domenica 3 settembre 2023
MOSTRA DI VENEZIA 80. LEONARD BERNSTEIN NON E' PIU' RADICAL CHIC, MA NEANCHE RADICAL
Roberto Silvestri
Esterrefatto dalla reazione critica nazionale e internazionale di
Venezia 80 a una Mostra invivibile come mai nella storia
(indipendentemente dalla decina di film e oltre molto belli che
vengono comunque scodellati, “classici” a parte, perché il
comitato di selezione ha occhio e anima) e invece accolta da
quotidiani poker di stelle come se gli stessi critici si rendessero
ormai conto di non contare più nulla se non come gentili
amplificatori pubblicitari di ogni visualità masticabile, registro che
decenni di serie tv hanno cambiato il concetto di ricezione vispa,
trasformando noie micidiali in capolavori assoluti (Poor Things,
El Conde, Bastarden, Maestro, Killer...perfino Harmony Korine) e
i film dotati di vita propria ed eccitanti in insopportabili polpettoni
(i miei preferiti? Polanski, Ferrari, anche Besson, una commedia
di Stephanie Rothman del 1974).
Barbie e Oppenheimer non vengono forse trattati dal blob critico
dominante come preistoria audiovisiva? Già. Tranne il
divertimento acido di Costanzo (che pare il remake di Spqr, un
film tedesco dei primi anni 70 sul cinema italiano, c'è anche l'hotel
Plaza tra i protagonisti) i film italiani non reggono finora l'urto. Da
cui la rabbia verso Ferrari, omaggio al Bertolucci di Strategia del
ragno e al Bellocchio di I pugni in tasca perché è proprio quella
Emilia del culatello che Michael Mann sa catturare magicamente.
Infatti Adam Driver è stato qui perché il film è fuori norma, fuori
schema, fuori Hollywood. Oltretutto Sergio Castellitto è già stato
Enzo Ferrari in un film tv di 20 anni fa diretto da Carlo Carlei, non
a caso discepolo di Michael Mann della prima ora.
Già. Da decenni Hollywood è diventato un comparto secondario di
giganteschi conglomerati che fanno profitti planetari vendendo
poca arte e molto altro: armi, farmaci, prodotti chimici, sigarette
(grande ritorno del tabacco, un tempo bandito, sul grande
schermo), miniere, cliniche, acciaierie e carte di credito. Per
questo i grandi Studios trattano il falso in bilancio da giocolieri
(copiati dai governi democratici di tutto il mondo), le classifiche
di incasso come momento marketing e gli attori e sceneggiatori
che non sono super star come il diavolo trattava Faust (“volete
vendermi per l'eternità la vostra voce e la vostra sagoma? Ecco a
voi 30 mila dollari!”). Da cui lo sciopero di questi mesi.
Impressionante anche il controllo politico censorio sulle pellicole,
come dimostra Maestro, in concorso a Venezia 80.
Dunque già il titolo è perfido. Maestro, e lascia più che perplessi
quando si tratta del bio-pic Netflix sul grande musicista Leonard
Bernstein, superstar intoccabile perché idolo della televisione anni
70 per i suoi corsi di successo sulla musica sinfonica e operistica.
Quel retrogusto Mastercard, che di Maestro è gestore, non è
simpatico. Ma ho l'impressione che il perfido titolista alluda anche
a qualcos'altro. Bernstein è stato definito infatti nel 1970, in piena
guerra contro la guerra in Vietnam, da un prezzolato geniaccio
della destra statunitense, Tom Wolfe, il “maestro dei radical chic”.
Definizione abietta che ha tuttora grande successo nei salotti
devoti alla “Grande Bellezza”. E perfino tra gli sceneggiatori
statunitensi più liberal. Josh Singer ha scritto The Post e Il caso
Spotlight. Gliel'hanno fatta pagare?
Non credo però che tutti ricordino i fatti. E il film, diretto e
interpretato con lunga protesi nasale criticatissima da Bradley
Cooper, 48 anni (e coprodotto anche da Scorsese e Spielberg) -
ma la Mostra 80 sta esibendo un debole verso gli “uomini soli al
comando”, dopo che Comandante ha aperto la kermesse
nell'imbarazzo generale e sta per arrivare anche Io Capitano - ha
la vigliaccheria di oscurarli del tutto, dietro un interminabile e
insopportabile melodramma-fotocopia di A star is born
(algoritmico esordio di Cooper alla regia) che proprio di Bernstein
come “maestro di musica”, direttore d'orchestra mitico, si occupa
pochissimo e si ostina invece (come una spia dell'Fbi pagata da
Hoover) a rovistare nelle avventure coniugali (24 anni di
matrimonio) ed extraconiugali, perché omosessuali, dell'artista di
origini aschenazita. E' come raccontare Hitler tralasciando non
dico la “soluzione finale” ma anche solo la “notte dei cristalli”.
Peccato. Bradley Cooper dimostra di dirigere con stile radicale e
chic le schermaglie d'amore tra Bernstein e l'amata Felicia
Montealegre (nella prima parte del film, in bianco e nero stile
“Life”-”Time” epoca più amata, anche se davvero di piombo,
Corea, maccartismo...) e anche i duelli d'odio della storia (con i
colori lisergici della contestazione generale, dunque un po' malati
e avvelenati). Ma è come se ignorasse con ostinazione gli scontri
aspri della Storia.
Dopo un famoso party del 14 gennaio del 1970 il compositore dei
celebri musical West Side Story e Un giorno a New York - nonché
direttore d'orchestra della New York Philarmonic succedendo
giovanissimo a Bruno Walter - e sua moglie Felicia, attrice di
origine cilena molto impegnata politicamente a sinistra, sono stati
infatti oggetto della madre di tutte le vergognose campagne
mediatiche scatenate nell'ultimo mezzo secolo.
All'epoca Bernstein preparava un epocale Fidelio. E la coppia
ospitò nella propria villa (c'è chi riconosce il valore bancario
dell'arte) circa 90 persone per raccogliere fondi (10 mila dollari) a
sostegno delle famiglie dei "Panther 21", i militanti del partito
delle Pantere nere newyorchesi arrestati il 2 aprile 1969 e accusati
di aver progettato attentati dinamitardi contro sedi della polizia,
grandi magazzini e altri edifici pubblici di Manhattan Dopo 9 mesi
di carcere i “Panther 21” cauzione a 100 mila dollari, senza risorse
per preparare una adeguata difesa, non solo sono stati tutti
scagionati ma sono risultati vittime di infiltrati dell'Fbi che
avrebbero organizzato il complotto con la complicità dei massmedia (anche liberal) e delle forze dell'ordine.
Altro che radical chic. Altro che "la più grande minaccia alla
sicurezza interna del paese" come il direttore dell'FBI Edgar
Hoover definì il Black Panther Party per il suo dichiarato
marxismo. Altro che “giusto processo”. Piuttosto una plateale
violazione delle libertà civili che fu rintuzzata dall'opinione
pubblica e dal Movement (si schierarono con le pantere nere anche
Marlon Brando e Jean Seberg, altre divinità radical chic) e i
Bernstein, perché non era più il tempo di maccartismi. Alla festa
parteciparono tra gli altri Otto Preminger, Sidney e Gail Lumet,
Barbara Walters, Bob Silvers, le mogli di Arthur Penn e Harry
Belafonte, e i leader del Black Panther Party Robert Bay, Donald
Cox e Henry Miller. Charlotte Curtis sul New York Times (15
gennaio) scrisse tra l'altro: "Eccoli lì, le Pantere Nere del ghetto e
i liberali bianchi e neri delle classi medie, medio-alte e alte che si
studiavano cautamente tra i mobili costosi, le elaborate
composizioni floreali, i cocktail e i vassoi d'argento di tartine”
mentre il giorno dopo un editoriale disgustoso aizzava al
linciaggio morale: "L'emergere delle Pantere Nere come beniamini
romantici del jet set politico-culturale è un affronto alla
maggioranza dei neri americani... La terapia di gruppo più la
serata di raccolta fondi a casa di Leonard Bernstein... rappresenta
il tipo di elegante baraccopoli che degrada sia i clienti che i
patrocinati. Potrebbe essere liquidata come un divertimento che
allevia i sensi di colpa arricchito di coscienza sociale, tranne per il
suo impatto su quei bianchi e neri che lavorano seriamente per la
completa uguaglianza e la giustizia sociale. Ha deriso la memoria
di Martin Luther King Jr. ..." (The New York Times, 16 gennaio
1970). La risposta della signora Bernstein fu pubblicata,
ovviamente molti giorni dopo: "Come donna impegnata nella
tutela dello stato di diritto ho invitato un certo numero di persone a
casa mia il 14 gennaio per ascoltare l'avvocato e altri coinvolti nel
processo ai “Panther 21”, discutere il problema delle libertà civili
applicabili agli uomini ora in attesa di processo, e per aiutare a
raccogliere fondi per le loro spese legali... È stato per questo scopo
profondamente serio che è stato convocato il nostro incontro. Il
modo frivolo in cui è stato riportato come un evento "di moda" è
indegno del Times è offensivo per tutte le persone impegnati a far
rispettare la giustizia." (New York Times, 21 gennaio 1970). Nei
mesi successivi i Bernstein ricevettero lettere minatorie, furono
oggetto di innumerevoli attacchi stampa e vessati per tutta la
primavera davanti al loro edificio da manifestanti dell'associazione
ebraica “Defense League” che protestò a gran voce contro il
presunto "appoggio" di Bernstein alle Pantere nere antisioniste.
Cinque mesi dopo la raccolta fondi fu immortalata in un lungo
saggio di Tom Wolfe sul New York Magazine intitolato "Radical
Chic: That Party at Lenny's" (8 giugno 1970). Nel film si fa una
vaga allusione alla invidia e alla gelosia che motivavano gli
attacchi durissimi ricevuti da Lenny Bernstein, senza chiarire che
si allude a Tom Wolfe e al party “hollywoodiano”. Come i
reazionari di casa nostra di destra e di sinistra appresero bisogna
essere livorosi contro gli artisti liberi, milionari per il loro
maggiore talento, e dunque da aggredire “squadristicamente” a
parole meglio se prezzolati dai “diversamente miliardari”
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