hanno scandito la storia di un 'genere nobile' della nostra cinematografia. Rubato e rigenerato, come il western, alla Hollywood post maccartista e kennediana, il “cinema civile” fiorisce qui come interpretazione poetico-documentata, radicale e mai ufficiale, dei nodi scoperti del Novecento italiano. Il massacro dei proletari combattenti nella Grande Guerra, il sacco mafioso delle metropoli democristiane, il progetto Eni di autonomia energetica nazionale (piuttosto combattuta), la riflessione sulla lotta armata degli anni 70 (ma Tre fratelli resta l'opera di Risi più irrisolta e impacciata), le leggi razziali che videro il nostro paese come leader nel mondo, l' eliminazione fisica in Sicilia di sindacalisti e oppositori (di Cosa Nostra) d'ogni tipo, lo scontro fratricida nella Dc... Il gangster Lucky Luciano liberato dal carcere e spedito lì quasi come un ministro degli esteri (ombra) Usa per prendere possesso dell'isola che aveva contribuito a liberare (un bel libro di Daglio spiega molto bene perché), con l'aiuto di fascisti riciclati e non poco traditori (Junio Valerio Borghese) e di autonomisti idealisti da sacrificare a tempo debito (Giuliano), e per controllarne l'economia con la droga, dal 1945 ad oggi.
Anche Rosi, come Gnocchi, è stato ed è rimasto sempre un giornalista d'inchiesta. Ma l'immagine è sempre stata la sua vera passione, un mezzo di comunicazione con l'Italia anche analfabeta ma vitale che lo ha amato. Ilsuo stesso modo di parlare, scandendo le parole chiaramente, senza mai usare termini di gergo, e quasi modellando la bocca a forma di cinemascope, ne fanno un intellettuale organico atipico. Forse i suoi eredi e allievi li troviamo soltanto nella controcultura sessantottina, più dalle parti di Alberto Grifi che di Giuseppe Ferrara.
Napoletano, di scuola e indole Fonseca Pimentel, ha guardato bene in faccia e con coraggio inusuale i fenomeni di corruzione e autocorruzione del Potere. Ma è piuttosto interessante il fatto che la sua “rooseveltiana” visione del mondo si possa esprimere solo dal 1962, l'anno (in cui muore Lucky Luciano) del primo governo di centro sinistra - fermato non senza difficoltà e non poche lotte cruente il golpe Tambroni - e dell'ingresso del Psi nel governo. Rosi diventa la “quinta colonna” culturale di un processo di democratizzazione dello stato che culmina in una serie di riforme (edilizia popolare, la semi espropriazione dei latifondi, la cassa per il mezzogiorno e perfino una legge-cinema) che lascerà molte vittime sul campo, da Sullo a Moro.
Ma perché andare a girare proprio in quei mesi fuori da Roma? Perché in Sicilia o in Basilicata o a Napoli? Perché abbandonare gli studi di Cinecittà? Perché De Laurentiis e Ponti meditano proprio allora il grande viaggio in California o l'apertura di altri mega studios? Perché Sergio Leone sul set di Il colosso di Rodi pensa che la Spagna sia davvero un meraviglioso set per inventare il western spaghetti? Perché presto Antonioni e Bertolucci dovranno scappare a Londra e Parigi per creare i loro capolavori internazionali? Da una parte si scappa dall'Italia per la soffocante censura clericale e bigotta, ancora profumata di fascismo. Dall'altra le majors hollywoodiane hanno occupato militarmente con i loro kolossal miliardari tutti gli studi di Cinecittà, perché sono in grave crisi creativa e di profitti e perché hanno trovato il sistema di pagare poco blockbuster spettacolari di alta qualità e per farsi finanziare dai contribuenti italiani perfino parte dei costi di produzione, inventando false società italiane (in base alla legge vigente La caduta dell'Impero romano costo' ai cittadini italiani mezzo miliardo di lire). Oltretutto la nostra industria stava dando pericolosi segnali di ascesa e di intraprendenza sui mercati interni e esteri con film di genere a costo zero (comici, commedia, sexy, peplum...) e profitti alti. Ecco perché nasce il “cinema civile” proprio in quel momento. E' un genere popolare che incassa e vince anche i festival. Dispone di un parco attori drammatici di alto livello (Gian Maria Volontè su tutti) e utilizza il gioco delle star internazionali per creare attenzione di mercato e dunque cofinanziamenti in tutta Europa. Francesco Rosi adorava essere chiamato “Citizen Rosi”, dal titolo di una retrospettiva che gli avevano dedicato all'estero. Essere il portavoce della società civile indignata, non di uno schieramento politico. Questo il suo progetto. Non fare propaganda ma dare sostanza, sfondo connettivo, alle sue riletture storiche, più accurate possibili nei dettagli. E' molto interessante nel documentario, infatti, la passione che mette nel raccontarci, alla luce dei documenti nordamericani finalmente messi a disposizione del pubblico e degli studiosi mezzo secolo dopo, quello che girando Salvatore Giuliano non poteva sospettare a proposito dell'intervento della Decima Mas nel massacro di Portella della Ginestra. Furono loro a sparare. Ma nel film la geniale idea è proprio inquadrare i contadini falciati dai mitragliatori e non i misteriosi killer prezzolati nascosti sulle montagne.

Il pianeta in mare di Andrea Segre
I comignoli di Porto Marghera, il Pipeline ben analizzato da Toni Negri negli anni delle grandi lotte operaie per “aumenti uguali per tutti e sganciati dalla produttività “ e dei padroni tremanti, non erano a regime. Erano troppo bassi. Mangiava profitti per i manager renderli più alti e sicuri. Si chiama da allora 'sindrome Ilva'...E il veleno chimico sbattuto dal vento diffondeva così il cancro a manetta. Mi ricordo che una inchiesta tv dei filmmaker ex underground poi convertiti alla contro informazione, Guido Lombardi Alfredo Leonardi e Anna Lajolo, incredibilmente programmata dalla Rai senza censura in prima serata, mise talmente in difficoltà la Montedison che dopo la recensione entusiasta che scrissi per il manifesto mi arrivò una letterona di chiarimenti dell'azienda dicendo che il servizio conteneva inesattezze e minacciando di denuncia penale gli autori che proprio sull'avvelenamento ambientale avevano allertato pionieristicamente l'opinione pubblica (eravamo alla fine degli anni 70-inizi 80). Dalle immagini di oggi del petrolchimico ischeletrito e fantasma si vedono che poi quelle torri alte furono messe, e probabilmente quei manager promossi e rimossi con lauta buonauscita ma il documentario che Andrea Segre dedica a Marghera di oggi – esiste ancora - tocca solo marginalmente l'epoca nella quale il petrolchimico fu la capitale del Potere Operaio. Ora l'operaio massa è un fantasma dimenticato. E gli operai vengono qui da 60 nazioni differenti e i cantieri navali, le società informatiche, i containers delle navi intercontinentali sono diventati il cuore diversamente pulsante della laguna veneziana. Camionisti, cuoche, lavoratori immigrati, tecnocrati che vivono in Austria intrecciano le loro vite, i loro sogni e i loro letti, mentre di cozze mangiabili sotto il ponte della ferrovia Mestre-Venezia non c'è più traccia. Il documentario di Segre tiene sottotraccia l'indignazione per una globalizzazione dall'alto schiaccia sassi, ma non è descrittivo o impressionistico. Anzi sa collegare biografie e emozioni avulse come un amanuense decifrava codici lontani.

Barbara Steele, La maschera del demonio 1960
Boia maschere e segreti. L'horror italiano degli anni sessanta di Steve Della Casa
Bisogna ancora ricorrere alla produzione indie o perfino all'autoproduzione e al microbudget quando si tratta di rendere omaggio ai nostri più grandi artisti del passato? Tutto il mondo glorifica oggi l'horror-spaghetti, il tocco italiano nel cinema-bis, il superamento del gotico inglese Hammer style e del suo modello polveroso e letterario. E vede nell'immigrata Barbara Steele e in Christopher Lee, in Mario Bava, Antonio Margheriti e Riccardo Freda, il corpo e le menti di un immaginario altro. I visionari estremi e perversi (La frusta e la carne!) creatori di gesti e immagini paurose fine all'astrazione, pop e inquietanti, gli esploratori implacabili dei nostri più nascosti e inconfessabili lati dark e i pionieri dell'horror contemporaneo, quello che attraverso la grafica unica di Dario Argento è stato rielaborato poi da John Carpenter, Wes Craven o Joe Dante. Ma i soldi per spedire Steve Della Casa in California o a Manhattan a intervistare Martin Scorsese, il Quentin Tarantino fulcidipendente o Tim Lucas che a Bava ha dedicato il più voluminoso studio al mondo e rendere questo documentario meno euro-dipendente, possibile che non si trovino? Assurdo. Cosa ci sta a fare il Luce Cinecittà o Rai cinema se è ancora tabù considerare Bava l'ispiratore visuale di Fellini o tornare ai Vampiri o alla Maschera del demonio o a La morte ha fatto l'uovo come ai testi sacri del cinema di alta qualità artistico-commerciale che squinterno' la stessa Hollywood? Comunque i piccoli film degli anni 60 girati nei castelli cadenti del viterbese, straordinariamente dotati di effetti speciali ad alta resa e costo zero, capaci di produrre terrore innestando corpi di star internazionali avulsi, e di impaurire perfino i burocrati senza anima degli uffici di censura, perché l'intero paesaggio peccaminoso del nostro inconscio veniva spiattellato senza pudori con la sola giustificazione della necessaria redenzione, stanno diventando, per i giovani cineasti, l'unico messale da mandare a memoria. Pensiamo a Guadagnino e anche ai neosplatter. Peccato che Steve sia ancora costretto a spiegare in prima persona singolare, o con l'aiuto di Tavernier (a cui neanche piacciono) l'importanza di Polselli e Mastrocinque e i diritti dei film costino ancora troppo per un critofilm indie di profondità. Strano poi ascoltare da Jean Gili, che di Brian De Palma fu nemico, l'elogio dei suoi maestri. Anche se bisogna riconoscere che i francesi hanno sempre saputo scoprire prima di noi le virtù artistiche nascoste del nostro cinema di qualità commerciale. Gli americani però hanno scoperto anche le virtù rivoluzionarie e politiche per esempio di Questi, con i suoi horror antifascisti e anti clericali (Non si sevizia così un paperino) di cui ancora non riusciamo a vedere la versione integrale.

Piero Vivarelli e Adriano Celentano sul set di Super rapina a Milano (1964)
Life as a B-movie: Piero Vivarelli di Fabrizio Laurenti e Niccolò Vivarelli
Due paracadutisti in volo possono fare l'amore nella misura in cui si gettano ad altissima quota? Era l'ultimo progetto di film e l'ultimo desiderio erotico del regista senese e interista Piero Vivarelli, giornalista musicale finissimo, dedicato a una ballerina classica che dopo un maledetto incidente alla gamba era stata costretta a diventare paracadutista per replicare, nell' aria, i suoi virtuosismi danzanti. Vivarelli era anche lui parà. Voleva morire volando. E girare scene con lei buttandosi con un cuore pieno di bypass...Ex repubblichino da cucciolo. Poi marxista e cattolico, riabilitato da Togliatti come Dario Fo e Ingrao. Era iscritto al partito comunista, ma cubano, assieme al Che Guevara l'unico straniero cui era stato consentito. Amico di Fidel. Polemizzava con Rossanda su questo punto, anche se era del manifesto e scriveva sul manifesto. Fu il più dichiaratamente antirazzista tra i nostri cineasti. Un suo amico fu Dijbril Diop Mambety, il Godard del Senegal, attore a Cinecittà negli anni 70. Ebbe una moglie nera giamaicana bellissima che gli fu amica per sempre. Covava un progetto di film dalla parte dei rasta. Come Wakamatsu amava dire per scandalizzare i critici di fare cinema per scopare le attrici. Era membro di Cinema Democratico, durante il 68, e non dell'Anac revisionista, perché contestava all'autore il suo ruolo di dittatore del set. Per lui il cinema era un gioco collettivo. I suoi nemici erano i nipotini di Greggi cui dedicò Provocazione con Moana Pozzi. Fu con Fulci l'ideatore di un genere, mal chiamato 'musicarello', che registrò il cambiamento rock dei nostri costumi e consumi giovanili. Negli anni di Big e di Fiammetta, di Ghigo e del suo amico Adriano Celentano (con cui scrisse 24 mila baci e il tuo bacio è come il rock e a cui insegnò i fondamentali della regia) portò Mina e Dallara, Chet Baker e Joe Sentieri, The Rokes e Rita Pavona davanti alla cinepresa. E la cinepresa italiana non fu più, da allora, la stessa. Horror spaghetti, thriller psicotico, ultimo tango, blow up hanno dentro qualcosa di quel rock serio e demenziale, pre punk e anarchico, lisergico e zeppo di ganja, che Vivarelli sapeva sprigionare anche nei copioni del western Django, dei fumettistici Mister X e Satanik, e nei suoi film più reichiani, come Il dio serpente, frutto di un lavoro a Haiti non meno serio di quello underground di Maya Deren. Fabrizio Laurenti (che consegnò involontariamente a Bellocchio tutto il lavoro sulla prima moglie di Mussolini, Ida Dalser, in un bellissimo doc) riesce a montare come fosse una scatenata “Rumbera” ricordi di famiglia e interviste raccolte da Nick Vivarelli, nipote giornalista e critico di Variety, e dai suoi collaboratori. E rende le interviste e i materiali di archivio una ronde elettrizzante ed erotica che avrebbe divertito molto Piero. Troppo hippie per i suoi figli, che avrebbero vissuto momenti e psicosi più freak e cupi anche senza conoscere Ferida e Valenti, e i loro amici nazi.

Nessun commento:

Posta un commento