Mazursky in Wonderland. E’
morto il regista di “Stop a Greenwich Village”
di Roberto Silvestri
Era cosi’ legato alla
controcultura, all’era dell’Acquario che - si mitizzava - avrebbe capovolto il
mondo, allo scontro tra i sessi mutanti, al cinema d’arte europeo e al ventennio ruggente e pop dei sessanta/ottanta che Paul Bartel
nel 1989, lo volle nel cast della commedia al vetriolo “Scene di lotta di
classe a Beverly Hills”.
Un capolavoro che chiuse
quell’epoca di speranze e fermenti ed e’ stato il manifesto piu’ feroce mai
realizzato sull’incarognimento dei tempi e sull’America devastata dal decennio
Reagn-Bush padre. Non a caso Paul Mazursky interpretava il marito di Jacqueline
Bisset, ma in forma di fantasma che, un maialetto al guinzaglio, perseguitava
quella donna che si era arresa all’avidita’ e a tutto il resto del catechismo criminale
dei contro valori borghesi.
Il regista, attore,
sceneggiatore e produttore Paul Mazursky - un collega di Eli Wallach ai corsi
di Lee Strasberg all’Actors Studio - morto lunedi’ scorso a 84 anni a Los
Angeles , portabandiera negli anni settanta di quel cinema americano fortemente
contaminato dal cinema d’autore europeo, negli ultimi venti anni era “scomparso” dai set e dalle
cronache, a parte qualche retrospettiva eccentrica che si organizzava qua e la’
nel mondo.
Nato nel 1930 a Brooklyn da
una famiglia ebrea russa, figlio di un tipografo di giornali, attore
televisivo, dal 1959 in California, sceneggiatore del Danny Kaye Show, dopo il
folgorante successo ottenuto con cinque o sei film, non era proprio riuscito ad
adeguarsi al mutare dei tempi, almeno dopo Moscow
on Hudson del 1984, che aveva la pretesa di rovesciare Ninotchka, raccontando la storia di un sassofonista sovietico
(Robin Williams) che dopo aver scelto la liberta’, si fa vincere dalla
nostalgia per la patria perduta, anche se tutti erano convinti in quegli anni
che si trattasse dell’Impero del male.
Insomma, un po’ come Henry
Jaglom, John Jost, Alan Pakula, Hal Ashby, Peter Bogdanovich o John Avildsen, Mazursky
proprio non voleva scendere a patti con i nuovi padroni del giocattolo,
banchieri anzi impiegati di grandi conglomerati del tutto ignoranti delle
faccende dell’arte, interessati solo ai
blockbuster e alla techno-visione col pop corn incorporato perche’ volevano
dire bei profitti. Dopo due o tre flop, Storie
d’amore e infedelta’, 1991, e Buona
fortuna, Mister Stone (1993) cosi, Mazursky fu dichiarato ‘paria’ da Hollywood. Se la
direttrice di Ciak Piera De Tassis in
questi anni avesse messo una sua foto in copertina, in una botta di nostalgia
per Stop a Greenwych Village, l’avrebbero
licenziata in tronco. Rischio’ il posto, figuriamoci, perfino per aver osato
dedicare un numero a Clint Eastwood, un primo piano troppo vecchio per essere
in idolo dei teenager….Solo de Oliveira a 106 anni, e in Portogallo, viene
omaggiato come una leggenda vivente.
Pur non avendo raggiunto la
celebrita’ dei suoi compagni d’avventura della “new Hollywood”, come Francis
Coppola, Woody Allen, Martin Scorsese o Robert Altman, Paul Mazursky, nonostante
le 5 candidature agli Oscar, il suo
senso dell’umorismo newyorker, la sua intelligenza di matrice yiddish, la sua
finezza extraparlamentare, le argute facezie di cui disseminava commedie
fantasiose e libertarie, e anche molto autobiografiche, un po’ come se fosse il
Fellini di Brooklyn, non si volle mai sganciare dagli anni 70 e dall’utopia di
un cinema coraggioso e sfrontato, capace di fare i conti con la vita che urla
(non solo di gioia) e di graffiare a fondo la realta’ senza passare per la
metafora, il mito, il canone rigido e i super eroi dal retrogusto acido, che
era stata invece la strada scelta dagli affiliati piu’ giovani della new
Hollywood, Lucas, Spielberg, Zemeckis, Badham, Carpenter e Milius. Loro, i
cormaniani, presuntuosamente, volevano egemonizzare Hollywood. Ci provarono, e perdettero. Mazursky
se ne teneva un po’ alla larga. Welles era il suo modello, piuttosto. Mazursky
inoltre era un po’ troppo newyorkese eretico per preoccuparsi della carriera e del successo. Non propri
come quell’estremista di Robert Kramer, che se ne ando’ in esilio in Europa. Ma
il suo esodo lo porto’ in California. Un po’ come
aveva fatto Cassavetes. Uno dei manifesti della new Hollywood
fu cosi’ la sua opera prima, subito candata all’Oscar, Bob & Carol Ted & Alice (1969), due coppie borghesi
annoiate si scambiano i partner, ma la cosa non e’ proprio liberatoria. Girato
addosso a due idoli del
momento, Elliot Gould e Robert Culp, piu’ l’eterna Natalie Wood e Dyan Cannon,
faceva certo la satira sottile della rivoluzione sessuale, ma non istigava al
puritanesimo ne’ alla repressione dei sensi e gli scambisti da palestra di oggi
dovrebbero dargli un’occhiata, per annoiarsi un po’ meno. Mazursky lo giro’
come opera prima dopo aver scritto per Peter Seller I love you, Alice Toklas. In quegli anni faceva coppia comica fissa,
sulla scena e sulla scrivania, con Larry Tucker. E l’esordio li catapulto’ subito
al quinto posto nella classifica di incassi. Stava avvenendo una mutazione antropologica
nel pubblico americano. Oppure tutto il pubblico “normale” di prima non c’era
piu’ perche’ era andato a sparare in Vietnam e per lo piu’ era morto? Oggi
un film cosi’ difficilmente te lo farebbero fare. Il successo del “quartetto di Los Angeles” permise
a Mazursky di realizzare due film intimi, girati in prima persona singolare
maschile e piuttosto originali, Alex in
Wonderland,1970, con Donald Sutherland, un giovane canadese, altro divo del
momento, ed Ellen Burstyn (la bionda indispensabile, come l’afghano nero, per
fare epoca) che era proprio un fantasy fuori di testa, alla Fellini 8 e ½, per tutta la vita il suo unico vero idolo, il suo oggetto
d’affezione totale. Massimo Troisi proprio dopo avere visto quel visto deve
aver deciso che l’opera seconda era meglio non farla, o comunque era meglio
intitolarla Ricomincio da tre. Del 1973 e’ Una pazza storia d’amore, e di rimatrimonio come negli anni
trenta, con George Segal che, infedele compulsivo,
cerca di strappare la ex moglie al un musicista rock (Kris Kristofferson) buono
bello e drogato, e ci riesce, mettendola incinta, pur giocando fuori casa (a
Venice, Los Angeles). Due fiaschi. Per fortuna si riprende con Harry and Tonto (1974), con Art Carney
che vincera’ la statuetta aurea per il miglior attore dell’anno (strappandola a
Dustin Hoffman, Jack Nicholson e Al Pacino) anche se il suo ruolo, un
professore di 72 in pensione, e’ costretto a fare l’easy rider per gli States,
dal west al Midwest, dal New Jersey alla prigione, che divide con un nativo,
con solo il suo gatto per amico e compagno d’avventure. “Se la vita e’ un fiume,
un uomo deve combattere o affoghera’ ”, era il suo motto. E, l’epitaffio finale,
che dedichera’ al gatto Tonto: “La vita e’ confusa, ma ho fatto del mio meglio per
venirne a capo”. Il primo amore, la prima canna e i primi fallimenti di lavoro
e sentimentali di un aspirante attore avvengono dalle parti di Bleeker Street,
al West Village di Manhattan, proprio come era successo al giovane Mazurszky appena
diplomato al Brooklyn College. Siamo in pieno Next Stop to Greenwych Village del 1976 che anticipa un altro
grande elogio alla grande Mela e alla sua eroina, “la donna tutta sola”,
l’americana indipendente che gia’ e’ Hillary Clinton. Bernardo Bertolucci e non
solo lui sara’ folgorato da Jill Clayburgh, mamma di una ragazzina adolescente
che rinuncia all’Upper Side dei ricchi e si butta senza paracadute, ma in piena
indipendenza, a Soho, a rischiare, perche’ vivere spericolatamente e’ piu’
bello che annoiarsi con i soliti giochini ipocriti coniugali. Un Unmarried woman e’ del 1977 e Clayburgh vince il premio di
Cannes per la sua performance raffinatissima e sexy. Il geniale critico di
Chicago Roger Ebert scrivera’ che e’ uno dei film piu’ divertenti, commuoventi
e veri che abbia mai visto. Oltre a Fellini un altro dio del pantheon di Mazursky e’ Francois
Truffaut. E nel 1980 ecco che gli dedica Phil
and Willie (“Io, Willy e Phil”) il
suo Jules et Jim. Ancora New York, le canne con libanese e il marocchino, il mito dell’India
spiritualmente bella, e ancora la ricerca, non lineare, della propria identita’.
Un professore ebreo di inglese che vorrebbe essere bravo come Bill Evans e un
fotografo italoamericano che vorrebbe essere un intellettuale a la page almeno come
Susan Sontag fanno amicizia vedendo in un cineclub Jules et Jim e poi
incontrano una ragazza del Kentucky (Margot Kidder) che vorrebbe comportarsi da
bellezza metropolitana e intanto diventa la loro provinciale Jeanne Moreau.
Insomma nessuno e’ a proprio agio in questo mondo, l’umorismo da’ quanche
consolazione, ma la disperazione e’ dietro l’angolo. Anche perche’ il cinema
europeo, per Mazurszky si’ che e’ bello,
anche quando e’ trombone e pretenzioso, mentre quello americano e’ sempre
proprio una noia. Una considerazione che non gli perdoneranno mai in patria.
Nonostante qualche altro successo come Su
e giu’ per Beverly Hills che, tra Renoir di Boudu salvato dalle acque e Pasolini di Teorema, mette caos nell’ordine della ricchezza losangelina,
introducendo un barbone (Nick Nolte) in una lussuosa villa dei quartieri alti e
sbriciolando l’identita’ del padrone di casa (Richard Dreyfuss) che si vedra’
portar via tutto, anche l’amore della moglie e della figlia (le musiche sono
dell’ex Police Andy Summers), saranno
maltrattati o ignorati i suoi ultimi lavori: Nemici, una storia d’amore (1989) tratto da un romanzo di Isaac
Bashevis Singer del 1966, con Ron Silver, intellettuale ebreo fuggito al
nazismo, che a New York vive una doppia e complicata storia d’amore che diventa
addirittura triangolare quando riappare la moglie (Anjelica Huston) che lui
credeva assassinate in un campo di sterminio (il film strappera’ comunque due
nomination all’oscar per le attrici, la Olin e la Huston). In Storie d’amore e infedelta’ (1991) Woody
Allen e Bette Midler il giorno dell’anniversario di matrimonio, tireranno fuori
tutte le loro reciproche malefatte e tradimenti e le loro corde vocali e
gestuali, prima di riconciliarsi, ma nonostante le performance attoriali
squisite siamo pigionieri di un copione senza sorprese e tensione mentre in Buona fortuna, Mr. Stone (1993) che,
nonostante il titolo, fu malaugurante, torna all’autobiografia. Danny Aiello,
tra Dyan Cannon e Sherley Winter, e’ il regista indebitato e in declino che
cerca di risollevarsi con un film demenziale (Il cetriolino) lascia la Francia e torna negli States ma viene
perseguitato da tutti, ex mogli, figli, produttori, amanti, attricette e
giornalisti che cercano di dissanguarlo.
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