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domenica 31 maggio 2015

Che muoia Mexico! "Chronic" Di Michel Franco. E "Sicario", ovvero perché uccidere a pagamento le donne forti di Hollywood. Fiesta alla margarita. Ancora da Cannes




Roberto Silvestri

Emily Blunt, la giovane e spaesata agente Fbi di Sicario 
Ancora due film dal concorso di Cannes su cui scrivere. Intanto una pensata teorica su cos’è il realismo estremista, quando non si vuol descrive la realtà, non la si può cambiare con un film ma almeno si vuole creare qualcosa che provochi una ricezione attiva e emozionalmente reale. Parliamo di un esempi odi cinema della prassi, Chronic, del messicano Michel Franco (un talento scoperto da Cinefondation come Nemes, che ha completato tutto il tragitto richiestogli: Quinzaine, Un certain regard, che ha vinto, Panorama di Berlino…).
Tim Roth in Chronic di michel Franco 
Un primo piano implacabile e inquietante su un infermiere specializzato in malati terminali: la fenomenologia del lavoro impossibile, penoso e spesso umiliante di chi, estraneo e spesso straniero, ha a che fare con pazienti che non possono mangiare da soli, non possono cambiarsi d’abito, non possono muoversi, non possono andare in bagno, e spesso neppure parlare, diventando rispetto a quei corpi qualcosa di più di un badante, un doppio, un alter ego, un super angelo custode più vicino, fisicamente e emozionalmente, di chiunque altro, parenti e amici compresi. E’ un’esperienza che crea anche gelosia e conflitti in famiglia.  Il regista e sceneggiatore del film lo sa bene per aver vissuto in prima persona l’agonia della nonna rimasta paralizzata per un ictus e diventata dipendente, completamente, da un’infermiera che ne ha seguito l’epilogo con straordinaria sensibilità.

Insomma siamo in territori ancor più ultrà di Mare dentro di Alejandro Amenabar che affidava al solo ciglio sinistro il peso del racconto, visto che Xavier Bardem  era stato totalmente paralizzato da un icuts. Le immagini di Chronic sono di bellezza cariata e le luci gin tonic livide, come mai ne ho viste di simili, sono dosate da Yves Capé in maniera da impedire  allo spettatore di distrarsi un solo attimo. Sadico, dunque, questo soggetto dal quoziente di difficoltà altino. Ambientato in California, Chronic sposta il ruolo di protagonista dal paziente malato terminale da accompagnare alla morte, all’infermiere specializzato. Ci si aggira così nella zona inquietante tra tecnica specializzata, narcosi obbligatoria, affetto come optional ed eutanasia non sempre evitabile. Il film, che è davvero insostenibile, come Straub per un iperattivo, ha vinto, tra lo stupore di tutti, il premio della giuria per la migliore sceneggiatura. Eppure non sfoggia dialoghi prepotenti né sofisticati, come si usa nelle serie tv, né snodi narrativi rococò e cult, come si usa nelle serie tv, tranne un finale che ti arriva in faccia come un Tir, criticato a torto da molti perché confonde per un puerile escamotage narrativo una liberatoria esperienza fisica traumatica, simile ad altri “happy end” classici che mandano in frantumi il nostro sistema di sicurezza e di prevedibili attese, come il finale, quasi trance, di Apocalipse Now . Anche lo shakeraggio tra attori professionisti e non professionisti è procedimento abusato, ma qui l’attore principale, gigante della immedesimazione psicofisica, non ci risparmia un solo dettaglio deontologico. La via crucis, sua e nostra, è necessaria, perché deve rovesciare, a proposito di realismo drastico, il fatto di sostituire il modello ammirato e studiato da Michel Franco in famiglia.       
Tim Roth in Chronic 
L’infermiera diventa infermiere. Il cambio di sesso chissà se è stato provocato dal carattere fragile, lavoro a parte, del protagonista, oppure dall’epilogo del film che non è punitivo né moralistico, ma avrebbe potuto assumere questa caratteristica.
Il secondo film di cui parlare è Sicario di un nordamericano che va per la maggiore negli uffici di produzione delle major, il canadese francofono Denis Villeneuve, che firma questa volta un estetizzante film di genere (d’azione, un narco-thrille
r) ambientato in Messico, e già acquistato per la distribuzione italiana. Esce in autunno.
Benicio del Toro 
Questo tex-mex movie, zeppo di difetti perché si aiuta con orpelli luministici e iconografici quando maneggia i picchi forti di tutti i luoghi comuni del filone (non furono esenti neppure da solarizzazioni, estetismi gore e cinismi alla moda, Il procuratore di Ridley Scott, 2013, e prima ancora Steven Soderbergh di Traffic), come la solita ricognizione sulla efferata ferocia messicana, ereditata dall’epoca di Pancho Villa, è più che reticente sugli interessi statunitensi nell’area più martoriata del mondo, lo stato di Tamaulipas, nel nord-est, lo stato di di Ciudad de Juarez, ed è un pretenzioso tentativo di fare la satira ai thriller di Kathy Bigelow,  affidando all’attrice Emily Blunt che interpreta  una giovane agente dell’Fbi di nome Kate e al suo make up smunto e pallido il compito di caricaturizzare, fino a renderle inutile, accessorie e inerti, le donne forti delle istituzioni, dall’agente federale Jodie Foster al gioiellino della Cia Jessica Chastain. Roba da mandare in sollucchero Il Foglio. Vecchia e nuova gestione. In realtà lo avevo recensito, quasi stroncato, questo risarcimento immaginario al macho scomparso, proprio nelle giornate febbrili di Cannes 68, subito dopo la prima proiezione per la stampa, ma il computer si è mangiato per sempre un lungo pezzo senza sapermelo restituire. Ingerenza pesante della Dea, la sezione Cia specializzata in mercato della droga? Forse ho scritto cose che non dovevo? Niente di tutto questo. Semplicemente non lo avevo memorizzato in tempo e zac, annichilito dalle divinità dell’Olimpo digitale.
Chronic è invece uno strano arty-movie d’attore/mattatore. Un “one man show”, ma a levare, non ad aggiungere. Set Los Angeles. Tim Roth è David (il figlio di Saul?) e assiste i malati terminali, assegnatigli dall’agenzia, cercando di addolcirne l’agonia. Se ci fosse la possibilità di chiedere ai morti come si è comportato con loro da vivo, rispettandoli giocando con loro permettendogli cose che la famiglia avrebbe proibito, David riceverebbe da tutti il punteggio di dieci con lode. E’ minuzioso, efficace, appassionato soprattutto perché istaura con i pazienti un rapporto più che professionale, intimo. Ma l’esagerato investimento emotivo che mette nel suo lavoro insospettisce tutti. Che ci sia qualcosa di losco? Di morboso e di necrofilo nel suo agire? Sospetti e denunce fioccano.  Come se tutti avessero visto Gerontophilia (2013) di Bruce La Bruce, tra i migliori film gay degli ultimi anni. La cosa sconvolge infatti alcuni parenti del malato che, chissà perché, hanno con il loro padre o figlio o fratello un rapporto più distaccato, impacciato, formale e perfino infastidito. E che non vedono l’ora che l’intruso finisca il suo lavoro troppo ben fatto e si arrivi al funerale liberatorio. Oltretutto anche David, in famiglia, entra in metamorfosi e incorpora gli stessi gesti formali, freddi, maldestri e inefficaci. Il contrario delle sue performance di lavoro. La biopolitica che trasforma la ricca sostanza umano in profitto infatti aliena la nostra vita principale e risucchia tutte le nostre qualità più preziose solo nel lavoro salariato. Forse uno shock, anche esagerato, perfino fatale, può liberarci di questo incantesimo da incantesimo maligno.
Il regista di Chronic Michel Franco 
Nel thriller "intimo", dove le ombre contano almeno quanto le luci, Sicario (con un titolo simile, El Sicario, Gianfranco Rosi ha certamente fatto un film più inquietante e di drastico realismo documentaristico su quel che succede al confine tra Messico e Usa: paradosalmnte il film non è mai uscito in nord America), Kate (l'idealista coriacea e molto fortunata, costretta a fare i conti con il realismo, cioé ad arrendersi, a giocare più sporco del nemico o almeno ad ammirare chi ci riesce) non viene sostituita da un attore uomo, come in realtà avrebbero preteso la produzione, ma diventa lo zimbello del copione (del texano Taylor Sheridan), del rude e misterioso signore delle tenebre Alejandro (il portoricano Benicio Del Toro, ormai messicano honoris causa), del saggio patriottico e feroce agente speciale Matt Graver (Josh Brolin) - per il quale il mondo si divide solo tra i buoni, gli americani del nord, e i cattivi, il resto del mondo non nordamericanizzabile - e degli altri vecchi marpioni della Cia che chissà per quale motivo, se non l’umiliazione, il ritorno a casa delle donne a far la calzetta, vogliono che prenda parte, giovane, inesperta e fragile, e ligia alle regole, alla più rude e confusa e ambigua delle missioni di guerra.
Annientare in terra straniera, e in missione segreta, un feroce boss della droga, questa è la missione segretissima Fbi-Cia-Dea, utilizzando contro quell'imperatore del male un ancora più feroce serial killer messicano, un ex procuratore che vuole distruggere le cosche non perché è il suo lavoro, ma solo perché gli hanno sterminato la famiglia. Grande la lezione etica di Villeneuve! Rodateci Clint. A Roma si usa un’espressione un po’ forte per dire che non è più tollerabile che non si spieghi in un film d’azione sul conflitto di coca e eroina che gli Usa distrussero all’inizio del secolo scorso l’economia allora florida del Messico, inventandosi l’assurdo della marijuana e dell’hascisc come droghe pericolosissime da criminalizzare e proibire, anticamera delle droghe pesanti, etc. Lo ha spiegato in Grass anni fa proprio un cineasta canadese, Ron Mann. C'è una risposta molto semplice a questo groviglio di questioni geopolitiche. La liberalizzazione. Ma non si fa cenno alcuno ai politici e ai giornalisti assassinati perchè portavano avanti questa strategia che tocca interessi economici giganteschi.
Questo è il punto che il film, e molti altri film del genere non spiegano. Con le immagini che pure Villeneuve utilizza da prestidigitatore provetto (tanto che gli daranno da fare il remake di Blade Runner perché (an)estetizza anche troppo qualunque cosa) e da esperto investigatore delle intenzionalità morali degli esseri umani (specialmente wasp o succedanei). Insomma il film finge di porre tutte le domande. Ma in realtà sfrutta solo il quoziente spettacolare regalato dal corpo e dal volto di Benicio del toro che ormai somatizza in se tutto il drug world (non solo grazie a Traffic).   E sì che stanno morendo decine di migliaia di persone lì attorno. Tra droga, sfruttamento schiavistico della manodopera a basso costo nelle fabbriche Usa della globalizzazione, immigrazione clandestina, machismo, corruzione, in un intreccio inestricabile di interessi che coinvolgono corpi separati o riunificati dei servizi segreti messicani e statunitensi, polizie dei due paesi, politici dei due paesi, uomini d'affari dei due paesi. Cambiata la struttura monopolistica e piramidale del traffico (che faceva capo alla gang colombiana di Escobar) e diventata policentrica la criminalità neoliberista (insomma siamo nel dopo Traffic, c'è il cartello super militarizzato del Golfo che combatte contro la gang altrettanto militarizzata dei Zetas, e così via) che ruolo gioca il governo Usa oggi per influenzare, controllare e sfruttare questo groviglio di mercato? Con chi si allea?  Quale il suo disegno strategico? Non c’è niente di questo, solo rullio e becheggio da video gioco. Come quella collezione grottesca a macabra di dozzine di cadaveri appesi nelle intercapedini di una casa-covo a far da tappezzeria spettacolare alla scena d'apertura. Che muoia Mexico!  
Alejandro, il procuratore vendicativo. Benicio del Toro in Sicario 
 
  

lunedì 2 settembre 2013

A Fuller Life. Come diventare sostanzialmente democratico, progressista e antirazzista vedendo un solo doc di 80 minuti

Roberto Silvestri

C'è stata una strana polemica sulla 'retrospettiva perduta' a Venezia. La Biennale dovrebbe avere un respiro annuale, e non soltanto festivaliero. Dunque dovrebbe organizzare magnifiche retrospettive da far circolare nelle sedi cinetecarie, almeno (Roma, Bologna, Torino e Milano) in altri periodi dell'anno. 

Era il sogno di Micciché, ex presidente (al quale il figlio ha dedicato un bellissimo ritratto) che non voleva fossilizzarle solo in monografie d'autore. Ricordo una bella rassegna dei' film del 1936', per esempio. Un anno cruciale, e non solo per lo scontro a Berlino tra Hitler e Jesse Owens O quella dedicata al cinema americano e sovietico pre-code, talmente ricca e sconvolgente da essere stata oggetto perfino di un corso di aggiornamento per magistrati ignoranti...

Ottima l'idea di Cannes (e dunque del 'replicante' Barbera, che in fondo vuole fare la Cannes n.2, quella d'estate) di concentrarsi nel periodo della Mostra sui ritrovamenti, restauri, ripescaggi da rilanciare in dvd. Che male c'è? Soprattutto per un direttore di Venezia che è anche direttore del Museo del cinema di Torino è ovvio giocare a tutto campo con il vecchio cinema. 

Inoltre. Durante la mostra è sempre molto difficile seguire una retrospettiva. Dunque meglio scegliere, tra i circa trenti film restaurati (non perdete Ray e Peries) questa volta, quello che è davvero introvabile o mai visto o da rivedere assolutamente. Oppure scegliere, per le giovani generazioni, quei film di genere 'monografico' che sono ritratti d'autore davvero capaci di spingere alla conoscenza totale di un cineasta (Jerry Lewis sarà oggetto di un omaggio completo alla prossima Viennale) o di un movimento (penso al film di Lizzani sul neorealismo, particolamente interessante perché raccontato da uno dei pochi protagonisti di quella stagione ancora vivo, vegeto ed esperto) ai giovani appassionati che non hanno mai sentito parlare di James Benning o Daniel Schmidt, che conoscono vagamente Robert Mitchum o Tinto Brass, il Pasolini africano e perfino Ingmar Bergman...Come il cinema di finzione ha l'ambizione di comprimere in due ore centinaia di ore di non fiction e il cartoon centinaia di ore di fiction, così i doc sui cineasti a volte sono l'equivalente di una retrospettiva completa, inediti inclusi. 

A Fuller life. Lo studio del regista
E' il caso del film A Fuller Life che la figlia di Sam Fuller, Samantha, che lo presenta nel breve prologo combattivo, fucile in spalla, ha dedicato al padre, regista, sceneggiatore e prima ancora grande giornalista di nera, e grande fumatore di sigari, utilizzando l'immenso archivio di fotografie, documentari, home movie e film in 16mm mai visti o montati che ha ritrovato dopo la morte del regista di The big red one,  nel 1997. 

E in occasione della prossima uscita della autobiografia di Sam Fuller, A Third Face, Samantha (che ci parla dallo studio di papà), ha chiesto a una quindicina di cineasti che in qualche modo furono coinvolti dal padre nei suoi film o che ne sono stati sempre entusiasti ammiratori (da Robert Carradine a Monte Hellman, da Wim Wenders a Jennifer Beals, che Fuller diresse nel 1992 in La Madone et le Dragon, da James Toback a Joe Dante, da William Friedkin a Tim Roth, da Buck Henry a Constance Towers) di leggere una dozzina di sezioni di questo librone, in senso cronologico, utilizzando in primo piano o come sfondo le celebri foto del Fuller cronista di Manhattan e San Francisco o davanti alla sua mitica macchina da scrivere Royal, o a Venezia o con la moglie, circondato da una biblioteca organizzata per aree geografiche (era un viaggiatore infaticabile), e soprattutto gli spezzoni dei suoi film hollywoodiani, noir soprattutto, pieni di movimento, emozione, violenza e sangue, perché di questo è intessuta la vita, e proprio parte del girato 'indie' del padre (che è così ricco che potrebbe bastare per un'altra decina di documentari) o materiali di repertorio che ripercorrono la storia americana e planetaria, dall'inizio alla fine del secolo scorso, passando per la grande depressione, Roosevelt, il Ku Klux Klan, la grande guerra contro il fascismo e la reazione, il maccartismo, la nouvelle vague, la lotta alla segregazione razziale, il sessantotto, le guerre 'ingiuste' anzi sbagliate (Vietnam, ex Jugoslavia...). 

William Friedkin in "A Fuller Life"
La storia del secolo cista, in prima fila quasi sempre, da un 'cronista indipendente' e coraggioso, cioé antifascista, da un 'cane sciolto' che tenne testa a Hoover a caccia di rossi da sgozzare, ma indocile a ogni semplificazione tranne a quella, jeffersoniana, che pone l'uguaglianza sostanziale e non formale degli esseri umani come valore fondamentale, da perseguire a ogni costo. Anche rischiando la pelle come Fuller, sceneggiatore coccolato da Hollywood nel 1941, che lascia piscine e contratti d'oro e da soldato semplice raggiunge il Big Red One e si fa in prima film la campagna d'Africa, d'Italia (dove conosce a ammira Salvatore Giuliano, adorerà Sciuscià, ma questo non si dice), Omaha e 'il giorno più lungo' dello sbarco in Normandia (Zanuck, ci svela, resta il suo produttore preferito l'unico che, senza badare ai soldi veniva affascinato solo dalla storia da raccontare) fino a riprendere gli orrori dei campi di sterminio nazisti, forni creamatori compresi. Un inno all'indipendenza, alla originalità e alla resistenza e anche alla grande importanza che ha la musica per noi. E che per lui fu una terapia indispensabile per tenere testa agli incubi e alle angoscie che 5 anni al fronte gli avevano provocato. Me lo ricordo inebriato come un bimbo dalle musiche di Ennio Morricone, a Roma, alla International Recording, mentre assisteva con il producers discografico De Melis alla registazione, con orchestra, della colonna sonora di uno dei suoi ultimi magnifici film.  

Joe Dante in "A Fuller Life"
Sono di particolare bellezza in A Fuller Life i testi letti da Hellman (il maccartismo), Joe Dante (sul fronte siciliano) e da Wenders, che ci racconta il suo incontro al fronte in Germania con Marlene Dietrich, quando lei, nel camerino, dopo aver detto che non potrà mai trasmettere il suo messaggio, perché sono milioni le richieste dei soldati americani, scopre di avere in comune lo stesso agente hollywoodiano e che gli dovrà solo dire: sigari! e lui capirà. E soprattutto quelli più politici e rivoluzionari, paradossalmente letti da William Friedkin che certo sulla pena non aveva le stesse idee di zio Sam.
Jennifer Beals



Un film che non vedremo mai in prima serata tv perché perfino Bianca Berlinguer o i veltroniani di Raitre ne sarebbero terrorizzati. E' difficile essere 'americanisti' conseguenti. Si rischia di essere molto peggio che comunisti drastici.