venerdì 29 settembre 2023

Prendere a pugni il Palazzo. Ma non è elegante! Il nuovo film di Polanski (in duetto con "Menus Plaisirs: Les Troisgors" di Wiseman)

Roberto Silvestri
La fauna umana più repellente e provocatoria del pianeta festeggia la notte di capodanno 2000 in un hotel super esclusivo delle Alpi svizzere. Oligarchi russi rigonfi di soldi da esportare. Bancari corruttibili coinvolti in piani finanziari criminali. Miliardari braccati da parenti improbabili e ormai cadaveri, truccati da vivi per via dell’eredità. “Briatori” dall’erezione molto complicata e “Fedore” dell’eterna giovinezza chirurgica, tutti riuniti per l’Euro-Big-Party per esibire gli ornamenti e i colori di guerra del potere. Un delirante mondo Kitsch. Uomo dell’anno nascente è già il neo Zar Putin che, fatto fuori Eltsin morente, si presenta al mondo sovrapponendo in tv al decadente passato da agente frustrato del Kgb il neo-panslavismo minaccioso del fondamentalista “cristiano-ortodosso”. Ci si augura che tutto questo possa essere spazzato via dal Millennium bug…Speranze vane. Solo un paio di animali, giovani e indocili, cane e pinguino impertinenti, festeggeranno davvero. Anche camerieri, cameriere, impiegati e fattorini, e profughi balcanici ed escort da circo Berlusconi sembrano contagiati da questi corpi consumati, di una certa età, e con tutta la loro storia scritta in faccia: corpi maturi, o come si dice, menti serie.
Morale? Un uomo non è amico di un altro uomo! Niente di più disgustoso e repellente per un uomo di un altro uomo. “Un uomo – scriveva nel 1960 un grande genio polacco dell’avanguardia letteraria - può essere sopportato da un altro uomo soltanto se sa rinunciare, se rinuncia a se stesso a beneficio di qualche cosa, dell’onore, della virtù, della nazione, della lotta… Ma un uomo che non è altro che un uomo? Una vera mostruosità”. Il regista provoca, uno a uno, questi provocatori. Un verme è molto più simpatico della marchesa, di Arthur William Dallas III, di Magnolia, del dott. Lima (è Joaquim Almeida), di Bill Crush, di Vaclav, dell’ambasciatore russo …. Più che un incontro con il cinema siamo a un incontro di boxe con i pugni nudi, senza l’ipocrisia dei guantoni. Le anime candide non possono resistere. Di questo si parla in The Palace. Finalmente (dopo un primo esperimento non del tutto riuscito 32 anni fa) si riesce a trasformare in immagini il flusso narrativo e la sostanza erotica (ma dovete cercarla nel fuori campo) di un romanzo di Witold Gombrowicz, come Cosmo o Pornografia (da cui Jan Jakub Kolski ha tratto un film). Per lungo tempo proibito nella Polonia del socialismo reale Witold Gombrowicz si era imposto nel 1937 come l'enfant terrible della letteratura moderna polacca con il suo primo romanzo Ferdydurke. Dopo un lungo esilio in Argentina, tra il 1939 e il 1963, tornato in Europa aveva trionfato sulle scene parigine con il dramma Le Mariage per la regia di Jorge Lavelli. E’ morto a Saint-Paul de Vence nel 1969. In Italia è stato subito adorato dal Gruppo 63, e Feltrinelli (consulente Nanni Balestrini) ha tradotto i suoi romanzi Ferdydurke e Cosmo, mentre Bompiani Pornografia (1960) ambientato durante l’occupazione nazista e la Resistenza. Ma The Palace non è dunque solo una satira o un tipico affresco grottesco. Non è un divertimento slapstick né una commedia. Non è film d’autore che eccita lo spettatore indicandogli omaggi e citazioni, perché le parodie sono piuttosto nascoste (il realismo socialista rosa di La signora col cagnolino di Iosif Cheific 1960 e la Nuova Babilonia pre-Comune di Parigi di quando i sovietici erano “comunisti festivi”; i pupazzi di Svankmejer mimati da uno strepitoso Mickey Rourke - no, non è Califano - o Takashi Miike di Visitor Q… o qualunque festa di partito di un Menzel, di un Forman, di una Chytilova). E’ più un horror, certo, The Palace ma di tipo nuovo, che non sai ancora bene come maneggiare o definire per raccontarlo agli amici. Film deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile, concettuale e formalista, che va lavorato e decifrato mentre suscita reazioni contrastanti e simultanee: riso +indignazione, scandalo+rabbia. Ammirazione per un parco di attori dalla perfetta concentrazione. John Cleese, Fanny Ardant, Bronwyn James, Sydne Rome, Oliver Masucci, e anche Barbareschi è in palla. Non c’è pausa, ha il ritmo dei 10 mila metri di atletica leggera, corre forte sempre ma dei fratelli Vanzina d’epoca d’oro (a cui il film è stato associato) condivide lo spirito derisorio e cancella ogni personaggio teenager (un vuoto che inquieta non poco). Inoltre non è un film girato senza far caso all’attore. Anzi comincia dagli attori, “unendoli” in un modo qualsiasi e attraverso queste unioni creare il filo conduttore delle situazioni, dell’azione. Ed ecco che Polanski libera ciò che già esiste potenzialmente negli attori in quanto esseri viventi, con le loro particolari possibilità, diversità, unicità, mostruosità. Il personaggio scenico è creato per lui, cucito su misura come un vestito.
Mi ha insospettito dunque, alla Mostra di Venezia 80, la vistosa freddezza sarcastica dei potenti media euroamericani (e perfino di qualche collega arabo), quasi fosse frutto di un complottardo pregiudizio preventivo, che ha presentato in anteprima mondiale il nuovo film di Roman Polanski, dal bel titolo pasoliniano “Il Palazzo”. Forse, dopo la valanga di serie tv che li hanno trasformati in eroi dei nostri tempi, i personaggi cattivissimi e sgradevoli non si possono più provocare, attaccare, criticare, picchiare né ridicolizzare? Ai colleghi egiziani, almeno, avrebbe dovuto ricordare, titolo a parte, che quel che avviene in un solo maestoso edificio può raccontare la miseria del mondo intero, e indurci all’indignazione, come ci ha insegnato Marwan Hamed nel 2006 in Imarat Yacoubian (The Yacoubian Building), emulo di Cukor, Bunuel, Wes Anderson, Tony Richardson, Jerry Lewis, Hitchcock, i Coen, Wenders, Billy Wilder, Richard Quine, Liliana Cavani, Luchino Visconti e tanti altri. Perfino Ostlund. Il direttore del festival Alberto Barbera e il suo gruppo di selezione ha fatto molto bene a selezionare quest’opera, colta e speciale, epocale anche, visto che la sceneggiatura riunisce per la seconda volta gli illustri amici della “nuova onda polacca degli anni 60” Roman Polanski e Jertzy Skolimowski. Ma è stato un po’ troppo diplomatico (e in arte, a differenza che in politica, è un errore grave) nell’escludere dal concorso sia The Palace (per non provocare chi sbraita in giuria, come successe alla disinformata presidente della giuria Lucrecia Martel nel 2019 con L’ufficiale e la spia?), ambientato in un super hotel esclusivo della Svizzera francese (Gstaad, a un passo da casa Polanski), e un altro formidabile pamphlet sullo strapotere incontrastato dell’1% che oggi domina e schiavizza il pianeta, Menus Plaisirs: Les Troisgors (2023). Tre ore che Frederick Wiseman dedica alla capitale mondiale della goduria culinaria, presso Clermond Ferrand, il ristorante très chic dove un pranzo non costa meno di 550 euro e una paradisiaca bottiglia iperbariccata di Borgogna, se l’inflazione non galoppa, con soli 12 mila euro è tua. Wiseman, come un bimbo stupefatto si affeziona alla maestria di cuochi, agricoltori, camerieri, maître, dalle radici così gianseniste, e non ho mai visto un horror così agghiacciante e obliquo, raccontato da occhi altrettanto dolci e cuore così ammirato e perfido. E’ la stessa impressione che mi ha fatto il film-gemello, The Palace. Per i giansenisti (ci spiegò al cinema Luis Bunuel in La via lattea, 1969) l'essere umano nasce essenzialmente corrotto e, quindi, inevitabilmente destinato a commettere il male, dannato. Solo la predestinazione salva (i ricchissimi). Il giansenismo fu combattuta come eresia protestante dal cattolicesimo, perché solo per gli unti dal Signore era aperto il regno dei cieli. C’è chi racconta l’America proprio come il conflitto secolare tra chi crede che la costituzione sia stata scritta solo per proteggere i predestinati-proprietari-miliardari e chi i poveri cittadini “dannati”. Polanski e Wiseman sono con questi ultimi. Il fatto che l’opera di Polanski non abbia distribuzione angloamericana né (ancora) francese, e venga battezzato in sale festivaliere dove i critici sono ormai minoranza insignificante e gli applausometri mercantili dominano, non mi ha dunque stupito. “Skolimowski è arrogante?” E con questo? Rispose in gioventù un non meno spavaldo Roman Polanski, chiamato dagli amici Romak, aggiungendo: “ma ha molto talento”. Anzi è stato proprio il suo maestro dialoghista nel Coltello nell’acqua, 1964, l’altra collaborazione, prima di The Palace.
In una sceneggiatura di Skolimowski e della sua compagna Ewa Piaskowska non troverete mai espedienti che pretendono di imitare il linguaggio parlato. Nessun: ah! mah! beh! O altre inezie simili che abbondano nel cinema privo di costruzione formale e che si compiacciono di collezionare trovate graziose. Jerzy sta ore e ore a smussare dai dialoghi tutte le lettere inutili per rendere ogni parola imprevista, allusiva, sorprendente, ellittica, perché è sempre di qualcos’altro che si parla quando sono le intenzioni che ci muovono, qualunque sia obiettivo che ci si prefigga. Lui “ha un’enorme memoria verbale e immagazzina inconsciamente il modo esatto di dire le cose”. Polanski, intervistato nel 1966 dai Cahiers du cinema ricordava: “Andrebbe su tutte le furie per una battuta come ‘Questa sera mi piacerebbe andare al cinema’, direbbe piuttosto: ‘danno qualcosa di interessante stasera?’”. Lo scrittore preferito di Polanski, quando nel 1957 riuscì a leggerlo finalmente grazie all’apertura culturale (breve) del Partito Operario Unificato sotto la direzione di Gomulka, era proprio Witold Gombrowicz, da cui Skolimowski ha tratto nel 1991 30 Door Key una sua lettura di Ferdydurke, il romanzo del 1937 che Polanski più adorava (un saggio dello studioso polacco Jacek Nowakowski racconta proprio i profondi rapporti tra l’autore esistenzialista dei celebri Diari, morto nel 1970 dopo un lungo esilio in America Latina e a Parigi e il regista di Per favore non mordermi sul collo, non meno esule di lui) perché gli ha insegnato a smascherare, con analoghi procedimenti grotteschi, paradossali e perversi, l’inautenticità della vita, i ruoli forzati che dobbiamo assumere e l’infantilismo coriaceo e indelebile che ci sottomette ai poteri.
Scrive Skolmowski: “Ho letto Ferdydurke nel 1960, quando ero studente alla Scuola di Cinema di Lodz. Ricordo di averne discusso con Roman Polanski, che all'epoca lo considerava il suo libro preferito per come trattava e metteva a soqquadro l'ambiente scolastico, la borghesia e l'aristocrazia. Non condividevo del tutto il suo entusiasmo, perché c'erano alcuni aspetti di Gombrowicz che mi irritavano. Era un uomo dall'intelligenza caparbia, che si divertiva a prendere in giro i suoi lettori. A quel tempo questo mi dava fastidio”. Nel 2015 a Parigi, alla fiera del libro, Polanski ha letto un commovente elogio di Gombrowicz, ricordando la sua celebre frase “Non siamo noi che diciamo le parole, sono le parole che ci dicono”: "Witold Gombrowicz era il mio autore preferito quando ero giovane perché quel genere di letteratura era proibita in Polonia. Non si conosceva, l’ho scoperto solo grazie ad amici. La scoperta di questo genere di scrittura ha avuto un profondo impatto su di me: ignoravo nella realtà staliniana che romanzi così potessero esistere” .

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