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domenica 19 febbraio 2017

I classici alla radio. Il matrimonio di Maria Braun, stasera e in podcast


 
Hanna Schygulla in Il matrimonio di Maria Braun (1978) di R.W.Fassbinder


Roberto Silvestri





Stasera su Radiotre



A 35 anni dalla morte – nel giorno di chiusura della Berlinale 2017 – Hollywood Party-Il cinema alla radio, per la prima volta rende omaggio, questa sera 19 febbraio 2017 a Rainer Werner Fassbinder (1946-1982) presentando e commentando Il matrimonio di Maria Braun, con Hanna Schygulla, che a Berlino nel 1979 vinse il premio come miglior attrice (e poi conquistò un David di Donatello).


Una delle prime scene del film, nella Berlino distrutta
Si tratta di un melodramma anomalo, nel senso che le fitte relazioni sentimentali tra i personaggi non prescindono dal quadro politico degli eventi che si sono svolti in Germania dal 1943 al 1954. Insomma è un melo di combattimento, niente affatto consolatorio, con al centro una donna berlinese dal nome qualunque ma che non è una donna qualunque. Travolta come tutti dal tracollo del nazismo e dalla distruzione del paese, Hanna è la metafora della Germania che si ricostruisce, della grandezza e degli orrori del miracolo economico tedesco. Con ogni mezzo necessario, omicidio compreso, tranne quello di mettere in discussione il suo amore perenne per Herman, suo marito (cioè per la patria), Maria passerà dalla più grande miseria alla ricchezza e al potere, simulando l’intera gamma dei sentimenti disponibili. Per questo, pur essendo una donna forte e autonoma, non è una distruttricve di archetipi, come la femme fatale dei thriller noir Usa anni 40 e postbellici in particollare, piuttosto una fedele d’amore, come Rossella O’Hara di Via col vento. Costretta a un surpuls di fantasia per ricostruire la propria identità. Perché anche l’amore nel capitalismo, ci dice Fassbinder, “è un rapporto di produzione e riproduzione da distruggere”.   




Alla fine del film scorrono, non a caso, le foto dei cancellieri del terzo Reich e della Germania federale, da Hitler al primo premier gay, Helmut Schmidt (tranne Brandt).




…chi ama di più è sottomesso all’altro, questo è il problema. E chi ama di meno ha più potere. Quindi tutti i rapporti d’amore sono schifosi.  Ogni scena ha una sola inquadratura.  Ogni inquadratura ha un significato morale. Lo zoom fa immagini morte (Rainer Werner Fassbinder)






Ma chi è questo Fassbinder?



Regista tedesco omosessuale e anche bisessuale, autodidatta, morto di droga a 37 anni.



Jan Dawson, la critica angloamericana che ha più studiato il nuovo cinema tedesco, lo definiva, paradossalmente, e sottolineando più il secondo sostantivo del primo, un “misogino femminista” .



Amava molto andare al Lido Venezia, durante la Mostra, per vedere film e andare a Cannes, durante il festival, per mangiare ostriche con gli amici da Astoux.



C’è però, soprattutto tra i giovani non necrorealisti, chi conosce più Fassbender di Fassbinder. Ma, magari, vorrebbe recuperare, vedendo qualche suo film. Allora, quali sono i film di Fassbinder che Fassbinder consiglierebbe a un giovane cinefilo (Il matrimonio di Maria Braun a parte)?  Questi.



Despair, Lola, Veronika Voss e Il dio della peste. Altri, più importanti che belli, Terza generazione, Nell’anno delle 13 lune e Attenzione alla puttana santa. Poi, ancora belli Effi Briest e le 15 ore di Berlin Alexanderplatz…



“Voglio fare film belli ed entusiasmanti come quelli di Hollywood, ma non ipocriti. Devono essere film che piacciono a tutto il mondo, ma mai concilianti. Nei melodrammi di Sirk per esempio i personaggi non erano felici. Ecco perché mi piacciono più degli altri mélo di Hollywood. Poca natura nei miei film? Sì. La natura in genere è utilizzata per essere bella, rassicurante e consolatoria, per offrire allo spettatore una via di fuga”.



Il remake da Secondo amore di Sirk, Tutti gli altri lo chiamano Alì
Il suo maestro è stato dunque il connazionale di Amburgo Douglas Sirk (Dietlef Sierck) emigrato negli Stati Uniti per ovvi motivi antihitleriani e autore negli anni 50 di film  “belli e entusiasmanti”, ma mai rassicuranti: “nei suoi film i personaggi non erano felici, e il mondo che li imprigionava non era il migliore dei mondi possibili” scrisse in un celebre saggio sul cineasta adorato. Ricordiamo i titoli di questi capolavori: Tempo di uccidere tempo di morire (ambientato in Germania proprio durante la seconda guerra mondiale), Lo specchio della vita, Come le foglie al vento, La magnifica ossessione e Secondo amore, che Fassbinder rifece in Tutti gli altri lo chiamano Alì. La lista dei film preferiti da Fassbinder dimostra  che, come Sirk, preferiva i budget più sostanziosi, anche davanti a esperimenti difficilissimi come Berlin Alexanderplatz, dove ha dimostrato una una sicurezza di fraseggio e una  padronanza strutturale stupefacente.












Il matrimonio di Maria Braun





“E’ un film sull’ambiguità della condizione femminile, sull’aberrazione, la perversione cui l’amore è costretto dagli schemi patriarcali del comportamento sociale e che toglie alla donna ogni libertà, ogni potere di autodeterminazione. In particolare durante la patologica situazione della Germania post 1945”.





Maria e Hermann
Schermo panoramico. 35mm. Fujicolor. 120 minuti.

Berlino 1943. Maria e Hermann Braun si sposano in municipio sotto i bombardamenti. Il funzionario pubblico scapperebbe per la paura, se non venisse costretto a firmare il certificato, bocconi sull’asfalto. I pianti di bambini che si sentono sotto il bombardamento sono un riferimento ai ricordi autobiografici di Fassbinder, nato proprio nel 1945 nella Baviera bombardata.

Titoli di testa rosso sangue, piuttosto impressionante la caduta a pioggia dei nomi, spesso di collaboratori celebri di Fassbinder come Hanna Schygulla, il corpulento Peter Berlin, che fa Bronski, il tenutario del bar per soldati americani, gli sceneggiatori Peter Marthesheimer e Pea Frolich; il direttore della fotografia Michael Ballhaus (che interpreta anche la parte dell’ avvocato di Hermann); il musicista Peer Raben, che interviene in modo parco, con macchie dense e emozionanti che quadruplicano l’effetto delle immagini in una sorta di zoom dell’anima (o dell’inconscio); la madre nella parte della segretaria di Maria Braun nell’industria tessila (con lo pseudonimo di Lilo Pempeit) e lo stesso Fassbinder che nel film è il borsista nero, colto lettore di Kleist….

La radiocronaca di Germania Ungheria, 1954
Una sinfonia di Beethoven viene interrotto dal programma radiofonico “Suchmeldungen” che informava sui morti e sui dispersi. Sui muri di Berlino si legge la scritta LSR che sta per "Luftschutzraum,"  "air raid shelter", quella che segnalava i rifugi anti-aerei della zona.



Si passa alla stazione ferroviaria. Donne e familiari cercano i loro cari, sperando che tornino dal fronte. Hanna cerca il marito disperso con un cartello sulla schiena. La scena sarà citata da Zhang Yimou in Lettera da uno sconosciuto con Gong Li (2014). E anticipa la tecnica polemica delle tante donne di piazza di maggio, a Buenos Aires. Da notare in queste prime sequenze le doti non comuni di cultura e di fermezza morale di Maria Braun, per esempio nei confronti dei militari americani che umiliano gli affamati tedeschi.  Il suo nazionalismo. Non avrà remore neppure a farla finita con le persone che le piacciono, ma che non ama. Lei ama solo, tragicamente, l’ex ufficiale Hermann. Che non è morto. Che tornerà. Che si farà incolpare di un crimine non commesso da lui ma da lei. Che scapperà in Canada per non ostruire una relazione ‘importante’ di Maria con un industriale franco-tedesco antinazista che l’adora. Che tornerà a Berlino solo nel momento giusto. Durante il fatale secondo tempo di Ungheria-Germania ai mondiali del 1954 in Svizzera….




Vita spericolata certificata



Rainer Werner Fassbinder è nato in Baviera, a Bad Worishofen, figlio unico di Liselotte Eder, intellettuale e traduttrice di prestigio (poi quasi sempre presente nei film del figlio, in genere con lo psudonimo di Lilo Pempeit), e di Helmut Fassbinder, presto divorziati. Nel 1965-1966 realizza due corti dedicati a Rohmer e a Godard, Il vagabondo e Il piccolo caos. Diventerà presto, da mangiatore di film, il più prolifico dei registi moderni, dai ritmi produttivi degni dell’epoca muta (40 film in 36 anni di vita, più radiodrammi, regie teatrali, serie e film per la tv, scritti critici e teorici mozzafiato) e sicuramente quello che ha avuto più successo, sia critico che popolare, in Germania Federale, soprattutto dopo il film che presentiamo questa sera.  

Si tratta del primo segmento di un quintetto di film, esplicitamente popolari - a differenze delle sue prime opere, più circoscritte a un pubblico colto e ristretto, dalle esigenze estetiche straubiane - cioè capaci di comunicare con tutti i tedeschi, e oltre, e dedicati alla storia patria, dal nazismo a Helmut Schmidt (Berlin Alexanderplatz, 1980; Lili Marleen, 1981, Lola, 1981 e Veronika Voss, 1982), attraverso la tragica lotta per la vita di indimenticabili personaggi, per lo più femminili. Si tratta anche di uno dei 20 film realizzati con l’apporto centrale di Hanna Schygulla, un sodalizio perenne, quasi una simbiosi, più profondo addirittura di quello tra Marlene Dietrich e Joseph Von Sternberg.



con Andy Warhol sul set di Querelle


L’orribile Rft



Tra i 1001 film da vedere prima di morire c’è, parola di Steven Schneider, proprio Il matrimonio di Maria Braun, fiammeggiante melodramma alla Douglas Sirk che il cineasta e drammaturgo tedesco Rainer Werner Fassbinder diresse a colori nel 1978, e che l’interpretazione della mattatrice Hannah Schygulla trasformò, secondo un altro influente critico statunitense, Roger Ebert, in un capolavoro del cinema. Capolavori, cioé?  Quei particolari film che si “rigenerano” a ogni visione e sono pronti a offrirci sempre nuove e più avvincenti interpretazioni. Come se la storia illuminasse la potenzialità profetica di quelle immagini…  




R.W. Fassbinder voleva fare, con questo film, un bilancio, amarissimo, degli oltre 30 anni di democrazia nella Repubblica Federale: “Non sono state sfruttate tutte le possibilità che la Germania aveva per trasformarsi radicalmente – dichiarò il cineasta bavarese – e alla fin fine le strutture e i valori su cui si basa lo Stato, l’odierna democrazia, sono rimasti fondamentalmente gli stessi di prima. A ciò si aggiunga che stiamo attraversando una fase d’involuzione verso un tipo di stato nel quale non vorrei proprio vivere”.

Sono gli anni della violentissima repressione del movimento anticapitalista e antiimperialista tedesco, armato e clandestino (Raf) ma anche pacifico e franco, che assunse, anche lì oltre che qui, forme assai poco consone a uno stato di diritto.

Sono i mesi di Germania in Autunno, il documentario a più voci girato durante i funerali delle vittime di Stammheim, requiem di un movimento anti-sistemico sconfitto.

Sono quelli i giorni in cui Fassbinder dichiara di volersi trasferire all’estero, negli Stati Uniti, preferibilmente. O a Parigi.

Siamo nell’epoca delle assurde polemiche contro uno spettacolo teatrale di Fassbinder, Der Mull, die Stadt und der Tod (1976), cioè La spazzatura, la città, la morte, che venne accusato di antisemitismo e mai rappresentato in Germania (mentre era una agghiacciante radiografia delle sua pericolosa permanenza nel cuore delle istituzioni di Bonn) dagli stessi organi di stampa reazionari e antisemiti che schiamazzavano, come Bild.

Il 28 gennaio del 1972, il cancelliere Willy Brandt, aveva emanato il Radikalenerlass che, in risposta alle azioni cruente della Raf, non solo esigeva l’espulsione dalle scuole e dalle istituzioni pubbliche di chiunque aderisse a ideologie radicali o a organizzazioni comuniste, ma istigava i cittadini a fare la spia. Come in una replica del maccartismo. Il “berufverbot”, come lo chiamavano gli oppositori di questo decreto che contraddice la libertà di opinione in un paese democratico (e garantita dalla costituzione tedesca) fu abolito nel 1979, ma non in Baviera. E il consiglio d’Europa nel 1995 costrinse la Germania unificata a pagare gli arretrati a una insegnante, Dorothea Vogt,  militante comunista espulsa dall’insegnamento perché “pericolosa”, in base agli articoli 10 (libertà di espressione) e 11 (libertà di organizzazione) della costituzione tedesca. Questo  film è un proiettile di precisione scagliato contro il tentativo dello Stato di uniformare il pensiero e il comportamento dei propri cittadini, rendendoli docili e pronti all’autosfruttamento. Per non  dire e pensare le stesse cose i film di Fassbinder sono tutti un antidoto eccellente.   Anche perché il regista conosceva bene queste pratiche. Ha dovuto rinunciare a molti progetti, considerati film “sovversivi” dai finanziatori pubblici cinetelevisivi, e negli anni della sua prima attività teatrale si era visto chiudere d’arbitrio il suo spazio scenico, l’action theater (poi riaperto e chiamato Anti-Theater), proprio nel maggio del 1968.





Il Nuovo cinema tedesco



R.W. Fassbinder, intellettuale e artista radicale, di rigorosa formazione attoriale e teatrale, cinefilo e autodidatta (non esistevano scuole di cinema in Germania fino agli anni 70…), ammiratore e studioso contemporaneamente di Godard e della Hollywood classica, di Brecht e di Sirk, di infaticabile e febbrile attività creativa, è stato il simbolo stesso del “Nuovo cinema tedesco”, con Wenders, Syberberg, Reitz, Herzog, Schloendorff, Kluge, Helke Sander, Helma Sanders Brahm, Margarethe von Trotta, per non parlare di operatori, sceneggiatori, scenografi, musicisti, fonici e costumisti d’avanguardia. Quel movimento  di rivoluzionari del cinema esploso tra gli anni ‘60 e ’80 che ha modificato il sapore e il tatto delle immagini planetarie. Fassbinder ha operato sempre in stretta collaborazione con la sua Factory, un folto gruppo, anzi una autentica comune sessantottina di artisti, di cui fecero parte tra gli altri l’attrice Hanna Schygulla, i direttori della fotografia Michael Ballhaus e Xavier Schwarzenberger, l’attore e scenografo Kurt Raab, il musicista Peer Raben, la super-star Ingrid Caven (una delle sue due mogli)…



Come tutte le nouvelle vague, dell’est e dell’ovest europeo, dell’est e dell’ovest mondiale, anche quello tedesco, disomogeneo poeticamente e geograficamente, ma radicale artisticamente, aveva l’obiettivo di affondare e ricostruire completamente dalle fondamenta una cinematografia nazionale in profonda crisi di idee e di profitti.

L’industria tedesca del cinema, deformata a puro braccio propagandistico tra il 1933 e il 1945, anche nel secondo dopoguerra per responsabilità dei governi cristiano-democratici di Konrad Adenauer (49-63),  Ludwig Erhard (63-66) e Kurt George Kiesinger (66-69), spesso infarciti di ex gerarchi nazisti riciclati, ormai disinteressati al cinema, aveva vivacchiato solo per iniziativa privata imitando il cinema americano di serie b, prima, e di serie a, successivamente, con risultati di mercato via via sempre più disastrosi.



Sei fattori spiegano l’esplosione mondiale del Nuovo Cinema Tedesco: 1. Il ritorno stilistico e tematico all’eredità nazionale, di un cinema che era stato tra il 1922 e il 1933 ai vertici mondiali, ai  classici espressionisti e anti-borghese di Lang, Murnau, Pabst e Lubitsch… 2. l’accurata ricerca formale, la non rimozione del passato storico, la sensibilità politica acuta e le novità di linguaggio; 3. il basso costo delle produzioni; 4. il legame fortissimo sia con la ricerca teatrale più avanzata che 5. con le televisioni statali, affamate di opere originali e messe in grado di produrre; 6. l’avvio di una politica di finanziamenti pubblici al cinema, in risposta al manifesto di Oberhausen.

Si tratta di un testo redatto da 25 cineasti che il 28 febbraio 1962, durante il celebre festival dell’avanguardia, analizzarono lo stato penoso della cinematografia tedesca, auspicando la nascita di un cinema libero da condizionamenti commerciali, culturali e estetici (dal 1968 si prelevarono così 10 centesimi di marco per ogni biglietto venduto e così finanziare il cinema di qualità tedesco).

I novissimi film tedeschi conquistarono in breve tempo mercati, critica e festival internazionali - Fassbinder collezionò da solo ben 25 premi - e  osarono fare i conti con il passato, senza cedere alla rimozione dominante, e facendo parlare i fatti del presente senza adulazioni né ipocrisia.   




Il matrimonio di Maria Braun, melodramma di straordinaria violenza emozionale e profondamente radicato nella storia tedesca, ambientato tra il 1943 e il 1954 nella Berlino della guerra, della sconfitta, della fame e della ricostruzione, dai bombardamenti rovinosi al riarmo, all’anticomunismo viscerale e alla vittoria “miracolosa” a Berna della Coppa del Mondo di calcio a Berna contro la favoritissima Ungheria di Puskas per 3-2. 



I sottoprivilegiati



Girato nel 1978, il Matrimonio di Maria Braun aveva un iniziale sviluppo di 8 ore (non è solo David Lynch o Lav Diaz o la serialità tv che hanno bisogno per le loro storie di tempi lunghi…) ma il lavoro di pre-sceneggiatura compiuto da Peter Marthesheimer e Pea Frolich è riuscito a sintetizzare le cose e a trasformarlo in film commerciale di qualità. Fu il primo della lunga (e finale, per la drammatica e improvvsa morte del regista) serie di successi internazionali Berlin Alexanderplatz, Lili Marlene, Lola, Veronika Voss e Querelle, che non vinse a Venezia solo per l’opposizione di un cineasta, adorato da Fassbinder, come Tarkowski, scandalizzato dalla sfacciata esibizione di pulsioni omosessuali contenute nel testo origine di Jean Genet.



Il poster polacco del film
Tutti insieme raccontano la storia della Germania dal punto di vista della lotta per la sopravvivenza di quelli che Fassbinder chiamava i sottoprivilegiati, perché i più oppressi e “indeboliti” socialmente, hanno la vista più lunga. Omosessuali, sottoproletari e soprattutto donne.



“Le donne - ha scritto Fassbinder - sentono in maniera più veloce, molto prima, che qualcosa non funziona, che non va… Io trovo che il comportamento forzato della donna nella società dica molto di più su questa società che il comportamento degli uomini i quali preferiscono generalmente vivere come se tutto andasse bene”.  

Dopo un primo blocco iniziale di circa dieci film in bianco e nero legati al periodo dell’Anti-teater, o film sociali ambientati nel milieu piccolo borghese (come Katzelmacher/Terrone; Dei della peste; Attenti alla santa puttana…) o meta-film sul cinema, per lo più ispirati ai noir hollywoodiano, il secondo blocco della produzione fassbinderiana, che arriva fino a Despair, è ispirato a drammi o romanzi (di Cornel Woolrich, Kroetz, Clara Both Luce, Theodor Fontane, Ibsen (Nora Helmer, Lacrime amare di Petra von Kant,  La paura mangia l’anima,  Effi Briest,  Nessuna festa per la morte del cane di Satana, Roulette cinese….) rispettosi fino alla lettera dei testi utilizzati. Il terzo periodo più poetico-politico, comprende anche la partecipazione a un pamphlet visceralmente extra-istituzionale con il suo episodio autobiografico in Germania in autunno, e anche due o tre cose non adulatrici né apologetiche sulla lotta armata di In un anno con 13 lune e La terza generazione). Infine la pentalogia storica, da Maria Braun in poi, ovvero su come la “sindome nazista”, congenita alla borghesia tedesca fin dall’inizio del secolo scorso, non sia ancora stata debellata.  E che un modo per decostruirla era radiografare profondamente le zone dark del soggetto, utilizzando la prima persona singolare maschile omosessuale. Il suo sguardo.






Il gran finale



“Qualcuno che si sforza di trovare la propria identità con ogni mezzo necessario in una società come la nostra. Faccio sempre lo stesso film su questo”. E ancora: “Nel sistema in cui viviano non credo sia possibile amare. Dato che il nostro è un sistema di sfruttamento anche l’amore è sfruttato. Succede. E’ una cosa spaventosa. Posso consigliare il desiderio di amare, non di amare. Nei miei film gli uomini soffrono di più, perché non liberano mai la fantasia che hanno le donne. E cinema per me è qualcosa che ha a che fare proprio con la fantasia. Il desiderio di fantasia delle donne è più intenso di quello dei cosiddetti eroi. Per me è importante il legame che si instaura tra l’attore, il mondo fantastico che riesce a evocare e la fantasia che si sviluppa nello spettatore. Lo spettatore completa il film che io inizio e l’attore prosegue”…






Hanna Schygulla è stata doppiata in italiano da Ludovica Modugno, direttore di doppiaggio Giacomo Magagnini. Klaus Lowitsch fa Hermann. Oswald è interpretato dall'attore di origini franco-russe Ivan Desny; la madre di Maria Baun è Gisela Uhlen (e vincerà molti premi per la sua intepretazione). Gottfried John, del clan Fassbinder, fa Willi il sindacalista di estrema sinistra e marito inquieto di Betti (che è Elizabeth Trissenhaar). Il militare nero che la molesta sul treno è Gunther Kaufman. Altri attori fissi Gunther Lamprecht (che farà Berlin Alexanderplatz nel ruolo del protagonista Franz Biberkopf), Hark Bohm che è il fido partner di Oswald, il commercialista Senkenberg, Gerog Byrd che è Bill, il sottufficiale african-american che frequenta il locale per militari Usa ripieno di dischi di Glenn Miller, Moonlight Serenade, In the mood, Sunrise Serenade, etc...Isolde Barth è la collega di lavoro al bar di Maria, Vivi. Le musiche sono di Peer Raben (il sonoro della versione italiana molto complessa mi pare semplificato nel missaggio), ma si intrecciano con molta musica classica tedesca, da Beethoven a Mozart (conerto per piano n.23). Frasi celebri del film: Maria al marito in carcere: "Lacché si dice in Grecia, ma io non sono il tuo lacché, sono tua moglie". Nella scena tradotta in italiano dello scontro sindacale, piuttosto efficace nello spiegare la cooptazione dei sindacati operai all'interno della logica capitalistica, grazie a un regime salariate più alto che nel resto d'Europa (è l'ordocapitalismo del compromesso padroni-operai) Maria a un certo punto afferma: "Sono una maestra nella simulazione. Di giorno plutocratica agente del capitale e di notte reazionaria agente delle masse. La Matha Hari del miracolo economico tedesco". Quel reazionaria della tradiuzione italiana nell'originale non c'è. Da notare nella stessa scena l'ironia sui giornalisti. Lei cosa ne pensa di questo accordo? "Non ho opinioni, sono un giornalista!". La canzone cantata nella festa di compleanno della madre di Maria è Capri Fisher eseguita dal celebre tenore Rudi Schuricke, una delle tante canzoni po esotiche sull'amicizia tra il popolo tedesco e quello italiano che fu tra i dischi requisiti dagli alleati dopo la sconfitta dei nazisti. Invece quando Willi e Maria passeggiano tra i ruderi della vecchia scuola è Caterina Valente che canta in tedesco I love Paris di Cole Porter, Ganz Paris Traunt von der liebe. A Willi che fa la battuta femminista "la coscienza sociale arranca dietro gli sviluppi della realtà, Maria replica: "Sono gli sviluppi dlela realtà ad arrancare dietro la mia coscienza".   




venerdì 17 gennaio 2014

A Fuori Orario Masao Adachi. Aka Serial Killer, un capolavoro nascosto


di Roberto Silvestri





A.K.A Serial Killer di Masao Adachi stanotte, venerdì 17 gennaio, a Fuori Orario. Imperdibile






Masao Adachi, l’Armata Rossa del Dissenso (sessuale)


 
Masao Adachi


‘Cinema e rivoluzione sono la stessa cosa,
lo stesso movimento”

“Come Giobbe, l’eroe biblico, io vedo la figura del rivoluzionario continuamente disillusa, sconfitta, ma ciò nonostante mai doma. E questo potere di ribellione, di rivolta, Louis-Auguste Blanqui, Toni Negri e io, nel mio piccolo, lo vediamo nel popolo, nella gente, nella classe operaia. In un mondo dove sembra che il capitale abbia un potere di controllo assoluto, dovremmo cogliere le parti, gli elementi che in noi stessi eccedono questo paesaggio-copia, solo là la libertà come la vita umana comincia e l’espressione diventa possibile”

(Masao Adachi, intervista di Matteo Boscarol, Alias 2005)


                           …………
Verso l’altra parte del fiume

Di Masao Adachi, regista giapponese vivente ed ex guerrigliero dalla parte dei palestinesi, Fuori Orario sta trasmettendo in queste settimane alcuni bellissimi film. E’ il caso di soffermarci su questo cineasta, e sceneggiatore di Oshima e Wakamatsu, così importante e sconosciuto che, per motivi politici, è stato espulso dall’immaginario giapponese e mondiale. Intanto ricordiamo uno dei pochi film usciti sul mercato con sottotitoli italiani.
  
Restaurato e riportato finalmente in vita dal festival di Rotterdam 2009 questo meraviglioso e ‘pericoloso’ capolavoro del cinema autonomo,  ‘Funshutsu kigan: 15-sai no baishunfu’, in inglese ‘Gushing prayer’,  che si potrebbe tradurre in italiano ‘Preghiera gaudente (forse anche eiaculante)-La prostituta di 15 anni’ (1971), è stato pubblicato in Italia da Rarovideo ed è il più affascinante e doloroso ‘pink movie’ (soft-core), cioè film a luci rosa di Masao Adachi, e il più maturo, stilisticamente, tra i film erotici realizzati nella prima parte della sua carriera.
Quali sono i pensieri, le emozioni, lo stile di vita della nuova generazione giapponese, violentemente a caccia di identità, di felicità e di sacro da oltre 10 anni, che vuole prefigurare un mondo ‘altro’ e dalle relazioni umane anti-autoritarie?
Il film, di lotta continua contro chiunque sia oggetto di pregiudizio (il pregiudizio fondamentale è che ‘la maggior parte dei maschi giapponesi è convinta che tutte le donne siano masochiste”, come afferma lo scrittore Oniroku Dan), soprattutto se è una ragazzina indifesa, che deambula senza scopo con i suoi tre amici nella metropoli in stato d’assedio poliziesco, diventa una austera e accorata suite sul baratro generazionale nell’epoca del boom economico, dell’umiliante sottomissione alla politica e all’economia degli Stati Uniti d’America, degli orrori in Vietnam e della lotta mondiale, perfino terrorista, affinché quella vile aggressione terrorista finisse, e subito.
Un elogio ‘a distanta’ non esente da appassionate critiche, dei ‘fuoriusciti’ dalla società neocapitalista, che già dispiega tutta la sua rapacità e rovinosa velenosità (il pesce al mercurio sta già, nel frattempo, assassinando consumatori, bambini e pescatori, aspettando Fukushima).
Un pamphlet sull’impossibile, ma eroica battaglia per l’autovalorizzazione di una ragazzina ‘frigidizzata’ da una cultura convinta che non esista il darsi reciproco piacere nel sesso. E’ Yasuko Aoyagi (l’attrice Aki Sasaki), schiacciata da sensi di colpa incontrollabili e da ‘spiriti maligni’ che la opprimono ovunque e che vorrebbe ridare senso alle sensazioni, alle parole, alle emozioni e ai suoi ‘cinque sensi’ comunicanti.
Il film diventa un match di pugilato contro la sessuofobia di una società ipocrita e malsana, un ‘rock movie’ che esalta l’ingenuità della band di sbandati (Yasuko, il suo ragazzo Koichi, l’attore Hiroshi Saito, e l’altra coppia di ragazzi,Yoichi e Bill) che non hanno, né in famiglia né a scuola né in società, aiuti né punti di riferimento, che non siano i propri stessi corpi da esplorare, per capovolgere o decostruire gerarchie di genere, pregiudizi radioattivi o piaceri contaminati.
‘Funshutsu kigan: 15-sai no baishunfu’ (in inglese ‘Gushing Prayer’) esamina, con rara partecipazione e affetto, la dissipazione di sé, il suicidio tragico come orizzonte inevitabile di un’adolescente in rivolta, e comunque la vita di Yasuko scissa tra le regole di un gioco sessuale che ha deciso di mettere in scena senza maschere con il suo quartetto misto di amici, alla scoperta spietata del significato interno e esterno del gioco erotico tra coetanei (cosa si prova? com’è? senti niente? e così? Perché vai così veloce?) e il ‘tradimento’ rispetto a quel patto, regolato da un  catechismo di setta già inquinato dal mondo conformista, procreativo e dai valori ‘laburisti’ che lei vorrebbe combattere, ma che è più forte di lei.
Perché Yasuko ha deciso, individualmente, di barattare il suo corpo con un adulto, addirittura con il suo insegnante, senza dire niente ai suoi amici, regredendo a ragazza violata, anche se nella maniera meno professionale possibile e attraverso un ‘pagamento’ sentimentale più che monetario (lui, il ‘rude lover’ di mezza età, dovrebbe promettere di accompagnarla a abortire, ma terrorizzato, mente e tergiversa). Per espiare, Yasuko ha un solo modo, fare davvero la ‘prostituta di 15 anni’…
Gushing Prayer gioca con lo spazio con la stessa attonita attenzione di Antonioni, e analizza la struttura polistratificata dei personaggi come fa Godard in Masculin, féminin, anche se l’angoscia esistenziale (nel primo caso) e l’umorismo e l’allegria (nel secondo) sono tra le righe. Il bianco e nero della fotografia è affascinante e le riprese dei quattro ragazzi che camminano nella nebbia ha la forza e la qualità di un’ icona. In molti pink movies dell’epoca le improvvise scene a colori sottolineano gli elementi drammatici. Questo procedimento è usato da Adachi per dare forza in più alle scene che raccontano del destino della ‘creatura mai nata’ di Yasuko, e la luce sarà gelida e horror o la policromia sarà più empatica e calda, a seconda della ricezione. Visualmente il film è attraente, ma la forma e la sostanza del contenuto sembrano intenzionalmente indigesti al pubblico frustrato nella sua ricerca di continui ‘perché succede questo?’. I giovani attori recitano con la passione dell’automa, e scandiscono in stile distaccato e brechtiano, oggi si direbbe straubiano, le loro battute, passando dalla dichiarazione impersonale alla citazione oscura, che mai  si concretizza in messaggio diretto. Certamente non si tratta del tipico ‘film di liceali giapponesi anni 60’, visto che si cita George Bataille - l’accettare la vita fin dentro la morte e la morte fin dentro la vita che è l’essensa della sessualità -, nelle conversazioni più casuali. Certo il film fa capire che tra morte e sesso il legame erotico è fortissimo (l’accettazione della vita fin dentro la morte e viceversa, appunto) ma questo non è mai detto esplicitamente. Come Jasper Sharp spiega nel fondamentale studio sul ‘cinema rosa’ Behind the Pink Curtain, Gushing Prayer è un’allegoria del terremoto politico che sconvolgeva il paese. Al centro di molte scene girate in esterni ci sono le jeep e i tank anti sommossa che riflettono la presenza crescente della polizia in risposta alle azioni terorrisitche dell’Esercito Rosso Giapponese e delle altre organizzazioni armate. L’approccio obiquo, indiretto, ‘disgiuntivo’ direbbe Noel Burch, di Gushing Prayer non aiuta a sviluppare un concatenamento emozione degli avvenimenti, ma questo è il linguaggio delle nouvelle vague planetarie dell’epoca e chi apprezza, ancora oggi, un approccio intellettualmente ricco alle immagini astratte, troverà molto materiale emozionante su cui riflettere. Inoltre non dimentichiamo mai che il ‘nervosismo dell’inquadratura’ e delle sequenze, fatte di stacchi improvvisi e riprese sbilenche, dipende alla necessità di evitare, in un film così concentrato sull’azione sessuale, le nudità integrali. Il ‘full frontal’ è proibito infatti dalla censura giapponese, ed è tuttora tabù l’esposizione della zona pubica maschile e femminile (tranne nel film d’arte). Si utilizza, in questi ultimi anni, il ‘fogging’ per cancellare digitalmente ogni visione proibita, provocando surrealistici slittamenti del senso: non è vietato vedere l’eiaculazione, ma il pene che eiacula sì.
‘Gushing Prayer’, dunque, è solo apparentemente il meno politico e rabbioso tra i waka-movies realizzati da Masao Adachi, ex militante del movimento studentesco e allora già molto vicino alla fazione meno suicida dell’Esercito rosso giapponese, gruppo maoista guerrigliero istigato a entrare in clandestinità.
Infatti la battaglia campale della piccola Yasuko contro la ‘comunità’ che manovra dall’alto (e dal basso) i suoi tentacolari conformismi ipnotici e per il pieno controllo del proprio corpo e della procreazione (anche se rischia di virare più verso l’anonimato e la depersonalizzazione che verso il raggiungimento di una libertà matura e di una appuntita soggettività desiderante),  è di una ferocia e di una violenza degna del miglior Oshima e del miglior Wakamatsu, quello che nel 1965 era riuscito a far scandalo a Berlino con il suo controverso ‘Kabe no naka no himegoto’ (Il segreto tra quattro mura), un esemplare ‘pink da camera’ della Nikkatsu, che era stato prima attaccato dallo stato e dal suo braccio cinematografico, l’Eirin, poi dalla stessa major di Tokyo, costringendo Wakamatsu a rompere definitivamente i rapporti e fondare la sua società indipendente, la Wakamatsu Production.
Masao Adachi, che nel sado-movie alla John Waters ‘La rivoluzione del controllo delle nascite’ (1967) aveva avuto la trovata di affidare a un tal ‘Marqui De Sadao’ la sperimentazione di un metodo anticoncezionale davvero innovativo (più fai soffrire atrocemente la donna nel coito, meno resterà incinta), è infatti un regista del tutto speciale. Fa parte di una genia di cineasti (gangster per 5 anni, in carcere per sei mesi) che difficilmente vedremo in giro per il mondo a spese delle istituzioni ufficiali, come la Japan Foundation. Un nome da lista nera al fianco di Tetsuji Takechi (il suo anti-americano ‘Neve nera’ sarà proibito dal governo, ma difeso da Oshima e Mishima), Atsushi Jiku Yamatoya (suo l’apripista ‘Uragiri no kisetsu’, 1966), Osamu Yamashita, Kazuo Komizu detto ‘Gaira’ (il cosceneggiatore non accreditato di ‘Su su due volte vergine’ e specialista di ultra gore anni 80 e 90), Isao Okishima…o del papà di tutti loro, il re degli swinging sixty nipponici, il Papa del ‘pinku eiga’, il ‘Che Guevara della Settima Arte’, secondo la definizione di Roberto Curti e Tommaso La Selva (“Sex and Violence”, ed Lindau, 2003), cioè Koji Wakamatsu (vero nome Takashi Ito, classe 1936), che sempre nel 1967 affida a un Marqui De Sado il ruolo di violentatore, dalla fantasia sanguinariamente fervida, in ‘La storia dark di uno stupratore’. Le persone per bene non amano i pink movies. Perché? Si chiedeva Naghisa Oshima. “Semplice: perché sono un frutto bastardo dello studio system. Ma, attenzione! Discriminare la propria prole illegittima è il prototipo di tutti i pregiudizi”.  
Il dosaggio di sesso e violenza, anzi di sesso di gruppo e di carneficina, contenuto a stento nelle ero-produzioni di Masao Adachi e di Koji Wakamatsu, in film come “Mitsuryo-suro Toki”  (Quando gli embrioni cacciano di frodo, 1966), ‘Okasareta Byakui’ (Angeli stuprati, 1967), versione nipponica della famigerata strage di Richard Sperck, un giovane serial killer nordamericano che aveva assassinato 8 infermiere), “Sex Jack” (1968), ‘Yuke Yuke Nidome No Shoio’ (Su su due volte vergine, 1969) o il profetico “Tenshi no kôkotsu” (Estasi degli angeli’,1972) ispirato al ‘terrorista della metropolitana’ Kusa Kajiro, che esondano dai familiari territori del buon gusto. E offrono ai loro spettatori “un’esperienza unica, fortissima e che non ha equivalente alla luce del sole”: quella del desiderio di cose belle ma anche del tragitto delittuoso più cupo e spaventoso per raggiungerle. Scriveva Oshima in un famoso saggio dell’ottobre 1970 - pubblicato nel quaderno 41 dalla Mostra del cinema di Pesaro – che questo dosaggio di sesso e violenza tocca una zona dell’immaginazione fertile ma molto delicata, il passaggio dalla affermazione dell’identità individuale all’anonimità. Perché l’eroe dark ma in cerca di luce di Wakamatsu e Adachi, per purificarsi, ha un solo sentiero: ritornare, regredendo allo stato di feto, nella spersonalizzazione prenatale, nel grembo materno, al tempo e allo spazio che anticipa la trasformazione della bellezza in ‘sudiciume’: “Il desiderio di rovesciare l’individuale nell’anonimo, la brama di abbandonare ogni sporcizia per ritornare al grembo possono essere atteggiamenti mentali disponibili al fascismo ma non c’è connessione diretta tra l’espressione di atteggiamenti disponibili al fascismo e il fascismo stesso. I protagonisti dei film di Wakamatsu scritti da Masao Adachi si svegliano sempre dalla loro ‘reverie’. Il mondo che li attende è allora il mondo del pregiudizio. Fino a quando ci sarà questa garanzia, sarò capace di credere che gli atteggiamenti disponibili al fascismo di Wakamatsu saranno diretti non tanto verso il fascismo ma piuttosto in direzione di una lotta contro chiunque sia oggetto di pregiudizio”.    


La giubba rossa senza passaporto. Masao Adachi rivoluzionario

Molti cineasti nella storia hanno pagato con la vita, il carcere, la persecuzione, l’esilio, la censura e l’oblio la coerenza con le proprie posizioni politiche, etiche e estetiche. Non c’è bisogno di essere dei filmaker entrati in  clandestinità (come Holger Meins e Masao Adachi) o molto vicini al movimento rivoluzionario (come Emile De Antonio, Gian Maria Volonté, Robert Kramer, Pier Paolo Pasolini, Alberto Grifi o Haskell Wexler) o semplicemente democratici-radicali (come l’iraniano Jafar Panahi, i ‘dieci di Hollywood’ perseguitati dal maccartismo, Bertolucci, gli ‘akzionisti’ austriaci…).
Per entrare nella ‘lista nera dei cineasti carogna’ basta spesso solo rifiutarsi di essere ‘embedded’, decidere di essere onesti con se stessi e si può perfino fare l’apologia della ‘realtà’ che si vuole cambiare, o dire un grande sì alla vita: perché, senza indignarsi, come si fa a descrivere, a comprendere e ad amare alcunché? “Nelle mie canzoni parlo di quel che vedo, della vita che mi circonda”, come ricordava la cantante sudafricana Miriam Makeba, scusandosi di non potersi definire nemmeno una ‘artista politica’…
Tra i cineasti viventi più sadicamente perseguitati, anche perché trattasi del cittadino di un paese dalla pluridecenale tradizione democratica, anche se ‘eccentrica’, c’è il giapponese Masao Adachi, 13 film all’attivo, figura chiave della controcultura artistico-letteraria degli anni sessanta e settanta, del suo paese e non solo ancora, ma poco noto al pubblico italiano, nonostante il giro festivaliero della sua penultima regia, “The Patriot/The Terrorist” (2007), sulla vera vita di Kozo Okamoto, un kamikaze giapponese filopalestinese che sopravvive al massacro dell’aeroporto di Lod nel maggio 1972, e sulla sua ‘non vita’ nel carcere, dalle torture ai sensi di colpa per essere sopravvissuto. E nonostante il successo critico a Berlino, e l’orso d’oro vinto dall’attrice protagonista Shinobu Terajima, di ‘Caterpillar’ (2010), di cui ha curato la sceneggiatura, e ritorno al sodalizio ‘anti-militarista e anti-maschilista’ con Koji Wakamatsu.
Il suo abominevole reato? Essersi battuto con le armi in pugno per l’indipendenza e la libertà del popolo palestinese, cacciato brutalmente dalle sue terre e costretto via via alla diaspora o alla pratica suicida. Certo fu un ‘combattente armato’, ma sempre critico rispetto alla politica della fazione ‘Nihon Sekigun’ (poi ‘Armata rossa unita’) e al suo mistico progetto di fondare un esercito rivoluzionario marxista-leninista in Giappone. Dichiarerà a Matteo Boscarol nella sua intervista a Alias, nel 2005: “Come compresi presto in Palestina, la lotta armata non deve essere in alcun modo separata dalla vita quotidiana del popolo, ma ciò che successe in Giappone fu l’esatto contrario: l’avanguardia rivoluzionaria creò un punto di vista completamente separato dalla realtà delle masse, una specie di ‘elite della pistola’. Al contrario io sono un convinto sostenitore della sovranità delle masse: il popolo può avere il potere perché già di fatto ce l’ha”.
Oggi, più che settantenne, Masao Adachi, rilasciato dal carcere nel 2003, vive in Giappone con la moglie, una donna palestinese, profuga nel Libano e di religione cristiano-ortodossa (si è convertito lui stesso al cristianesimo per sposarla). Ha un figlio, il suo primo, nato nel luglio del 2005 e sta per scodellare il suo tredicesimo film, un progetto collettivo surreale, innovativo e a costo zero (non a caso si intitola ‘Il tredicesimo mese dell’anno’). E’ libero, ma non può più uscire dal paese. Quando si proiettano i suoi film nei festival di tutto il mondo, Adachi non può accompagnarli, presentarli né discuterli con il pubblico. Non potrà essere membro di una giuria a Cannes, Venezia, Toronto o Berlino. Gli è negato infatti il passaporto, che nel paese del sol levante non è un diritto civile, ma un premio dato solo ai cittadini modello, patriottici, meritevoli, o alle ‘leggende viventi’ che, per quanto critiche e anticonformiste siano (Oshima, per esempio)… non  abbiamo mai contraffatto alcun documento d’identità… Speriamo che il nuovo governo di Tokyo, più aperto e culturalmente più attrezzato, decida di rivedere questa decisione che colpisce un filmaker che, dal 1974 al 1997, ha abbandonato il cinema e il proprio paese, per dedicarsi interamente alla militanza panaraba e emme-elle nel Fronte Popolare di Liberazione palestinese (Fplp), quello della kefiah bianca e rossa. Si occupò molto della sezione propaganda, del giornale dell’organizzazione, diretto dal poeta Kanafani, ”al-Hadaf ” (Il fine), dell’Unione degli scrittori palestinesi, ed entrò in contatto anche con simpatizzanti vari, da Vanessa Redgrave ai combattenti internazionalisti, rappresentanti dell’Ira, Raf, Eta e Br (‘i più disorganizzati di tutti’). Girò anche dei documentari e una serie di film diario, che divennero sempre più radi dopo il 1976 e lo scoppio della guerra civile libanese che lo costringeva più al mitra che alla cinepresa. I materiali di Adachi filmati in Palestina e Libano andarono distrutti durante l’invasione di Israele del 1982. Ma i ‘traditori della patria’ e i romantici poeti alla deriva, sono sempre più patriottici e umanisti di ogni sciovinista fanatico. Membro della Armata Rossa Giapponese, l’organizzazione armata di estrema sinistra riconosciuta dallo stato giapponese dopo il rapimento di un ministro, poi liberato, Masao Adachi decide di accettare la tregua e parte nel 1974 per la Palestina con una parte dell’organizzazione, di cui diventa il portavoce. Dopo 23 anni di residenza in Libano, è arrestato il 15 febbraio 1997 per violazione delle leggi sui passaporti e condannato a 4 anni di carcere assieme a 4 compagni dell’organizzazione, Haruo Wako (ex assistente alla regia della Wakamatsu Pro ed ex attore), Mariko Yamamoto, Kazuo Tohira e Kozo Okamoto, liberato nel 1985 per uno scambio di prigionieri. Dopo 18 mesi scontati a Roumieh (Beirut), il 18 marzo 2000, il gruppo (tranne Okamoto considerato profugo politico per le torture subite dagli israeliani) però viene estradato, via Giordania, in Giappone dove Adachi è imprigionato, sempre per possesso di passaporto falso (per una vecchia storia: era entrato illegamente, nel settembre del 1989, in Cecoslovacchia) e incarcerato per un altro anno e mezzo finché non ottiene gli arresti domiciliari e poi la libertà. Tutti i membri dell’Esercito Rosso Giapponese hanno ricevuto manifestazioni di pubblica simpatia da parte del popolo libanese per la loro lotta contro Israele.
Adachi riprende così a scrivere e girare film e pubblica “Cinema /Rivoluzione”, l’autobiografia della sua vita e delle sue opere, curata dal critico cinematografico militante Go Hirasawa, che esce anche in Francia. Lo spagnolo Gonzalo Lopez, nel 2008, ha lavorato su una sceneggiatura di Masao Adachi del 1966, per realizzare il remake catalano di ‘Embrione’, un horror dedicato a Roger Corman, Joe Dante, Asako Otomo e Koji Wakamatsu. Vengono organizzate in Giappone retrospettive e proiezioni dei suoi film, molto seguite soprattutto dal pubblico più giovane. E’ stata lanciata una campagna internazionale, e una petizione viene firmata da molti cineasti e da festival di tutto il mondo, affinché gli venga restituito il passaporto. Ma l’atteggiamento del governo liberal-democratico e poi quello di centro sinistra non cambia. Adesso con Abe figuriamoci.         


Il cofanetto Rarovideo di Masao Adachi
Masao Adachi cineasta
Nato a Fukuoka il 5 maggio 1939 (è sette anni più giovane di Oshima) Masao Adachi è tra i cineasti sperimentali più colti, sessualmente scandalosi e impertinenti della sua generazione (il corto ‘Tazza’,Wan, del 1961, una tragedia ambientata in un villaggio isolato; e il medio ‘Vagina bloccata’, Sa’in, del 1963, entrambe co-regie studentesche, lo impongono già come pericolo pubblico numero uno dell’immaginario conformista). Partecipa al lungo sessantotto giapponese (che inizia un decennio prima che in occidente) e dal 1966 diventa l’amico rivoluzionario, la ‘guida politica’ e il collaboratore più stretto dell’antisociale Koji Wakamatsu, uno dei registi indipendenti più ‘selvaggi’ e estremi di quegli anni, maestro e patriarca del ‘genere pink’, il softcore contaminato da forti ‘inserts’ rivoluzionari, tra polemiche politiche contro il militarismo, il machismo e l’autoritarismo della tradizione imperiale e sarcasmi contro il sadismo antipopolare del governo, spesso corrotto ma ‘irremovibile’, dei liberal-democratici.
In ‘Datai’ e in ‘Hinin Kakumei’ (entrambi del1966), le prime regie di Adachi, affronta un argomento tabù, l’aborto, pratica anticoncezionale allora fuorilegge in Giappone. In ‘Seizoku’ (Sex Jack, 1968), pezzo di teatro della crudeltà, e film più noir che pink, la liberazione sessuale è sinonimo di liberazione politica, ma il gruppuscolo di ribelli che non riesce bene a focalizzare l’oggetto del suo rancore e del suo piacere, e che si traveste prima da bombarolo di sinistra, poi da nazistone alla Mishima che urla ‘Heil Hitler’, e torna di nuovo infine all’estrema sinistra, si presta al sarcasmo acido da commedia demenziale, non solo dell’ospite, uno studente che li ha accolti perché braccati dalla polizia (e che si vendicherà, alla fine, delle umiliazioni subite dentro casa e fuori), ma anche dallo sceneggiatore/regista, per l’ imprecisione con la quale la masnada ribelle traccia il rapporto reichiano tra sesso (che sa fa sempre perché annoiati) e rivoluzione (idem?), tra orge e stupri, piaceri ‘solitari’, estasi e palingenesi politica.
Ancora più estremo il progetto in “Guerriglia delle studentesse” (1969), che coinvolge le violente attività sovversive di una base rivoluzionaria annidata sulla montagna: e quella montagna è proprio il simbolo sacro della nazione, il monte Fuji che è anche il logo della odiata Shochiku, la peggiore delle major, la più conservatrice, da prendere in giro in ogni occasione (le lotte sindacali degli anni 60 avevano avuto ripercussioni anche negli Studi, e la Toho, controllata dalla sinistra, viene abbandonata dalle star più conformiste che formano la nuova Toho, Shin Toho).
L’uso del bianco e nero e del colore, l’intrusione di scritte, citazioni e elementi stranianti, la musica utilizzata in maniera conflittuale, come un ‘personaggio’, mai come come raddoppiamento sentimentale,  padroneggiano esplicitamente le tecniche contronarrative di Godard.
Adachi è coinvolto, come Wakamatsu (che lo scoprirà, ma se ne avvarrà per approfondire le sue analisi da ‘autodidatta rabbioso’), nell’attività politica sovversiva, ma le loro provenienze sociali sono differenti: quest’ultimo è originario del nord-est del paese, ha un accento ‘impresentabile’ ed è figlio di contadini. Ha inoltre un equivoco passato, che non ha, del resto, mai nascosto, di yakuza nel quartiere che ‘non dorme mai’ di Shinjuku (a Tokyo). Sofisticato intellettuale che ha dimestichezza con l’adorato Blanqui, Brecht, Genet (che poi avrebbe conosciuto in Palestina: “mi ha insegnato a lasciar parlare il silenzio”), Godard e perfino Toni Negri, è invece Masao Adachi che, dal 1966 al 1971, partecipa alla sceneggiatura di numerosi film diretti da Wakamatsu usando spesso pseudonimi come ‘Yoshiaki Otani’, ‘Izuru Deguchi’ o ‘De Deguchi’.  Tra questi ‘Quando l’embrione caccia di frodo’, 1966; ‘Gli angeli stuprati’, 1967, Su su due volte vergine, 1969 e ‘L’estasi degli angeli’, 1972, dove Adachi compare anche come attore. Contribuisce a radicalizzare lo sguardo e a innalzare la coscienza politica di Wakamatsu. Quei film hanno un dirompente successo nel giro mondiale underground e nei festival di punta, ma provocheranno anche controversie e polemiche, sia a Berlino (con alcuni gruppi di femministe) che a Knokke-Le Zoute, il tempio (belga) del cinema underground. 
Collabora, contemporaneamente, con la Sozo-sha di Nagisa Oshima, la piccola casa di produzione indipendente che il regista di “Racconto crudele della giovinezza” è stato costretto a fondare, in nome della libertà di espressione, dopo la ‘censura di mercato’ voluta dalla Shochiku, nel 1960, in occasione dell’uscita del suo film più politico, “Notte e nebbia del Giappone”, radiografia impalcabile degli errori commessi dal Partito comunista giapponese e dal movimento studentesco (perfino dall’ala sinistra degli Zengakuren) durante le combattive lotte di massa contro la ratifica del trattato nippo-americano. Scrive infatti, assieme a Tsutomo Tamura e Mamoru Sasaki, nel 1968, la sceneggiatura di ‘Il ritorno degli ubriachi’ (Kaettekita Yopparai), e vi interpreta la parte di un poliziotto, e di ‘Diario di un ladro di Shinjuku’ (Shinjuku Dorobo Nikki), che è una liberissima interpretazione  del ‘Ladro’ di Genet. Nello stesso anno fa il capo delle guardie carcerarie in ‘L’impiccagione’ di Oshima, la dura requisitoria contro il razzismo anticoreano dei giapponesi. Nel 1969 sempre assieme allo sceneggiatore della Sozo-sha, Mamoru Sasaki, e al critico cinematografico anarchico Masao Matsuda, Adachi dirige il suo settimo lungometraggio, ‘A.K.A Serial Killer’, fuori però dal suo consueto genere d’affezione, il pink (il softcore, a differenza che in occidente, è stato spesso usato come genere-schermo, il preferito dai cineasti più sperimentali e estremi perché permette una maggiore libertà di fraseggio e una radicalità d’immaginario politico ‘travestita’). ‘Aka serial killer’ però è un inquietante documentario perché analizza e va a caccia di paesaggi non solo poetici, quelli che il serial killer teenager Norio Nagayama avrebbe visto prima di attuare i suoi efferati assassinii, tra le località di Nagayama, Abashiri e Kawasaki.
Lo stesso Wakamatsu sarà il produttore esecutivo, nel 1976, di ‘L’impero dei sensi’ il più grande successo internazionale di Oshima, e scatenato pink esso stesso, ma anche l’opera più censurata e perseguitata in patria del grande regista di Kyoto.
Nel 1971Oshima (‘La Cerimonia’), Adachi e Wakamatsu (‘Angeli stuprati’ e ‘Sex Jack’) sono invitati a Cannes dalla Quinzaine des Realisateurs e, sulla via del ritorno, Masao Adachi, sempre più distante da quella parte dell’Armata rossa che ha iniziato una purga interna di stile staliniano, condannando a morte 12 dei propri membri, convince Wakamatsu (che ha appena fatto buoni incassi con ‘Tecniche d’amore – Kama Sutra’) a fare un viaggio di lavoro in Palestina per girare un film sulla guerra tra Israele e la Palestina, ‘facilmente vendibile’ alle televisioni. Sarà il mediometraggio “Armata rossa/Fronte popolare di liberazione palestinese: una dichiarazione di guerra mondiale”, coprodotto assieme a Shigenobu Fusako, leader dell’Arg, o meglio di quella frazione del movimento armato giapponese che ha deciso di abbandonare la lotta in patria, e di scegliere la strada della solidarietà internazionalista (anche dopo una tregua con il governo di Tokyo, a seguito della liberazione di alcuni prigionieri politici in cambio di un ministro sequestrato, e con la promessa della cessazione di ogni attività terroristica in Giappone). L’altra frazione dell’Armata rossa giapponese, che continua con gli attentati e gli omicidi in Giappone, e l’odissea tragica del suo agghiacciante autoannientamento, sarà l’argomento di ‘United Red Army’, 2007, il penultimo film di Wakamatsu. Masao Adachi non venderà mai quel documentario alle tv, “troppo estremo”, troppo di parte (con le interviste a scrittori, profughi ma anche a dirottatori e terroristi), aspro nel descrivere la vita nei campi profughi di Libano, Siria, Girdania e soprattutto Jarash, e con tutti quegli aforismi ‘di fuoco’, scritti dall’intellettuale palestinese Ghassan Kanafani (assassinato con la nipotina l’8 luglio 1972 dagli israeliani), ma diffonderà l’opera nelle piazze, nelle palestre delle scuole, nelle università occupate di tutto il Giappone, attraverso il movimento delle “Truppe di proiezione dell’autobus rosso”. Poi Masao Adachi scomparirà nel nulla, dal 1974.  E Koji Wakamatsu non otterrà più il visto per recarsi negli Stati Uniti.