mercoledì 5 febbraio 2014

"All is Lost", tutto è perduto tranne Robert Redford

Robert Redford in "All is Lost" di J.C. Chandor
Mariuccia Ciotta

Certi film si attirano un odio o un amore misteriosi. Ed è pericoloso rompere l'incanto, si rischia di farsi espellere dalla comunità cinephila, e non solo virtualmente, come è successo al critico black Armond White espulso dal cenacolo newyorkese perché ha osato toccare il pluricandidato all'Oscar 12 anni schiavo, diretto da un altro black, il regista-artista inglese Steve McQueen.
E' il caso di All is lost diretto dal quarantenne del New Jersey J.C. Chandor.
L'amore è scoppiato sulla Croisette, dove il film (da domani sui nostri schermi) è passato fuori concorso. Imperdibile prova d'attore di Robert Redford, di cui molti lamentano l'esclusione dalle nominations dell'Academy Awards.
Redford è il film, 106 minuti in primo piano, naufrago nelle acque degli Bajas Studios messicani, l'immenso bacino costruito da James Cameron per Titanic, claustrofobico set in cui ti aspetti di vedere le sponde di plastica e la cabina di regia come in Truman show. E dove la barca naviga da ferma mossa da un congegno che la fa dondolare su e giù. Il basso budget, però, non ha mai fermato nessuno. Capolavori tutti in una stanza. E qui in uno scafo pieno di falle. Un film che pretende una sceneggiatura affilata e un personaggio dalle profondità interiori mentre nelle 30 pagine di copione, scritte dal regista, all'opera seconda, di Margin Call, l'uomo in mare resta sconosciuto (“our man”), niente nome, niente passato, niente dialoghi e niente tigre (La vita di Pi).
Un film affidato al grande fascino di Redford che finalmente ha un film indipendente tutto per sé. Nessuno dei tanti esordienti promossi al suo Sundance lo hanno mai chiamato, questa è la prima volta, racconta ironico il cineasta, che definisce il lavoro di Chandor (debutto a Park City) “coraggioso”.
Robert Redford e il regista J.C. Chandor

Oceano indiano, il solitario navigante dorme sottocoperta mentre la barca si schianta su un container cinese pieno di scarpette sportive, il “nostro uomo” cerca di rimediare, sega, incolla, salva viveri e oggetti indispensabili, ammaina la vele, accende invano la radio di bordo, e finisce in una tempesta. Cala il canotto, il canotto si rovescia (ma quel che c'è dentro rimane al suo posto), il sole picchia, le petroliere giganti che passano non vedono la luce dei razzi sparati in cielo. Tutto è perduto.
La suspense cerca di lievitare nella disperazione del naufrago in preda alle forze di una natura così indulgente da lasciarlo vivo per otto giorni, e spera nell'eco del macho Hemingway che non si incontra più. Il vecchio Santiago e la sfortuna di quell'enorme marlin di cinque metri rosicchiato dai pescecani, orgoglioso e impavido pescatore... Ma l'uomo senza nome sembra più che altro uno skipper della domenica, un turista dal cellulare scarico. Perché evocare lo Spencer Tracy di John Sturges o il Tom Hanks di Cast Away che dialoga, sublime, con il pallone di nome Wilson?

Il minimalismo del film si diluisce nel nulla, e All is lost va alla deriva, nonostante la performance in solitario di Robert Redford, che lui, sì, evoca qualcosa, se stesso.
Basta guardare la sua faccia segnata dalle storie di Sundance Kid (Butch Cassidy), Johnny Hooker (La stangata), Bob Woodward (Tutti gli uomini del presidente) e molti altri “anti-eroi” fino a Jim Grant (La regola del silenzio), dove l'”our man” era un Weatherman.
Lasciamo fuori Jack London, All is lost non è un action movie sulle onde o un testo senza virgole di Joyce, è una partitura jazz suonata sul corpo-cinema di Robert Redford.

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