sabato 6 giugno 2015

Cinema Komunisto. I film di propaganda della ex Jugoslavia. Anche se Tito fu piuttosto un dittatore da "capitalismo di stato"


Il regista montenegrino Velicko Bulajic
Roberto Silvestri


L’uomo politico più cinefilo della storia? Non è stato F.D. Roosevelt, né Mussolini, Hitler, Aldo Moro, il principe Sihanouk , Fidel Castro (che pure fu comparsa a Hollywood in gioventù, dicono le leggende) o l’eterno ministro Gava (che amava solo i film polizieschi e sulla Mafia)….
E’ stato Josif Broz, nome di battaglia Tito. Comandante partigiano. Segretario del Partito comunista Jugoslavo. Presidente della federazione jugoslava dal 1945. Capace di rompere con Stalin, ma mai dallo stalinismo e dalla ideologia anti operaia del lavoro e del “sacrificio patriottico”. Altro che comunismo (leggere a questo proposito il saggio di C.L.R. James Capitalismo di Stato e Rivoluzione mondiale che contiene anche acute critiche alla posizione della Quarta Internazionale su Tito), altro che ‘pace e pane’ visto che fu proprio il pane ad essere il bene di prima necessità più tassato... Comunque.  Nominato presidente a vita dal 1975 dopo essersi sbarazzato via via dei migliori quadri comunisti non stalinisti Tito morì nel 1980. Pochi mesi dopo andò in frantumi anche la federazione di Serbia, Slovenia, Croazia, Montenegro, Macedonia e Bosnia-Erzegovina.  
Fu di Tito cinefilo l’idea di costruire i più grandi studi cinematografici del mondo, e dotarli di tecnologie avanzate tali da poter rivaleggiare con Hollywood. Fu lui ad attirare, oltre che i capitali americani, anche le star più prestigiose del cinema mondiale, da Sofia Loren a Alain Delon, da Rock Hudson a Charlton Heston, da Liz Taylor a Alfred Hitchcock, da Franco Nero a Bondarchuk e a Lee Marvin.  E a volere il festival di Pola.
I suoi attori preferiti? John Wayne e Kirk Douglas…
Pochi uomini politici, oltretutto, potevano vantare l’amicizia o almeno l’ammirazione di Orson Welles, a lungo un estimatore (esagerato) del modello “autogestionistico” titoista, oltre che marito della cineasta jugoslava Odja Kodar: “Se la grandezza di un uomo si misura dalla sua attitudine al comando – afferma Welles intervistato da un cinegiornale d’epoca - non si può negare che il maresciallo Tito sia il più grande uomo al mondo”. Welles era di casa sui set jugoslavi. La sua interpretazione nella Battaglia del Neretva (il cui poster fu disegnato da Picasso) del leader cetnico, monarchico e anticomunista (e per questo pronto ad allearsi con gli italiani e i nazisti e a sterminare civili musulmani e croati) Draza Mihajlovic  (niente a che vedere con il neo allenatore del Milan) resta mitica. Anche perché politicamente fu proprio Orson Welles, amico e consigliere del presidente Roosevelt, che aveva convinto gli alleati ad appoggiare i partigiani di Tito e non le truppe apparentemente anti naziste e anti ustasha di Mihailovic. Ma torniamo al cinefilo.  

Tito ha visto (durante la sua presidenza) ben 8801 film, quasi uno al giorno (anzi uno a notte, spesso fonda), spesso accompagnando la visione con giudizi, appunti e commenti. In media 300 all’anno, più o meno quante recensioni scriveva Roger Ebert in 12 mesi sul Chicago Sun Times. Parola di Leka Konstantinovic, il suo proiezionista privato, che – come la burocrazia impone - ha dovuto prima di tutto cercare le copie dei film interessanti in modo da non fargli vedere uno stesso film due volte (se lo ricordava, anche quando l’aveva visto) e poi registrare tutte le seance  private, nella lussuosa villa belgradese di via Uzicka, distrutta dai bombardamenti Nato del 1999 e mai più restaurata. Ovvio che appoggiava la produzione di film di guerra centrati sull’eroica lotta anti nazista del Partito. Adorava che i numeri della targa della sua macchina, in questi film, fossero trascritti alla perfezione.


Abbiamo scoperto tutto questo in Cinema Komunisto, la “storia di un paese che non esiste più se non nei film”, documentario serbo del 2010 basato su materiali di repertorio e interviste ad hoc (fondamentale la lunga chiacchierata con Leka) che arriva solo adesso nelle sale italiane, ed è già un miracolo degno di San Gennaro, dopo aver conquistato in questi anni i festival internazionali e soprattutto statunitensi (Sundance, Chicago, Tribeca, prima di tutto e in Italia naturalmente Trieste).
L’intento del progetto (che ha richiesto svariati anni di lavoro e un lungo montaggio curato da Alexandra Milovanovic ) - una esplorazione nel passato e nelle proprie radici dimenticate o rimosse ma non solo nostalgico -  era quello di raccontarci cos’è stata la Jugoslavia, stato oggi defunto, o meglio nuovamente balcanizzatosi, attraverso la storia dei suoi studi cinematografici, gli Avala di Belgrado, “i più grandi del mondo”, anche se mai completati e oggi abbandonati e semi diroccati. E tornare ai miti e ai riti del socialismo da costruire in un solo paese, per quanto complicato, rivedendo le scene madri dei film più patriottici e anti-fascisti, il genere principale dell’epopea spaghetti-eastern, scovando i suoi divi, dando la parola ai registi e ai produttori di quella inebriante avvenura (o almeno così ci appare). Dal cineasta di regime, il montenegrino Veljko Bulajić, che firmò nel 1969, sfiorando l’oscar La battaglia di Nerevta,  con un cast mozzafiato (Orson Welles, Sylva Koscina, Yul Brinner…) al super divo nazionale Bata Živojinović, che poi è stato sinistramente impegnato, dopo Tito, nel partito nazionalista di Milosevic, fino alla bionda e adorata attrice Milena Dravic, al produttore Dan Tana, che poi se n’è andato a Los Angeles e ha aperto un ristorante di lusso e nella scena più divertente del film rifiuta a Spielberg il tavolo “perché, mi dispiace,  è tutto esaurito”,  fino a Gile Djuric, che diresse gli Avala facendoli decollare come polo di produzione internazionale degno di Hollywood e che veniva dai servizi segreti di Tito (la famigerata Ozna), anche se a un certo punto fu fatto fuori perché proteggeva cineasti e film scomodi anche se dal punto di vista dei profitti era un manager genial.
La regista Mila Turaijlic 
Già. Era Tito, personalmente, a occuparsi di tutto, “compresi gli arresti e le eliminazioni”, anche qui la testimonianza è di Leka che, durante il festival internazionale di Pola, la manifestazione più importante del paese, era particolarmente omaggiato, blandito e intervistato da tutti i giornalisti critici locali per conoscere quali fosserlo le vere impressioni di Tito sui singoli film nazionali e sapere, dunque in anticipo, chi avrebbe vinto l’Arena d’oro e l’Arena d’argento e chi avrebbe avuto invece nel future serie difficoltà professionali….    
Tito, la moglie e Sofia Loren nell'isola privata, anzi "del popolo" presso Pola
Lo “studio system” e lo star system della Hollywood dell’Est si mostrano dunque attraverso film e documentari finanziati dallo stato e ricordi dei protagonisti, senza abuso di didascalie e senza voci fuori campo a spiegare i fatti. Ecco, la natura, il senso e il funzionamento della macchina di potere titoista, centrata sull’uso massiccio della propaganda così come era stata congegnata da Stalin, ed ereditata da Tito, svelarsi attraverso le sequenze più significative (spettacolari, ironiche, involontariamente comiche, struggenti, feroci…) di 56 film e kolossal di guerra, anche lussuose coproduzioni internazionali (Marco Polo, con Anthony Quinn; Genghis Khan, con  Omar Sharif; Quo Vadis? Con Brandauer e Max von Sydow…)  montate con finezza e scrupolo certosino che certamente Franz Josip Tito avrebbe gradito. Su un punto però Tito non era stalinista al 100%. Nella gestione del culto della personalità. Infatti appare a tutto tondo in un solo film, per quanto nella parte eroica del partigiano ferito dal nemico che ha una sola missione da compiere. Raggiungere i patrioti feriti e portarli in salvo. Lui è interpretato addirittura dal divo gallese Richard Burton e il film è The Battle of Sutjeska (1973) di Detic: non una sola batuta del copione è sfuggita alla sua revisione, compresa la scena del suo ferimento che scandalizzò i suoi scagnozzi perché vagava tutto solo senza che nessuno andasse a soccorrerlo. Tito invece volle mantenere la scena: “Andò proprio così”.
 
Il proiezionista di Tito, Leka, e la statua del Maresciallo
La giovane regista serba del film, l’esordiente Mila Turjilic, nel suo curriculum il set di Apocalypto, ha affermato in una intervista che questo film è dedicato ai giovani dell’ex Jugoslavia e che non è interessata tanto a quello che ne pensaranno i più vecchi, quelli che hanno vissuto durante gli anni di dittatura (prima dell’era Milosevic e della attuale ‘democrazia’), quando, come ricorda con commozione il vecchio bacucco Emir Kusturica, nei tornei mondiali di calcio e basket, primeggiavano le squadre jugo.  In quegli anni, però, è bene ricordarlo alle nuove generazioni che forse non lo sanno,  chi primeggiava davvero erano proprio i cineasti della nuovelle vague jugoslavia, quelli che Tito aveva costretto al silenzio o all’esodo, e fatto bollare dai critici di regime come dissidenti, destri, nemici del popolo, “generazione nera” . Erano i geniali e coraggiosi allievi praghesi della scuola di cinema, come Makaveiev, Paskalievic, Petrovic e Sijan, e sapevano coniugare sguardo etico, lucidità storica, ferocia politica, umorismo sferzante e analisi concreta di una situazione concreta. Rischiando la galera. Polemizzando con il cinema ufficiale, con Buljiaic in particolare, e con molti di quei ridicoli e retorici polpettoni resistenziali. Erano tra i pochi a criticare la dittatura, niente affatto “del proletariato” ma del Partito unico infarcito di opportunisti piccolo borghesi e yes men. Per esempio Makaveiev, e molto prima di Wajda, aveva avuto il fegato di incriminare in Sweet Movie, i sovietici, e non i nazisti, per il massacro di ufficiali polacchi a Katyn. Ma Turijlic non vuole fare la storia del cinema jugoslavo. Gira negli studi abbandonati, triste e un po’ nostalgica, e riprende gli scaffali ancora pieni di armature, spade, elmi e vestiti medievali per le comparse dei film sui vichinghi o sullepoca feudale. Filma i muri diroccati, le bobine e i copioni per terra, le fotografie ingiallite. Come indica la citazione del filosofo Ranciere, messa sui titoli di testa “la storia del cinema è la storia del Potere che creare storia”.


Il poster di Picasso de La Battaglia della Nerevta  (1969)

venerdì 5 giugno 2015

Statistiche dopo Cannes...indici d'ascolto e di gradimento.....Vince Nanni Moretti



Mia Madre, il film che ha più incuriosito i lettori del Ciottasilvestri
Una curiosità per chi ritiene che l'applausometro sia quasi una scienza critica esatta. I lettori del blog ilciottasilvestri, come interesse dimostrato, durante il festival di Cannes, e per quantità dei cliccaggi, hanno assegnato la Palma d'oro virtuale a Nanni Moretti che ha superato nell'ordine Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Roberto Minervini e Jonas Carpignano (ancora poco conosciuto questo interessantissimo regista, il suo film non  è ancora uscito nelle sale italiane). Tra gli stranieri il film di Audiard ha regolato con estrema facilità, forse anche grazie alla Palma d'oro reale,  Mad Max di George Miller e Carol di Todd Haynes (pari merito secondi) poi Cissé, Gus Van Sant e Inside Out, Mon Roi e Weerasethakul.........  Finora comunque il pezzo più letto è la recensione di Adieu au langage di J-L Godard, secondo la critica a La Grande Bellezza, il pezzo su Ciro Giorgini, quello sui dieci migliori film arabi classici della storia e Mia madre..... Tanto per informare.

ps.1 se si sommano però i due pezzi dedicati a Sorrentino, la recensione e in corsivo indifesa di Sorrentino che polemizzava con le offese piuttosto gratuite di Liberation contro un film che può essere anche stroncato violentemente, ma almeno motivatamente (ci ricordava una stroncatura altrettanto "fascista" contro un film di Francesco Rosi) vince Sorrentino. Come nel box office. 6 milioni di euro contro 3,5 milioni di euro.....

ps.2 Quando nei resoconti dai festival i quotidiani popolari magnificano la durata degli applausi, dieci, quindici minuti (e in particolar modo quando questo dato viene appeso al pezzo di colore che riguarda un film italiano) non ci fate mai caso. Il pubblico di invitati ai gala del festival di Cannes o di Venezia applaude in genere se stesso, più che altro, e per svariati minuti (è potente, ha strappato l'invito giusto) e anche, per cortesia, registi e attori, visto che sono in sala. 
E quando si registrano, invece, i fischi e i buu che avrebbero accolto un film controverso in occasione dell'anteprima mondiale per critici festivalieri, non ci fate caso neanche questa volta perché a quelle proiezioni sono invitati moltissimi estranei e anche gli uffici stampa (dei film avversari). Insomma le claque ormai sono organizzate professionisticamente. Non era solo il generale Tito che per riempire completamente l'arena di Pola in occasione del grande festival jugoslavo del cinema obbligava i militi della marina attraccati nel vicino porto a presiedere Inoltre, anche se fossero davvero ampi settori della critica a fischiare o disapprovare un film che male c'è? Sono venuto fin qui per dividere, non per unire, disse il cineasta invitato al festival. Si chiami Pialat o Garrone, Van Sant o Erice....

mercoledì 3 giugno 2015

Il ventre di Eisenstein. La prima parte della trilogia dedicata all'alter ego di Peter Greenaway


I disegni "immmorali" del libro rosso di Eisenstein
Roberto Silvestri

La sospensione dell’incredulità. E’ questo che fa grande il cinema rispetto al teatro, dove la presenza flagrante del corpo d’attore è contundente, crea meno naturalmente ultraspazio. Anche se qui si maneggia la storia, la geografia, perfino, questa volta, la biografia conosciuta di un artista…Lo sfondo politico e mitologico in cui visse. E il suo “corpo, goffo, sgradevole, braccia corte, testa grossa, piedi grandi, il fisique du role del clown”... A cui l’attore finlandese Elmer Back regala tutta la sua equina esuberanza, dinamismo e duttilità.  


Tre automobili anni trenta, in bianco e nero, si avviano, nella polvere ma non impolverate, verso l’assolata Guanajuato, 370 km a nord ovest di Città del Messico, gioiello coloniale e sede del “museo dei morti”, 111 mummie naturalmente, macabramente e misteriosamente ben conservate.  Si passa al colore, e prima al mezzo colore, perché si sta penetrando un paesaggio cittadino policromo mozzafiato, collegato da sinistre, cupe e umide strade sotterranee.
La musica (applicata) è di Prokofiev, suonata dal vivo in un cinematografo gigantesco e vuoto, sulle immagini di un capolavoro eccelso della storia del cinema.


Palomito (Luis Alberti) a sinistra con il bigotto, razzista  e reazionario Hunter S. Kimbrough (Stelio Savante)
Scatta lo split screen, utilizzato come per creare delle ordinate note visive a piè pagina al film (con sovrapposizioni di foto o sequenze illustrative del testo letto) o per giocare con gli effetti digitali “cubisti”. E la voce fuori campo ci racconta di, e si raccorda a, classici del muto rivoluzionari, mentre sequenze di toreri in azione e campesinos torturati a venire e una tempesta di riquadri che volano sullo schermo ricordando il passato, e fanno capire che qui con il tempo si gioca.
Si fa un passo avanti per farne due indietro.
Il cinema poetico e non narrativo è una macchina che pensa anacronisticamente. E noi con lui. Un cinema che abbia la libertà totale di un pittore, sogno del regista di cui stiamo ammirando il nuovo film, è anche un cinema di corpo, molto fisico, action painting. E così vedremo lo sgonfiarsi e il rigonfiarsi degli spazi via grandangoli semoventi che si modellano come plastilina, il sonoro tornare indietro come per effetto scratching, silhouette nere da cinema primitivo che camminano in primo piano disturbando i campi medi, la parodia delle geometrie interne equilibratissime di Wes Anderson, l’alea programmata di uno sportello di auto che non vuole chiudersi e un infastidito libero artista russo che, come fosse già negli anni delle purghe e dei processi stalianiani, diffida delle mosche che lo tediano fin dal confine statunitense: quel ronzio rude sgarbato di insetti volteggianti con gli occhi iniettati di sangue certo dimostrano che non di mosche si tratta ma di subole spie, agenti segreti che lo controllano. Trotszy in effetti è spedito in Turchia, molti colleghi cacciati dal lavoro. Stanno iniziando le purghe.
A Peter Greenaway, padre ornitologo, piacciono, come antitesi, proprio gli insetti, i nemici dei volatili. Assisteremo finalmente a una storia raccontata dal punto di vista di… una mosca, insetto dai mille occhi certamente estranea, postumana, rispetto alla controversia che tanto accalorò il secolo scorso delle tre C, Comunismo, Capitalismo, Cattolicesimo….       

L'invidia del Wes
Il più celebre cineasta russo dell’epoca muta, reduce dai trionfi critici di Sciopero, La corazzata Potemkin e Ottobre, Sergei Eisenstein (1898-1948), il suo biondo e fascinoso aiuto regista Grigory Alexandrov e l’operatore Eduard Tissé nel dicembre del 1930, esaurita in malo modo l’esperienza hollywoodiana, partirono per il Messico e girarono, senza attori professionisti, un film, o meglio una complessa sinfonia visiva in sei parti, sulla cultura, l’arte, la spiritualità e la storia di un paese i cui lavoratori avevano fatto la rivoluzione 5 anni prima dei bolscevichi, Да здравствует Мексика!, Que viva Mexico!
La rivoluzione campesina di Pancho Villa e Emiliano Zapata, per la verità era poi finita piuttosto male, con l’assassinio dei leader, la rivincita selvaggia dei latifondisti e il massacro, irreversibile, dell’economia di un paese da allora asservito agli Usa. E poi quel rapporto, quasi complice, molto intimo, con la morte di un popolo che sapeva maneggiare, senza rimozioni, eros e thanatos riempì Eisenstein di erotico vigore. Però.
Elmer Back (Eisenstein)
Il Messico, nel 1931, non aveva relazioni diplomatiche con l’Urss. Quel trio di “sovversivi rossi”, cineaste blasfemi e immorali, secondo la stampa conservatrice, era guardato con sospetto e diffidenza da politici, polizia e dai loro banditi prezzolati, i camorristas (tre caballeros armati e minacciosi come in western all’italiana, ma senza la follia negli occhi di Fernando Sanchez). Si temeva un micidiale pamphlet anti governativo firmato da quell pericoloso ebreo comunista. Ma alle spalle della produzione indipendente, garantita dal prestigioso scrittore progressista Upton Sinclair, lettissimo in Urss, c’erano dollari americani e a Guanjuato, la città scelta come quartier generale per il film, Eisenstein godeva dell’appoggio di molti intellettuali e artisti locali di sinistra, da Diego Rivera a Frida Khalo.
Eppure quel film Eisenstein non riuscì né a finirlo né a montarlo, nonostante le oltre 30 ore di riprese spedite a Hollywood per lo sviluppo e stampa e definite dagli stessi finanziatori “artisticamente meravigliose”. Una serie complessa di ragioni, produttive, politiche e soprattutto esistenziali, costrinse i tre cineasti sovietici ad abbandonare, dopo alcuni mesi, il paese e il progetto per rientrare a Mosca, senza i negativi della pellicola.

Sergei (a destra) e Palomito
La tragedia di quell’opera d’arte svanita (e poi malamente rimontata da Alexandrov solo nel 1979) e cosa rappresentò il Messico, l’infido mecenatismo capitalista e la controriforma stalinista (futura teologia totalitaria) nella vita e nelle opera di Eisenstein, è raccontato nel nuovo film di Peter Greenaway che è certamente il più interessante e “solare” e il meno criptato tra quelli da lui firmati negli ultimi anni.  Filologicamente Greenaway, giocoliere poetico, massimo virtuoso del wit e del pun, della facezia brillante e del gioco di parole, è come sempre parziale, distratto, falso e licenzioso, perché è l’immagine che deve avere  sempre l’ultima parola. Così i fatti di cronaca, sovietici e hollywodiani, di cui si chiacchiera sono trattati sempre con il massimo irrispetto, Charlie Chaplin diventa produttore capo dell’Universal, invece che della United Artists e di Mary Pickford si dimentica il ruolo. Forse per astio mal celato o perché è donna? Il comunista Eisenstein inanella una serie di pettegolezzi sullo stile di vita moscovita: non ci si lava mai, non c’è la doccia e non c’è l’acqua calda nelle case di mosca, non portiamo canottiere né mutande perché non abbiamo i soldi, ho un solo vestito, bianco, comprato sul Sunset Boulevard, sono partito con 25 dollari in tasca dall’Urss… Mentre proprio dove potrebbe infierire davvero, il problema delle scarpe, sfiora soltanto l’argomento. Pochi mesi prima (1930) era uscito e poi censurato subito un magnifico film georgiano su ‘rivoluzione e scarpe’  di Abram Room (“The Nail in the Boot”) che rispediva al mittente, non senza rischi, la logica dei piani quinquennali: non è la quantità che conta ma la qualità delle scarpe che conta. Oggi si direbbe (a Renzi, staliniano): conta la qualità non la quantià delle riforme sfornate a ripetizione. A favore di chi. Contro chi. A proposito di un solo uomo al comando.     

Uno dei disegni erotici proibiti (e alla Aubrey Beardsley) dal libretto rosso di Eisenstein
La contagiante ossessione recente, tardo rosselliniana, o neo wikipediana, per i film biografici (Spielberg, Fincher, Howard, Eastwood, Van Sant, Martone, Sodebergh, Von Trotta… e perfino, obliquamente, Woody Allen…) diventa altra cosa - non didattica, semmai rispecchiamento, autoanalisi in forma di monologo, anzi di “monovisione interiore” - tra le mani di un pittore giocoliere ed eccentrico come Greenaway che trova il cinema sempre un po’ troppo stretto per le sue ambizioni immaginarie, più legate alle istallazioni a 360° e allo sperimentalismo digitale radicale d’autore che al precotto cinema narrativo d’azione o, peggio ancora, agiografico. 

Primo tassello di un trittico dedicato al regista sovietico ancora troppo scandaloso e rivoluzionario per essere digerito da Fantozzi - che il settantatreenne cineasta inglese (di origine gallese) vuole finire prima di compiere gli ottant’anni “perché dopo nessuno riesce a fare film interessanti”, mi spiace de Oliveira - Eisenstein in Guanajuato girato in Messico e in Finlandia (per gli interni) è stato presentato in concorso a Berlino nel febbraio scorso, prima di girare una dozzina di festival nel mondo (compreso il gay film festival di Palermo qualche giorno fa) e approdare in Italia, il 4 giugno, con il più popolare titolo di Eisenstein in Messico, e il Francia a luglio.
Con Tissé e Alexandrov sul set
Speriamo che arrivi senza censurare al minuto 7, il primo pene in primo piano del film, e poi, minuto 50 circa, la scena d’amore omosessuale softcore, ma col pene ben eretto, tra il grande regista e il suo anfitrione messicano, anche nella Russia ricaduta ormai con Putin in piena sessuofobia zarista e neoberia-staliniana. Già, oltre a essere ebreo, comunista, esageratamente colto e enciclopedico, caratteraccio ateo, geniale, stravagante, ubriacone (in una scena) e immorale, l’artista Eisenstein era anche inguaribilmente omosessuale. E neanche di quelli stile Pasolini, attivi e più machi dei machi. Ma passivi drastici. I pederasti che anche i comunisti del tempo sbeffeggiavano in tutto il mondo, perfino in Germania, attaccando per questo, più che per ben altro, Ernst Julius Gunther Rohm, il colonello delle S.A. fatto poi giustiziare da Hitler nel 1934 per deviazionismo di sinistra.

Ecco il mistero, per Greenaway, della spaccatura artistica tra un prima e un dopo, tra il vecchio Eisenstein dei capolavori e il nuovo Eisenstein che, tornato a Mosca nel 1933 diventerà secondo la vulgata più addomesticato e “propagandistico. L’omosessualità. La cosidetta condotta immorale. Già. Era sotto ricatto, il grande regista. Minacciava di dire tutto e inguaiarlo il produttore di Que viva Mexico che gli strappò di mano per sempre il film. I politici messicani, ansiosi di schiaffare in galera quel “giuda”, non vedevano l’ora di distruggerlo, sempre mossi come burattini dalla campagna stampa nordamericana, dalla macchina del fango aizzata da due vermi potenti, il senatore Hamilton Fish (soprannominato da Eisenstein “il bifolco supremo”) e Frank Pease che aizzava i veri americani a cacciare quel “rosso messaggero dell’inferno” e poi si scoprì, ma Greenaway se ne dimentica, che era una spia dei servizi segreti nazisti. E i burocrati di Mosca, che lo obbligarono al ritorno a casa. Come se Eisenstein non volesse (anche se lo costringono al matrimonio riparatore o schermo, come Tom Cruise con Nicole Kidman, con la sua confidente di sempre, Pera). E Stelio Savante nella parte dell’orrido Hunter S. Kimbrough, l’uomo d’affari razzista responsabile assieme a Mary Sinclair (una stupenda Lisa Owen condannata da Greenaway a girare perennemente attorno al letto dove Eisenstein si pavoneggia nudo) di aver rotto il contratto per Que Viva Mexico! Scandalizzato dal quell’accoppiamento doppiamente promiscuo con un seminegro; e, infine, persino l’amante messicano, nonché accompagnatore ufficiale, del cineasta russo, l’antropologo e professore di religioni comparate Jorge Palomito Canedo (Luis Alberti è complementare a Elmer Back, un fuori da rigido e ambiguo Michael Caine e un dentro da infuocato e umoristico Pepe-Cantinflas) che, secondo Greenaway, prima lo esaltò, sedusse senza melensaggini (“convincersi di essere brutto è una forma di esibizionismo, usi la bruttezza – inesistente – solo per darti delle arie”) e sverginò, ma poi abbandonò per superiori doveri di marito amorevole, e ordini dall’alto, quando già il regista aveva deciso di bruciare il passaporto e restare là dove lo aveva portato il sesso.  
E’ di questa parte immaginifica, privata, fisica, sentimentale, cuore in mano, che getterebbe altra luce sul più concettuale e cerebrare dei cine-avanguardisti sovietici, che si vuole occupare il regista inglese/gallese, basandosi sull’adagio che “Senza Marx, senza Lenin e senza Freud Eisenstein sarebbe certamente stato l’Oscar Wilde della Russia”. Una inclinazione d’amore considerata un crimine in tutto il mondo civile e, dal 1936, entrerà nel codice penale perfino dell’Urss. Però basterebbe leggere le memorie di Eisenstein a pagina 304 per non cadere nella dicotomia tra registi di testa e registi di cuore, tra cinema di cervello e cinema di fisico, Eisenstein contro Pudovkin, Resnais contro Godard e Kubrick contro Cassavetes… perché sono poli estremi di una stessa categoria (a cui appartiene proprio Greenaway, in questo film almeno, quella degli onnivori di cultura che mangiano con la bocca aperta): “la ratio sorpassa il sex” o “la base primaria degli impulsi è più ampia di quella strettamente sessuale così come la vede Freud … ecco perché mi attira lo strato del paralogico, di questo subcosciente che include la sensualità ma che non è asservito al sesso”… Insomma troviamo un po’ superficiale la semplificazione di un rapporto tutt’altro che liberatorio e definitivo. Se questa volta Greenaway avesse parlato un po’ più di traverso, e meno cuore in mano, fosse stato più sofisticato e cavilloso e cifrato, come di solito è, forse la madre di tutte le scene sarebbe stata un po’ più mutevole, fantastica e incoerente. Provocando quell’attimo di estasi che non c’è.
il letto racconta (senza baldacchino è meglio)
Adesso Peter Greenaway ha annunciato anche il titolo della seconda parte della trilogia, The Eisenstein Handshakes che è il prequel di questo, perché racconterà il viaggio da Mosca al Messico passando per l’Europa e per gli Stati Uniti di un regista che fu osannato dal mondo e in due anni, dal 1929 alla fine del 1930, tra la Francia, New York, Chicago e Los Angeles, “strinse la mano” a tutti i grandi artisti e politici dell’epoca che lo conobbero e gli resero omaggio: Man Ray, Le Courbusier (“mi chiamava Donatello redivivo”), Cocteau, Leger, Gance, Bunuel,  le sorelle Gish (“mi chiesero di lavorare con me, le consigliai Pudovkin, più adatto alle lacrime e ai singhiozzi del melo”), Paul Robeson, Chaplin e soprattutto il grande Walt Disney:“l’unico grande cineasta che crea a partire dal nulla”. Bella la battuta contro lo sdolcinato e melenso Pudovkin che, quando avrebbe dovuto difenderlo, anni dopo, lo tradì per opportunismo, come molti altri colleghi. Solo Kulesciov, invece, lo difese. E spiegò l’odio degli altri in una sola parola. Invidia. Un bel po’ ce l’ha anche Greenaway.   Che comunque, con Eisenstein, ha molte cose in comune. L’adorazione per le creature degli entomologi, per gli insetti, intanto. Come se fossero una sorta di meta, di futuro postumano dell’uomo. In fondo diventeremo vermi, no? Bisognerebbe scoprire però come sono fatti dentro ….

la carovana della morte
Eisenstein in un famoso passo scrive delle Memorie: “Ogni bambino per bene fa tre cose: rompe gli oggetti, sventra bambole o orologi per sapere cosa c’è dentro, tortura gli animali. Per esempio se non trasforma le mosche in elefanti, almeno ne fa dei cagnolini. A questo scopo si staccano le zampette di mezzo (ne rimangono quattro). Poi si strappano le ali, la mosca non è più in grado di volare e corre a quattro zampe. Così si comportano i bambini per bene. I bambini bravi. Io ero un bambino cattivo. Da piccolo non ho fatto né la prima cosa, né la seconda, né la terza. Non ho sulla coscienza né un un orologio smontato, né una mosca torturata, né un vaso rotto di proposito. E questo è molto negativo perché è proprio per questo che sono diventato regista. I monellacci infatti da piccoli non mutilano le bambole, non rompono i piatti e non torturano gli animali. Ma basta che crescano ed eccoli impetuosamente attratti proprio da questo genere di divertimenti”. Greenaway spacca molto bene un pezzo di biografia di Sergej M. Eisenstein.
Elmer Back, Eisenstein

L'invincibile Alberto De Martino di "sti cazzi" e di "me cojoni". E' morto a 85 anni lo scienziato romano del cinema di qualità commerciale


Avevi visto molti western prima di girare, dal 1964 al 1967, Gli Eroi di Fort Worth, 100 mila dollari per Ringo e Django spara per primo?


Alberto De Martino: No, solo Ombre rosse, Shane Il cavaliere della valle solitaria…Ma nessuno era un esperto, neanche Sergio Leone. Comunque fare western, così come girare pepla, horror, thriller, polizieschi, non significa imitare i grandi maestri del genere, ma seguire lo loro orme per cercare il consenso del pubblico. Se così non fosse tutti i registi, tranne Fellini, Pasolini e Antonioni, e quei pochi che hanno fatto un cinema personal, o di poesia, dovrebbero essere definiti degli imitatori. Il che è assurdo, no?






di Roberto Silvestri






Arthur Kennedy e Carla Gravina in L'anticristo (1974)
“Il mio desiderio, ora che ho lasciato il cinema, sarebbe quello di tornare a suonare del buon jazz freddo con i miei amici, Lucio Fulci alla tromba e Antonio Margheriti alla batteria. Io al pianoforte, anche se le dita ormai non sono quelle di una volta” (da Spaghetti Nightmares, un’intervista di Luca M. Palmerini e Gaetano Mistretta, cito a memoria) .

A destra Eli Roth, a sinistra Alberto De Martino e in mezzo credo Enzo G. Castellari e Ruggero Deodato
Che grande trio old fashion avremmo ascoltato! Bisognerebbe proprio rifare la storia del cinema italiano partendo dai registi spuri che, come Carmelo Bene, Luchino Visconti o Mario Martone, o i “pittori” Fellini e Grifi e molti della cooperativa cinema indipendente o della “scuola romana”, e gli scrittori come Soldati e Pasolini, e i jazzisti come Centazzo… sono stati capaci di creare “immagini” di ogni tipo, attraversando le arti e non fossilizzandosi mai in una sola “professionalità”. In questa storia di artisti polistrumentisti avrebbe certamente un posto importante un cineasta che è morto poco prima di compiere 86 anni e che passò gli anni di studi (giurisprudenza, tesi Il concetto di lavoro nella filosofia del diritto) suonando gli standard deformati della swing era nei night, negli ospedali americani, nelle sezioni di partito (di sinistra, visto gli amici) ma non alla radio pubblica, perché allora il jazz era off limits.   E che probabilmente proprio da quel jazz strutturato, tra be-bop e free jazz, in “tema, improvvisazione di differenti strumenti sul tema, e ripresa arricchita del tema nel finale” aveva preso l’ispirazione di partire, sul set, proprio dalla fine, nel piano sequenza, per disegnarne a ritroso tragitto e disegno. Che è quello che un suo esegeta e allievo Luca Rea ricorda oggi su facebook tra i tanti insegnamenti di regia di questo Maestro, colto, lettore onnivoro e persona modesta e riservata.      

Alberto De Martino con Marco Giusti al cinema Trevi di Roma  nel giugno del 2014
Stiamo parlando di Antonio De Martino, romano di via Po, figlio d’arte, suo padre è stato un pioniere del make-up, il truccatore Romolo De Martino (che sarà il braccio destro del regista in Horror, Holocaust 2000, Extrasensorial, La casa maledetta, Alien Killer…; a sei anni è attore bambino (“ero uno dei tre figli di Scipione l’Africano di Carmine Gallone, girato a Cinecittà nel 1935, appena nata”), poi assistente al montaggio di Otello Colangeli, montatore, documentarista, assieme all’amico Sergio Sollima dal 1949 (Turismo col pollice e Intervista al cervello), aiuto regista, dopo aver abbandonato i quintetti cool, nei primi anni 50, “perché di jazz non si viveva”, e ancora sceneggiatore, direttore di produzione, direttore della seconda unità (Giù la testa, per l’amico Sergio Leone, nel 1971) ma soprattutto regista, esperto scienziato del cinema commerciale italiano, all’attivo 29 regie, con star del calibro di Kirk Douglas, John Cassavetes (“si impasticcava con stimolanti per tenere alto quel registro sopra le righe che ha fatto la sua fortuna di performer”), Telly Savalas, Michael Moriarty, Donald Pleasence (“squisito uomo di cultura che amava declamare poesie”), Martin Balsam, Tomas Milian, Rossano Brazzi e tanti altri, punto di riferimento fidato, dal 1962 al 1986, dell’industria italiana, specialista in ogni filone di punta, pepla, western, thriller, horror, poliziottesco, iperviolento… capace di portare il pubblico al cinema, non farsi mai acciuffare da un festival "normale" e incassare magari un miliardo di lire spendendo 100 milioni di budget. 

Alberto Lupo in Django spara per primo
Negli anni 70 e 80 il cinema italiano di genere è quello che ha salvato i livelli di occupazione del settore solo attraverso coproduzioni vincenti “estero-estero” cioè  attraverso filiali straniere di società italiane che giravano thriller e polizieschi o horror e sexy movie annusando e riproponendo in set nordamericani e in lingua inglese quel che i giovani cineasti delle major  Usa (la generazione di Joe Dante e James Cameron) avevano più o meno “rubato” ai Mario Bava, Vittorio Cottafavi, Lucio Fulci e Riccardo Freda di qualche lustro prima. Opere come L'uomo dagli occhi di ghiaccio, Blazing Magnum, per il mercato internazionale concorrenziali per ritmo, trovate, design e professionalità, al prodotto medio hollywoodiano grazie a regie sempre fantasiose (e non a caso adorate da Tarantino, che presentò a Venezia 100.000 dollari per Ringo, finalmente in un festival, e Eli Roth) firmate Enzo G. Castellari, Romolo Guerreri, Ruggero Deodato, Luigi Cozzi, Lamberto Bava, Alberto De Martino (spesso al suo fianco come direttore della fotografia Joe D’Amato, alias Aristide Massaccesi) e altri. A proposito di Massaccesi fu proprio la visione casuale, assieme a De Martino, di Gola profonda  a San Francisco, tra una pausa e l’altra di lavorazione di Il consigliori a far deviare Joe D’Amato verso il soft porno e l’hard fantasiosamente rivisitato. Genere che invece sembrava del tutto disinteressante a De Martino: “Ma mi sa che aveva ragione lui”….



Il compositore della neoavanguardia e re della musica applicata, Ennio Morricone, ha lavorato ben 8 volte con lui (anche se la bella partitura dell’Anticristo va divisa con Bruno Nicolai) più che con Sergio Leone (5 soundtrack), ma in nessuno dei suoi film – e questo lo ha sempre contrariato, è riuscito a raggiungere i livelli artistici, le forme melodiche e armoniche indimenticabili e inarrivabili, del sodalizio con Leone.
Registi preferiti? Sergio Leone, Federico Fellini e Steven Spielberg, “un genio” (mentre Coppola è stato miracolato grazie all’incontro con Mario Puzo). Pseudonimo? Martin Herbert (nome con il quale è firmato il film che più detestava tra i suoi, Gli eroi di Fort Worth). De Martino è stato lanciato dal produttore-regista Italo Zingarelli, e, come molti cineasti della sua generazione (pensiamo a Vivarelli, Deodato, Aristide Massaccesi…) quando girava, primo film Il gladiatore invincibile, del 1962, si dedicava anima e corpo al progetto, in una sorta di possessione…invincibile. Escogitando anche geniali idee produttive come quella di girare il peplum Gli invincibili sette nel 1964 rilanciando (primo di una interminabile serie) proprio quel numeretto aureo, 7, rubato a Sean Connery e a Steve McQueen, e arrangiandosi con sette attori semisconosciuti in mancanza di una vera star body builder, utilizzata invece in Perseo l’invincibile, con il culturista Richard Harrison. Fu lui a dare a un genere per lo più straniero, e che fino al 1963 veniva definito in Italia “gotico”, un nome nuovo di zecca, Horror, dal titolo di un suo film del 1963.  Intanto era diventato anche produttore, non proprio felice (“solo i napoletani con il loro cinema locale e musicarello si sono arricchiti con il cinema, nessun altro”)  e si sarebbe occupato sempre più spesso  di più direzione del doppiaggio (da La Dolce Vita, solo per ricordare un titolo dell’epoca d’oro del cinema a Dallas e Kojac), polemizzando con la nuova generazione dei doppiatori che mancando di eleganza e fantasia  utilizzano in modo sempre più noioso parolacce e gerghi dialettiali. E’ stato inoltre presidente di una cooperativa di attori, “perché con la Siae non si vive, e senza quel lavoro non avrei mai potuto sopravvivere, da quando il cinema in televisione nei primi anni 80 ha ucciso il nostro cinema popolare”.
A Marco Giusti, in una bella intervista registrata al cinema Trevi di Roma, in occasione dell’omaggio che la Cineteca Nazionale dedicò l’anno scorso al regista di L’anticristo e L’assassino è… al telefono (con una strepitosa Rossella Falk “la migliore attrice italiana in assoluto”), dopo aver chiarito che è sua e non di Castellari la paternità del celebre detto filosofico “al cinema un titolo funziona quando lo ascolti e pensi me cojoni, e non funziona se invece reagisci con sti cazzi” (il suo titolo più me cojoni? Il sessantottino Dalle Ardenne all’inferno) e aver svelato che il suo nomignolo sul set era “pisello” perché amava vestirsi di verde, confessò: “Mi ricordo la traumatica risposta dell’esercente alla domanda come aveva reagito il pubblico in occasione della prima di L’uomo puma nel febbraio del 1980: ‘quale pubblico!? in sala non c’era nessuno”. Era un certo tipo di cinema ad essere finito. 
Il tironfo di Ercole (1964)