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giovedì 20 settembre 2018

Mostra di Venezia 75. Mike Leigh e il massacro di Peterloo. Sembra oggi....

Alle origini del Manifesto di Marx e Engels, il massacro di Peterloo
Roberto Silvestri
Piacerà molto a Mario Tronti quest'opera su Manchester, le origini della rivoluzione industriale e perché è lì, in quel pezzo d'Inghilterra che si anticipa sempre il futuro del Regno Unito. Piacerebbe molto anche a Foucault. E a tutti quelli che temono il mondo quando è governato da politici e funzionari pubblici clinicamente fuori di testa anche perché il capitalismo che pretende per sovravvivere carestie e disoccupazioni è per definizione “fuori di testa”. Inoltre. È quasi il prequel del Giovane Marx di Raoul Peck, perché fu a Manchester che Engels studiò le fabbriche tessili e la formazione del proletariato antagonista. Infine: è un prodotto British Film Institute. La signora May non controlla dunque in modo ferreo, come Thatcher, il cinema pubblico. Meno male.
Nord-ovest dell'Inghilterra. Poco dopo Waterloo. L'odore della Bastiglia terrorizza il re Giorgio III degli Hannover, all'ultimo stadio della pazzia e attorniato da funzionari funzionali al suo squilibrio mentale. I giudici condannano a morte i piccoli ladruncoli e spediscono in Australia ogni testa calda. L'habeas corpus viene sospeso. I “riot act” contro i facinorosi reprimono ogni minacciata sovversione. Il “Corn act”, trovata protezionistica che sbarra con i dazi il grano di esportazione, fa lievitare il prezzo del pane. Vi ricorda qualcosa? I “media” dell'epoca trasformano una patata gettata contro la carrozza del re in un pericoloso attentato con armi da fuoco... Le truppe di Wellington sono riciclate in un esercito per la repressione e la controrivoluzione interna.
Il film, lungo ma incalzante, è filologicamente impressionante, più che perfetto nella recitazione, nei set e nel ritmo e radiografa spietatamente cos'è e com'è il “comitato d'affari della borghesia” al lavoro. Insomma siamo vicini allo spirito della “Comune di Parigi” di Peter Walkins. Peterloo racconta un momento chiave, ma rimosso, e purtroppo ancora attuale, della storia britannica. Il massacro avvenuto in localita St.Peter's Field – sarcasticamente poi rinominato “Peterloo” in assonanza con Waterloo – del 16 agosto 1819. Un gigantesco corteo pacifico di operai e operaie tessili del Lancashire in sciopero, perché impoveriti dalla crisi, e dalle leggi ad hoc che la fanno pagare ai più deboli, viene infoltito da una moltitudine di famiglie contadine e artigiane infuriate di tutta la zona. In prima fila sindacalisti, stampa e donne organizzate (dalla zona di Manchester usciranno le grandi figure di suffragette e rivoluzionarie, dalla compagna di Engels Mary Burns a Emmeline Pankhurst). La piazza della capitale industriale del mondo (sulla cui classe operaia Engels scriverà le sue prime controanalisi) è piena zeppa. 80 mila cittadini ascoltano il leader riformista Hunt pretendere, con forbita oratoria londinese, pane e suffragio universale, visto che quella popolosissima zona del paese manda solo rappresentanti eletti da notabili. Il solito gioco di squadra tra prefetti, re, polizia, provocazioni spionistiche, intercettazioni illegali, magistrati e padroni, isolata l'ala estremista del movimento, e chiede la reporessione armata che sarà facilitata anche dalle solite “rigidità etiche” dei moderati di sinistra di origine borghese... La moltitudine è dispersa a sciabolate dell'esercito per impedire l'incubo di una insurrezionale “alla francese”. Quindici i morti e oltre 600 i feriti. Questa è la fotografia in 4k della democrazia liberale più invidiata al mondo. I cinesi l'hanno perfettamente incorporata in piazza Tienamen. Il cineasta Mike Leigh, veterano del cinema di combattimento ci mette più cervello e cuore, questa volta. Perché è di Manchester. Racconta un po' delle sue radici. E rivede in quella criminale e odiosa operazione di “pulizia etnica” la stessa anima razzista utilizzata oggi dai Ceo delle multinazionali contro i proletari vaganti del mondo.
Peterloo
Regia: Mike Leigh (concorso)

martedì 27 gennaio 2015

Turner di Mike Leigh. Perché il mio "punto di vista" non è un'opinione. Incontro al vertice sul tema della luce


Roberto Silvestri 

Inattuali, controccorente e incompresi dalla loro epoca Pasolini, Turner e Leopardi sono al centro dell'attenzione in questa vitale fase della ricerca cinematografica più approfondita. Abel Ferrara ha voluto far parlare addirittura in inglese il primo, visto che il nostro poeta fu l'indecifrabile profeta del sessantotto morente, anzi assassinato. E Martone ha estremizzato la sua diversità fisica, come fosse il gobbo di Notre Dame, per visualizzarne l'alterità interiore totale, neo antica, nel paesaggio contemporaneo di un'Italia incapace biologicamente di 'crescita'. Di paesaggi contemporanei si occupò, scavalcando la velocità della luce, l'occhio prensile del pittore inglese. E da allora le 'vedute' non sono stati più le stesse.  
Mike Leigh sul set
Mike Leigh, che vinse il festival di Cannes nel 1996 con Segreti e Bugie, incontra e racconta nel suo terzo film in costume, Mr. Turner, in originale, Turner in italiano e in Usa, la vita e le vicende pubbliche, artistiche e private del grande artista ottocentesco, precursore della rivoluzione impressionista. 
Successo critico strepitoso in patria, dopo il concorso sulla Croisette nel 2014, finalmente arriva nelle sale italiane questo film summa dell'eccellenza britannica che gli esperti di Cannes giudicarono evidentemente più innovativo, sorprendente e riuscito dell'altra escursione profonda nei chiaroscuri del romantisimo europeo del XIX secolo,  Il giovane favoloso di Martone. Il fatto è che Cannes ha un debito di riconoscenza verso un cineasta che ha sempre ben ripagato i cinque inviti in concorso. Turner ha vinto a Cannes il premio per il migliore attore (a Timothy Spall) e per il miglior contributo tecnico artistico (a direttore della fotografia Dick Pope). E  ha conquisto quattro nomination all'Oscar 2015: Dick Pope (fotografia), Jacqueline Durran (costumi), Gary Yershon (musiche originali) e Suzie Davies e Charlotte Watts (desing produttivo).
Troupe e cast a Cannes
Nonostante la sontuosa scenografica, la raffinatezza dei costumi e la filologia accurata nelle acconciature, però, Mr. Turner non è il tipico biopic d'alta rigatteria poggiata sull'ovvio narrativo. Si tratta invece, citando le parole stesse del cineasta, di “una distillazione drammatica”. Alchimia, non agiografia, né gelido rigore documentaristico. L'opposto di uno sceneggiato televisivo che modera, smussa e annacqua l'aneddoto. Anche se il suo autore proviene dal ricco vivaio della Bbc qui si sente l'urlo e il grugnito anacronistico del performer punk che è altro dal mondo in cui vive... 
Girato in digitale e in piena indipendenza produttiva, Mr.Turner è un film bello e discutibile. Una incursione, questa sì documentaristica, sulla vibrazione della pennellata è il suo cuore formale. E sul colore, ma dal punto di vista del processo ottico, non della piacevolezza cromatico. Cioé veniamo condotti dalla telecamera sulla soglia di percezione del colore. Un film tutto fiamme e acqua, sole e mare. Nel loro stato solido, liquido, gassoso. Dall'impasto ecco uscire il concetto di "luce problematica" che tanto appassionò lo sguardo turneriano. E che i bigotti arroganti e ignoranti dell'epoca considerarono orripilante “crosta da miope”. 
Leigh racconta, in due ore e mezza - ma passano veloci perché il film è dinamico come un Jackson Pollock in azione - gli ultimi 25 anni di vita del grande pittore romantico inglese (1775-1851), precursore dell'impressionismo, dell'astrattismo e dell'informale. Cioé di tutti quei tentativi di rendere percettibile il tempo arabescato della luce. 
Turner infatti, il compulsivo e onnifago “pittore della luce”, è artista cinematografico per eccellenza. Sia per le sue ricerche luministiche, da pioniere (sarà attratto irresistibilmente dal dagherrotipo e dalla scienza collegate al magnetismo dei colori). Sia per una biografia on the road e poco raccomandabile: due case (una segreta, a Margate, sul Tamigi); molti viaggi (il film inizia tra le nebbie olandesi); curiosità necrofile da fotoreporter; una moglie abbandonata e i figli e i nipoti trascurati; una governante più che devota; qualche visita, non solo professionale, nei bordelli; l'adorazione per i marinari e l'ossessione per il più marinaio di tutti, l'ammiraglio Orazio Nelson; la continua lotta contro il conformismo dell'ambiente artistico ufficiale; un padre adorato, suo assistente 'colorista', la cui morte lo getterà nella disperazione più nera; il trattamento sprezzante per i colleghi, soprattutto neo-gotici; alcuni esperimenti da antesignano della 'body art', come farsi legare all'albero maestro di una nave per analizzare una tempesta oceanica 'dal di dentro'; la passione fou per Mrs. Booth, locandiera sul mare, donna di una “bellezza intensa”, straordinaria, che allieterà i suoi ultimi anni di vita... 
Il direttore della fotografia, Dick Pope, ha lavorato sodo per restituirne spirito e look dell'epoca senza sembrare ridicolo e la sua soluzione principale, immergere tutto in uno spazio fiammingo geometrico, alla Vermeer, o nella “luce tenebrosa” di Goya, ci è sembrata, più che un motto di spirito, o una scelta estetizzante, un metodo fecondo per illuminare un personaggio del passato mettendolo in doppia prospettiva storica. Diceva il critico d'arte (e di quell'epoca) Ruskin che il “restauro” è un crimine, la “peggiore delle distruzioni perché accompagnata dalla falsa descrizione della cosa che abbiamo distrutto”. E così come una architettura in macerie ha più verità di una ricostruzione “come se fosse l'originale”, così la biografia cinematografica per non essere un falso artistico o un falso storico, non deve cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo. E dunque Leigh può sfogare tutta la sua indole espressionista senza disturbare il suo oggetto d'analisi.

La colonna sonora, poi, affidata alle sonorità più postdodecafoniche che minimaliste di Gary Yershom, ha il compito di spiegarci che, come la pittura è una poesia senza parole, così la musica è un cinema, un flusso spaziale dinamico, 'senza immagini'. Bisogna avere due occhi per apprezzare dunque il film, un “occhio solare” e un “occhio musicale”.
Mr. Turner è il terzo film in costume, dopo Popsy Turvy e Vera Drake, del cineasta settantunenne di Manchester, esplosivo durante il decennio nero di Thatcher per i suoi acidi impasti cromatici e concettuali antiliberisti, così come pieno di sarcasmo e furia è qui a fiancheggiare, quasi diventandone un sorta di esecutore testamentario o di alias, il più grande paesaggista inglese, interpretato con l'incisività burbera di un Charles Laughton perennemente bofonchiante, sputacchiante e meditabondo da Timothy Spall, abituale collega d'avventura e così affezionato a Leigh da aver studiato pittura per due anni e da portare, scritta negli occhi, la sua “impossibilità ad essere Turner”.


J.M.W. Turner, dalla vita privata eccentrica e nomade, membro dell'Accademia Regia ma odiato a corte e sbeffeggiato dal popolo per il metodo pittorico avulso (l'uso di coloranti e additivi non ortodossi, anzi culinari), lo stile avveniristico, le forme inquietanti e la luce 'irrealistica' delle sue vedute, adorato dalla critica più sensibile (John Ruskin, che forse è il punto debole del film, mi pare troppo schematicamente delineato) e impermeabile ad ogni seduzione di mercato (lasciò tutte le sue opere allo stato affinché tutti ne potessero godere, e gratis), fu l'implacabile e drastico nemico dell'iconografia vittoriana e critico del capitalismo, 'perverso' disumano e alienante, almeno come lo descriveva l'esperto Adam Smith in quegli anni: famelico di guerre di conquista, truffe salariali e schiavi (La Ricchezza delle Nazioni, libro V, cap. 1). 

Ma è soprattutto il suo quotidiano lavoro artistico, rappresentato come se fosse all'opera uno scienziato, tutt'altro che pazzo, o un carpentiere navale, a rendere questo film interessante quanto il Van Gogh di Minnelli o il Salvator Rosa di Blasetti. Ecco arrivare con il suo taccuino Tomothy Spall “col demonio che ogni mattina mi porta nello studio con tutte le speranze che per ora rimangono solamente tali”...in mezzo a un mondo di “money-making mob”, una plebe che fa soldi. E solo a quello aspira. Come avrebbe commentato, altezzoso, Ruskin.
Il progetto Mr. Turner ha ben venti anni ma la realizzazione è stata possibile soltanto quando Leigh è riuscito a raccogliere i 13.5 milioni di dollari sufficienti, anche se ha dovuto eliminare dalle riprese il viaggio a Venezia, dopo la morte della sua produttrice storica, Simon Channing Williams. Peccato sulla questione delle “soglie di visibilità” l'incursione lagunare sarebbe stata chiarificatrice. E avremmo compreso meglio la rivoluzione di Turner che spinge la pittura, seguendo il Trattato della luce di Goethe, a liberarsi dalla rappresentazione convenzionale delle forme dell' "esterno", studiando otticamente il bagliore (parallelamente a Caspar David Friedrich...), la torbidezza, la nebulosa atmosferica della nebbia, l'abisso dell'oscurità...

lunedì 19 maggio 2014

Cannes 67. La Francia reagisce all'attacco Netflix

Roberto Silvestri
Cannes

Thierry Fremaux, delegato generale del festival di Cannes
Dopo 38 anni di direzione, palese e occulta, diretta o virtuale, solitaria o d'equipe, Gilles Jacob, l'ex critico della rivista di supernicchia Cinema 64 diventato via via un raffinato supermanager specializzato in grandi festival, lascia definitivamente il vertice di Cannes. Sono gli stessi anni di comando del suo predecessore, Fabre Le Bret (che però fu travolto dal maggio francese). Una istituzione culturale pubblica dotata di una invidiabile continuità imprenditoriale. C'è qualcosa da imparare dai cugini francesi, no?

Abderramane Sissako, regista mauritano in concorso con Timbuctu
Certo, Gilles Jacob non se ne va. Resta attaccato alla poltrona, direbbe Grillo. Sta al vertice di Cinefondation, sezione cerca talenti giovani, diretta dal figlio. E rimane alla direzione artistica il suo allievo, Thierry Frémaux. Anche se il programma ufficiale del megafestival sembra ormai farsi quasi da sé. Come se un algoritmo, un po' incestuoso - perché interno agli interessi esagonali - producesse, in base a ciò che è pronto, una classifica, statisticamente e politicamente corretta, dei valori artistico-commerciali in campo. Un sistema meritocratico d'azienda che si fonda su una scientifica scelta delle aree di provenienza dei film e delle giurie. Cineasti di tutto il mondo sono scoperti da cuccioli, e ottimizzati da Cannes. Da Cinefondation, la sezione che presenta i migliori saggi delle scuole di cinema, si è promossi al Résidence, che dal 2000 ad oggi seleziona i talenti e li aiuta nella realizzazione dei lungometraggi d'esordio. Ebbene ne sono già stati realizzati 98...E poi dalla Quinzaine, dalla Semaine, da Certain regard si è promossi alla Camera d'or, e quindi al Concorso... Che, nell'edizione 67, dedica un'enfasi particolare, politico-umanistica, ai teatri di guerra più drammatici del momento (Siria, Cecenia, Ucraina, Mali, Costa d'Avorio, Afghanistan...); al parco-registi prestigiosi e pluripremaiti (Godard, Cronenberg, i Dardenne, Leigh, Loach, quest'anno; come Haneke, Von Trier, Almodovar, Ang Lee, Kusturica un altro anno...) che periodicamente sono ospiti della Costa azzurra (magari in giuria). In più qualche coraggiosa sorpresa o deviazione dal canone di genere hollywoodiana, quest'anno il western e il thriller obliqui di Tommy Lee Jones e Bennett Miller
Ma Cannes non è solo il suo concorso. E' molto di più. Il mercato mondiale si dà appuntamento qui. Le operazioni di vendita internazionale dei film e delle serie tv più cinematografiche partono dal Marché ospitato sulla spiaggia assolata (per fortuna, l'anno scorso tutti sotto il diluvio). Il festival è sempre meno per critici (Jose Carlos Avellar, Michel Ciment, Derek Malcolm, che continuano a dispensar palline sui giornali specializzati, sono come i sopravvissuti di un'altra era geologica) e sempre più per apologeti on line e agenti di vendita internazionali. Lo "stile Cannes" può essere un po' indigesto e premiare il sapore dell'arte geneticamente modificata, ma le cifre parlano chiaro. Prendiamo i grandi successi del 2013: La vita di Adele è stato venduto in 49 paesi. Inside Lewyn Davis dei Coen in 37, Il passato di Farhadi e Nebraska di Payne in 31, La grande bellezza di Sorrentino, che ha vinto l'Oscar, in 29, Solo gli amanti sopravvivono in 25, Behind the Candelabra in 24 e Venere in pelliccia in 14....
Infatti chi sostituisce Jacob alla presidenza dell'istituzione è Pierre Lescure, che fu il re di Canal Plus. E non è un caso. La televisione a pagamento francese, imposta nel 1984, con la forza, da Mitterrand, che ne consentì il ruolo monopolistico, è diventata il cuore sano del sistema francese. Un monopolio privato in cambio di un forte sostegno alla produzione nazionale. Dai proventi dei 6,1 milioni di abbonati una certa percentuale, il 12,5%, va infatti allo stato per contribuire a finanziare 130 film all'anno (e il final cut è del regista, per legge, non del produttore). Una filiera ben scandita, tra uscita in sala, in pay-tv, nelle tv generaliste (un anno dopo), pay-per-view (due anni dopo) etc, tutto perfettamente sincronizzato, che ha permesso alla Francia non solo di produrre anche quest'anno circa 160 film all'anno, di lanciarli bene sul mercato (anche via Cannes) e di contare su incassi crescenti, ma di spartire con Hollywood il controllo dei vari comparti di mercato. L'intero mondo del cinema d'essai è stato così gestito da Parigi. E si potrebbe festeggiare così, a Cannes, differenza ed eccezione culturale a parte, contemporaneamente, sia l'uscita di Godzilla (in una versione più fedele allo spirito di Honda che a quello di Emmerich) che quella di Grace di Monaco, due facce della stessa medaglia.

Gille Jacob, dal 2015 fuori da Cannes
I meriti di Jacob? Il vituperato palazzo del cinema, quel mostro sul mare, il cosidetto "bunker". Dal 1983 l'obbrobrio architettonico, sede centrale e irrazionale del festival de Cannes - e che oggi pare hanno deciso di abbattere (prima o poi...) - ha trasformato un appuntamento ancora subalterno a Venezia, per età e prestigio, nel tempio, ormai da decenni, del cinema mondiale. Portare in Costa Azzurra produttori, distributori esercenti e tecnici , regalandogli la Plage des Palme e una parte della spiaggia pubblica, è stata una mossa astuta. Poi aver voluto farsi affiancare dal partner number 1 Canal Plus, e dunque ottenere un'esposizione televisiva forte e una complicità nel business. Infine aver sedotto altri ricchi sponsor privati, che oggi costituiscono metà del copioso budget festivaliero. Questa "triplete" ha permesso a Cannes di essere indipendente in tutti i sensi, dal punto di vista finanziario, diplomatico, politico, professionale e anche dei rapporti personali con i cineasti. E di chiamare a raccolta tutti: gli archivisti del cinema, per le retrospettive dedicate ai classici restaurati (quest'anno 25); attori e creativi di tutti i tipi,  per le lezioni di cinema (quest'anno anche Sofia Loren) e i colloqui internazionali; le cineteche per gli omaggi, le Palme d'onore; il pubblico generico, con le proiezioni gratuite sulla spiaggia e in 4 salette della città...Tutti vogliono essere qui. Più di 12 mila sono i partecipanti registrati al Mercato, provenienti da 118 paesi, rispetto ai 109 del 2013. Si trattano le compravendite di 5200 film, di cui 3100 completati, 810 documentari, 144 in 3D. Con 1450 proiezioni previste, il 79% dei quali in prima mondiale. Oltre al sito internet in 8 lingue e una particolare politica di apertura al web (di cui la proiezione del film di Abel Ferrara Welcome to New York, sul caso Strauss-Kahn, fa parte: lo vedremo pagando 7 euro il 17 maggio in rete).

Hilary Swank e Tommy Lee Jones in Homesman, in concorso a Cannes 67
Il problema è che tutto questo bel castello potrebbe rivelarsi di carta nel caso in cui Netflix e le altre piattaforme digitali di Apple, Google, Amazon, che promettono a prezzi molto competitivi (10 euro invece di 39,90) offerte spettacolari di film e serie tv in abbonamento, aggirando le leggi francesi, riuscissero a distruggere Canale Plus e il suo sistema. Alcuni dati sono allarmanti per il mercato francese. Le frequenze in sala diminuiscono del 5-7% all'anno, mentre le vendite di dvd crollano dell'8% e non decolla il blue ray e la pay per view. Ma l'azienda madre di Canal Plus, Vivendi, è passata al contrattacco. Ha rintuzzato prima la rivale Tps, poi un attacco portato dal canale a pagamento sportivo del Qatar BeIN Sports, perfido lascito di Nicolas Sarkozy, ai diritti delle partite di calcio di serie A e dell'European League (se li è assicurati fino al 2020, ma pagando questa volta una fortuna) e dei Top 14 di rugby. Poi ha ampliato la sua liquidità vendendo per 13,5 miliardi di euro la rete telefonica Sfr (a Altice Numericable) per produrre serie ambiziose (come Mafiosa) per il nuovo canale Canal + Series (lanciato nel settembre scorso), per il circuito Web (la divisione Ott, Over the Top che propone un catalogo di 8000 programmi a 9,99 euro) e per investire sul mercato internazionale (in Vietnam Canal+ ha 600 mila abbonati; in Africa 1,1 milioni e 2,2 milioni in Polonia) e sulla tv generalista (ha acquistatao i canali D8 e D17).
Cannes 67 verificherà se uno dei migliori film dello scorso anno, Grigris (venduto solo in due paesi), del mauritano Haroun, avrà lo stesso risultato commerciale sconfortante di uno dei più interessanti film di questo cartellone, Timbuctu diretto dal connazionale Abderramene Sissako. Intanto in un sondaggio tra i suoi lettori Nice matin ha già decretato il vincitore dell'edizione 2014. E' il western spurio di Tommy Lee Jones, The Homesman con Hilary Swank. Al secondo posto Foxcatcher di Bennett Miller. Un thriller. Entrambi nordamericani.