giovedì 24 agosto 2017

It boy. Elogio di Jerry Lewis







Roberto Silvestri







the it boy è morto pochi giorni fa a Las Vegas. Che strano posto aveva scelto per vivere, il Nevada dei casinò e del super sfruttamento del lavoro "giocoso". Lewis negli ultimi anni di vita, forse, voleva dimostrare di non aver paura di lottare, nella società dello spettacolo, proprio al fronte, contro il suo cuore più splendente e mafioso. Anche se non poteva più fare, da decenni, il suo cinema, Jerry Lewis è stato sulla scena sempre, fino all'ultimo respiro.

La prima immagine che viene in mente, infatti, pensando a Lewis è la sequenza del gangster gigantesco che, nel camerino del Copacabana Club, gli spiaccica in bocca un sigaro finto cubano e vero dominicano verde. Gli attori, i cantanti, i ballerini, gli acrobati, i clown, bisogni controllarli. E non solo per pagarli meno. Sono bombe atomiche d'immensa potenza distruttiva, se non stanno in riga. 

Ribellarsi è giusto scriveva Mao. E Jerry è stato la sua guardia rossa più fedele. Indisciplinati di tutto il mondo unitevi! Se la disciplina è quella imposta dalla guerra fredda e dalla paura atomica, dalla cacciata di Chaplin il rosso il 6 settembre 1952, dai processi a Henry Miller, Lenny Bruce e Allan Ginsberg per oscenità, dal razzismo e dal sessismo come valori chic e dal bene privatizzato che schiaccia il bene comune, studiamola, conosciamola, seduciamola, proprio come faceva Warhol con i gioielli della società dei consumi, questa disciplina dei corpi, e poi colpiamola a morte. Con il rock'n'roll. I teddy boys. Le riot girls. La controcultura. Le droghe che dilatano la coscienza. Con il cinema cool e hard di Lewis giovane, in coppia con Dean, e di Lewis solitario, regista adulto nei due decenni 70 e 80. Già. Non è più tempo di guardie rosse proprio da quando Jerry Lewis è stato espulso dai set che decostruivano e criticavano tutto quel che Hollywood produceva. Con l'arma della risata che seppellisce. Della risata che allungata troppo (come solo Lewis, come un Tarkowski picchiatello, sapeva fare) diventava emozione acida, indigesta, quasi esiziale. La parodia fa ridere, ma la satira fa infuriare e può uccidere. Prima si ride sopra un po' poi ci si incazza a lungo. E' roba serissima la satira. Godard lo diceva. Solo Lewis fa cinema rivoluzionario negli States.  

Prima di scegliere Las Vegas pargolo ebreo del New Jersey, nello spettacolo fin da cucciolo,  Lewis aveva vissuto, con la sua moglie italiana, di tradizionalissimi valori, a San Diego. La rottura coniugale avvenne dopo Le folli notti del dottor Jerryl, quando Lewis prese in giro Dean Martin e sua moglie trovò quel fatto e quel Buddy Love sciupafemmine, profondamente immorali. E siccome la moglie controllava i suoi script e consigliava tagli e finish (fino ad allora con intuito impeccabile) i due si lasciarono: "Ogni suo consiglio mi è stato prezioso". Ma Le folli notti sarà il suo film che incasserà di più, 30 milioni di dollari.  Il mondo cambiava.  Il Vietnam avrebbe capovolto vita e storia, comportamenti e nevrosi. Molte disgrazie familiari e fisiche lo avrebbero allontanato dai set. E dal trionfale decennio Reagan/Bush che già anticipava l'orrore Trump. Non un osso di Jerry Lewis era intatto, nella tomba. Si dava completamente alla gente. Aveva sposato la lezione di Groucho Marx.

Un suo vicino di casa a San Diego incontrato sul treno negli anni settanta mi disse: "che magnifica persona è Jerry Lewis!" Si riferiva alle sue innumerevoli attività benefiche? Non  solo. Ma i cronisti ignoranti, i critici saccenti e gli intellettuali snob della Manhattan bene che lui non mancava di mangiar vivi costruirono l'immagine mediaticamente inaffondabile del guitto che si dà arie colte, del parvenù autonominatosi maestro del pensiero, capace di sedurre solo la rive droite e la rive gauche per aver insegnato all'università della California come essere un total filmmaker. Tra gli allievi Lucas e Spielberg che, come lui, sono un po' scomparsi dai propri film. Pensate a una cosa tipo Ferrara che "impone", grazie a troppi media compiacenti, il luogo comune di Benigni trasformatosi da buffo comico in presuntuoso, insopportabile, saccente, e perfino buonista "nemico del popolo". I metodi zdanoviani sono quelli della modernità liberista, si sa. Eppure. Lewis era "tra i dieci uomini più sexy d'America" nella classifica erotica privata di Marilyn Monroe. E da allora molti critici invidiosi e molti uomini tromboni cominciarono a odiare lui ("perché prende in giro e sfutta commercialmente gli handicappati") e i suoi film (futili, sciocchi, noiosi, ripetitivi). Maurizio Liverani, mio compagno di classe alla terza C del liceo Augusto di Roma, intelligente più che secchione, oggi si direbbe un moderato vincente e moderno, non capiva l'entusiasmo per un cinema così stupidino, "alla ciccio e franco". Futile. Al liceo non si insegnava Lacan. Futile. Parola latina che ha a che fare con la fuoriuscita di liquido dal vaso, spiegò Lacan in un corso. Uscire fuori dal vaso, verso la libertà, è possibile. Era il messaggio che i bravi della classe non volevano proprio capire. La gerarchia vigente gli dava ragione. La meritocrazia è stata il nemico pubblico n.1 di Jerry. Il semplice autista della ricca bimba ereditiera sconfiggerà, perché anima bella, in I sette magnifici Jerry tutti i suoi zii presuntuosi: il gangster professionista, il capitano di vascello avventuroso, il pilota d'aereo eccentrico, il clown cinico, il fotografo alla moda, il detective astuto......

Ci sono due categorie di cineasti, scriveva il sommo critico francese Bernard Eisenschitz.  Quelli sani come un pesce, vere forze della natura, come Hawks o Walsh e quelli i cui film nascono nella febbre, come Jean Vigo e Nicholas Ray. Boris Barnet e Jerry Lewis appartengo invece a tutte e due le categorie. Peccato che i film diretti da Lewis nel periodo di "notte dell'anima" li possiamo solo immaginare. Sarebbero stati belli e feroci come quelli di Stuart Rosenberg, John Frankenheimer, Billy Wilder e come quelli di Arthur Penn, che era stato un suo assistente alla regia, e il motivo per cui non si sono fatti e che Jerry Lewis non avrebbe tollerato neanche un minimo compromesso, cosa che invece....


Negli ultimi anni si sono ripetute le manifestazioni di rasarcimento artistico, in tutto il mondo. Non solo parigi. Venezia, grazie a Marco Mueller e a Giulia D'Agnolo Vallan, il Moma,  e Vienna, in occasione di una cui retrospettiva molto ampia abbiamo scritto, nel 2013, questo articolo.   









Cento minuti di risate e divertimento sono già di per se’ un messaggio” (Jerry Lewis – “Scusi dov’è il set”)

Tutti a Vienna dal 18 ottobre al 24 novembre 2013. L’occasione è speciale, una retrospettiva – sottotitoli tedeschi - dedicata dalla Viennale (quest’anno interessata anche al cinema etnografico, asiatico e allo spagnolo Gonzalo Garcia Pelayo, www.Viennale.at) a Jerry Lewis, l’unico artista americano che piace soprattutto ai critici marxistien francesi (che sono i migliori). Vedremo oltre 30 lungometraggi, produzioni televisive e una serie di documentari. Grazie a Hans Hurch, il direttore della Viennale. 
A Truffaut, Godard, Robert Benayoun, Noel Simpsolo, Serge Daney, Giuseppe Turroni, Ungari&Aprà, etc... non sfuggiva la profondità e la efficacia artistica di ogni sua gag… erano gli studiosi che hanno sempre contrattaccato le opinioni della critica più conformista e addormentata.

Odiato infatti ancora da gran parte della critica statunitense mainstream, nonostante una carriera di successo cinematografica, televisiva, teatrale e musicale, in coppia e da single, come attore, come fenomeno e come regista, mai un insuccesso, mai un flop, da Bell boy a Telethon, cose che nell’ America per bene contano quasi come un giudizio di dio, eppure Jerry Lewis, nato in New Jersey 87 anni fa,  dovrebbe essere invece disprezzato o almeno frainteso o incompreso, soprattutto dalla cultura europea, spesso spassosamente trombona. Anche perché il comico si vanta da sempre di essere un operaio, un fabbro dell’intrattenimento estremamente particolare, specializzato  nel ‘far scemenze’. Si può essere auteur anche in questo ambito futile. Questione di stile, aroma, dettagli, “mondo” unico. 

Lo afferma lui stesso delle sue performance, anche se non in senso dispregiativo (e aggiunge: “non c’è niente di più drammatico, infatti, della comicità”). Sempre dalla parte del torto, degli ‘ultimi’, dei diseredati, degli idioti, dei bambini, degli infelici, dei travestiti tristi, dei Keaton, dei distrofici muscolari di Telethon, delle minoranze, dei perdenti, degli spettatori-massa, dei diversamente abili... Perché? Avete mai visto un ricco che fa il comico? Impossibile. La comicità è per i poveracci, per gli ebrei, per i neri d’America e oggi per gli arabi e per i palestinesi (Elia Souleiman)… Nella tradizione teatrale popolare araba la coppia formata dallo stolto buono e dall'amico finto erudito è millenaria. Ciccio e Franco, Gianni e Pinotto e Jerry & Dean ne sono impeccabili eredi.


Forse perché il principio della comicità, ciò che fa ridere, e molto, è l’uomo drammaticamente inguaiato che butta palle di neve contro il ricco col cilindro. Il più piccolo contro il più grosso… ‘Quando recito ho sempre nove anni e a quell’età è possibile ferire, ma non si raggiunge mai la bassezza morale’. C’è violenza e violenza, come cerca di spiegarci molto più rozzamente perfino Romanzo di una strage (Marco Tullio Giordana fa la parodia di Rumor-Restivo alla caccia di Valpreda).  Noi siamo per la violenza più efficace, quella dei comici, vero teatro della crudeltà. 

”Come quando W.C. Fields spaventa a morte l’odioso ragazzino in banca: “Ti strozzerei con le mie stesse mani, se tu avessi il collo pulito”. O come Clifton Webb, quando, con un gesto di eccelso charme didattico,  rovescia la tazza piena di fiocchi d’avena al pargoletto che ha ‘in cura’ o Chaplin quando pesta il piede malato di un passante con la gotta  (The Cure, 1917) e fa precipitare da una collina un uomo con la carrozzella, o prende a pedate la signora grassa dopo aver dato da mangiare al cagnolino di lei il suo ultimo pezzo di sandwich… E tutto Stan Laurel. Che prima di lavorare con Oliver hardy fu plasmato nella band di Charlot. E restano i punti di riferimento artistici di Jerry.



Ma Jerry è un Chaplin o un Laurel - che erano ‘molto più duttili degli altri perché si occupavano sia di cose serie che di sciocchezze’ - nato nell’epoca del flipper e dei teddy boys e cresciuto durante la fine della Hollywood classica, quando si assiste al ricambio generazionale dello studio system e al reclutamento di attori a basso costo post-maccartisti, di quella chiamata alla leva per le guerre in Corea e nel nord est asiatico;  svezzato nella coloratissima e sorprendente, buffa e luccicante cultura pop. 

E che trova nello ‘sguardo sconfitto’ una bellezza e luccicanza speciale, e in technicolor fiammeggiante degno di di Arthur Freed. La potenza costituente di un mondo a venire ‘altro’, capace di rovesciare le gerarchie e non irridere chi è schiacciato ma di ridere con lui, essere contemporaneamente lo ‘schlemiel’ e lo ‘schlimazel’: chi rovescia la coca cola e i pop corn perché inetto e chi se li ritrova addosso perché sfigato.

E che pratica - negli anni ruggenti degli hippies, di Led Zeppelin e del Black Panther Party - la soggettività desiderante, obiettivo: un mondo capace ‘di non reprimere ciò che ti fa venire la pelle d’oca, i sogni, le stelle cadenti, i desideri, i soldi nella fontana, le utopie’. 
E tutto questo a forza di risate a crepapelle, di ruzzoloni clowneschi da spaccare la schiena - bomba atomica d’immensa potenza spirituale -  che hanno modificato davvero in meglio i rapporti di forze tra i prepotenti e gli indignados. Nascondendo sempre il messaggio, però, l’osservazione a carattere sociale. Ma prestandosi, qualche volta, a un feroce gioco di allusioni, prima durante e dopo la gag.
Per esempio. L’egualitarismo sul set. Con un capovolgimento sottolineato (anche troppo comicamente) dell’assetto gerarchico della troupe e dei modi di produzione. Alberto Grifi imparerà.


E’ celebre la presenza negli studi dove si girava un film di Lewis di una tribunetta per far assistere ai bambini alcune riprese; e di un tavolo con 150 tazze da caffè, ciascuna ‘personalizzata’ con i nomi di battesimo di tutti i componenti tecnico-artistici-operai dei film. 
E l’ossessione del ‘lavoro’, analizzato nel celebre saggio di Dana Polan Working Hard, Hardly working (2002), che ripercorre un po’ tutti i personaggi-lavoratori ‘nel presente’ dei film diretti da Lewis stesso o da Tashlin: “The Bellboy”, “The Nutty professor”, “The errand boy” e cioè l’impiegato d’albergo, l’insegnante, il cartellonista, e poi ancora il porta mazze da golf, il pilota d’aerei, il clown, il fotografo, il disegnatore a fumetti, il gangster, il detective, il disoccupato che diventa factotum, il porta cani d’hotel, il cameriere, il postino, l’infermiere, l'autista… 

A differenza di Scorsese o Eastwood, Lewis non predilige l’affondo storico di profondità o l’analisi del passato attraverso i suoi protagonisti più illustri (Scusi dov’è il fronte, stravagante satira dell’hitlerismo, e l’invisibile - fino al 2025 - The day the clown cried sui campi di sterminio nazisti, a parte). Ma affronta sempre il presente del lavoro alienato degli umili e lo scontro tra avidità e arroganza dei padroni e corpo indocile a qualunque disciplina e ritmica obbligatoria da stupefacente scienziato della lotta. La prova? Un uso strepitoso della la tecnica dello ‘slow burn’, del lento esplodere della rivolta, dal dentro al fuori, o almeno di un moto di indignazione furibonda, nel suo personaggio, rispetto alla situazione di sfruttamento subita sempre meno indocilmente. What if? diceva Danny De Vito insegnante di sceneggiatura del film di Todd Solondz The Wiener Dog (2015). E aveva davanti (fuori campo) le immagini delle metamorfosi di quell'attore comico straordinario chiamato Jerry Lewis. Ovvio che i suoi allievi lo prendessero in giro.
Sono invece più di 50 i gradi intermedi di passaggio tra un cuore colpito e un corpo che reagisce al sopruso esistenziale, alla disciplina della famiglia e alla sorveglianza del biopotere. Jerry, che di Michel Foucault è l'involontaria, istintiva, mascotte, li interpreta tutti. E quando il volto supera, in tecnica, ogni variazione Guinness (Alec), arriva il corpo a contorcersi distorcersi, allungarsi, trovare la posa innaturale che solo decenni di avanguardia figurativa e di cartoonist dineyani e eretici hanno immaginato possibili. E quando il corpo non basta ecco il paesaggio intero a reagire, commuoversi, infuriarsi: a jerrylewisarsi. E così tutto il reparto di elettrodomestici esplode. E il set dello Studio cinematografico. E lo studio del maestro di musica. E la stanza d'ospedale, paziente totalmente ingessato compreso.... 

E poi. Il coautore della sceneggiatura di Jumping Jacks* (1952), in Italia Il caporale Sam, il sesto film di Dean Martin & Jerry Lewis, è Robert Lees, un black listed. E un altro scrittore comunista Alfred Lewis Lewitt, collaborò con Jerry Davis, il battutista di Jerry Lewis a Las Vegas negli anni più bui dello spettacolo Usa quando, come si evince da molti sketches lewisiani, la mafia ormai poteva mettere le sue manacce sporche sull’affare show business, per tenere più bassi possibili i salari dei performer, perché i sindacati di classe erano stati sconfitti definitivamente, e non senza colpe strategiche dei loro leader come Sorrel, dopo lo sciopero Warner del 1947.  
Inoltre. Se la scatenatissima ‘it girl’ degli anni dieci e venti aveva modificato per sempre l’identità della donna americana (e non solo), scaraventandone il corpo fuori dal puritanesimo vittoriano e sciogliendola da ogni legaccio e da ogni ‘busto’, materiale e immateriale, che ne impedivano i movimenti liberi e autonomi, la stessa sublime cosa avvenne nel secondo dopoguerra, e oltre, anche per il maschietto, wasp o meno, grazie soprattutto alle performance comiche eccezionalmente, irresistibilmente divertenti ed ‘en travestì’ di questa grande icona pop, di una ‘Clara Bow dai capelli a zero’, di quel pericoloso ventenne longilineo di Newark, suffragetta incontenibile, e sosia di Carmen Miranda, che utilizzò il night club, la radio, la televisione, il cinema, un partner eccezionalmente usato e adorato, il comics, il musical e la canzonetta per compiere un’operazione di iconoclastia iconofila radicale, sofisticata, colta e complessa, anticipando la rivoluzione copernicana dei transistor, degli ‘acidi lisergici’ (The Nutty Professor) e del sesso polifunzionale. 

Prima della controcultura, del ‘camp’, di Timoty Leary e di Elvis c’era solo Jerry a dilatare la coscienza e a svitare i corpi slegandoli da ogni comportamento ‘automatico’ e dogmatico. Senza di lui avremmo difficoltà a comprendere l’America traumatizzata dalla morte di F.D.Roosevelt e che passa, in un continuum horror, da Truman a Nixon, dalla Corea alla Cambogia al Cile,
dalla bomba atomica fatta esplodere per sadismo geopolitico sul Giappone già sconfitto ai due Kennedy, Malcolm X e Martin Luther King assassinati, dal maccartismo a Jules Feiffer, dal Borsalino obbligatorio per tutti alla fine definitiva del ‘cappello da uomo’ e forse perfino del ‘maschio’ come lo conoscevamo dall’antica Roma…Buon lettore di Adorno e Horckheimer, e ben prima di Barthes, Jerry Lewis ha messo a soqquadro tutti i miti consumistici californiani decostruendoli con furia catastrofica e apocalittica, non senza deviazioni feticistiche e concessioni alla qualità del design, dall’automobile dalle lunghe ali al frigorifero panciuto e color pastello, dal football alla piscina, da Hollywood al materasso d’acqua, dagli astronauti al baseball, dalle carte di credito al drive-in, dal mall al cocktail bar, dal boeing al country&western, alla televisione a colori e alla cosmesi estrema.
Che l’uomo ‘più sexy di Hollywood’ (Marilyn Monroe) sia anche stato – finché è riuscito a girare e mostrare i suoi film a tutti - il cineasta ‘più rivoluzionario d’America’ (Jean Luc Godard), e non solo per l’uso sperimentale delle tecnologie d’avanguardia come il nagra e il monitor tv sul set,  non fa che traghettare una stessa definizione bifronte (il rivoluzionario festivo e sexy) che ben si addice a Lewis, attore, total film-maker e intellettuale mai riconciliato, dagli anni 50, quando si covava negli Stati Uniti la rivolta, dei costumi, dei linguaggi, delle forme estetiche e dei valori, agli anni 60, quando i tumulti totali divamparono davvero ovunque e furono così devastanti da ben meritare la repressione più svitata e picchiatella: prigione e morte ai most wanted, la devastazione sociale per tutti i ceti deboli, la fine del welfare, dell’assistenza, dell’istruzione, della televisione e della sanità pubblica, l’orrore dei ghetti e degli slums,  la droga pesante capillarmente introdotta per ordini superiori…Un paesaggio difficile da percorrere per chi era abituato alla delizia, seppur apartheid, dei burbs infiocchettati. E invece.

Il Vietnam, l’orrore di una invasione ingiusta, esito però di quasi cento anni di massacri, sfruttamenti e crimini interni, e il ‘Vietnam domestico’, quando il crash razziale divenne il campo di battaglia per una soluzione finale capace di ottimizzare i profitti delle ipercompany. Lewis rispetto a quel mondo cambiato, fin dagli anni 80, da Reagan e Bush sr., ha compiuto un tragitto di esodo e di fuga. Dal 1965 al 1978 ha sofferto di dipendenza da psicofarmaci dopo una frattura alla spina dorsale e anche per tragedie familiari legate alla morte di un figlio in guerra (su est asiatico appunto).  Come Jesse Owens 30, 40 anni dopo l’alloro di Berlino certo non si muoveva più agile e ‘tagliente’, pesce nell’acqua, come allora.  
Jerry Lewis a Cannes 2013
         
 A Lewis piaceva molto una gag di Harpo Marx, che sta appoggiato a un edificio di dieci piani. “Che fai lo tieni su?” gli dice il poliziotto. Harpo annuisce. Il poliziotto dice: “Togliti di lì”, Harpo se ne va e l’edificio crolla. E’ vero. E’ l’ America che fa crollare i suoi stessi edifici e monumenti più giganteschi… Tutta la carriera di Jerry Lewis è il racconto dell’ auto distruzione catastrofica di questa America.

* Jumping Jack è il salto a gambe aperte che si fa quando si fa ginnastica, in particolare durante la naja

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