sabato 3 marzo 2018

Quello che non so di lei. "Da una storia vera" di Roman Polanski



Mariuccia Ciotta

Le segnaletiche di Roman Polanski attraversano il thriller che fa da specchio a Emmanuelle Seigner alias Delphine de Vigan, autrice del libro D'après une histoire vraie. I diari misteriosi di L'uomo nell'ombra, le apparizioni terrificanti alla finestra dell'Inquilino del terzo piano, le mura trasudanti incubi di Repulsione... E lei, Eva-contro-Eva Green, doppio allucinato della scrittrice in crisi, usurpatrice e corpo del desiderio.
La fan e il suo idolo, stesso colore dei capelli, stessi stivaletti, identiche fino alla dissolvenza l'una nell'altra, come nell'Inserzione pericolosa di Barbet Schroeder. Insieme al regista, firma la sceneggiatura Olivier Assayas, già frequentatore di fantasmi in Personal Shopper, ma qui lo spettro è materico e soprannaturale allo stesso tempo. Polanski non fa distinzione tra la realtà e il suo riflesso.
(Cannes 2017 - pubblicato su Filmtv



di Roberto Silvestri (*)


Scriveva più o meno Borges (Le rovine circolari): “Non essere una donna: essere la proiezione del sogno di un’altra donna: che umiliazione incomparabile, che vertigine!”. Due donne. Poalnski per la prima volta fa un film sulla relazione tra due donne.
Il desiderio inconscio, i sogni, il doppio, il fantasma e le suggestioni notturne e mutanti in generale sono la specialità di Roman Polanski. Uno specialista nella regia dell’azione indiretta. Dunque. Brividi forti e chiari di paura grazie a Da una storia vera, in Italia ribattezzato Quel che non so di lei, perfidi titoli spiazzanti del nuovo, meraviglioso capolavoro di Polanski, che esordì a Cannes 70. È più o meno come se Per favore mordetemi sul collo fosse ambientato alla Fiera del libro di Parigi. Inoltre un film tratto da un romanzo senza che dal romanzo sia tagliato fuori nessun elemento. Non facile.
Polanski è ancora capace di tagliarti in due con un improvviso primo piano d’amore (e, in seconda battuta, di morte). Non più un vampiro, un demonio, un inquilino che ti fissa dalla finestra accanto, un mostro che ruba l’acqua ai messicani, un Blair che massacra un popolo per sbaglio, però, questa volta. Ma addirittura il primissimo piano della donna più bella del mondo che entra a forza nella tua vita. A cominciare dal sogno. Gli occhi prensili di Eva Green, nel ruolo di una donna, L. o Elle, dall’umorismo seduttivo irresistibile, colta, sofisticata, impeccabilmente à la page e scrittrice sicura di sé, che incontra casualmente e poi si insinua nella vita quotidiana e diventa l’amica intima del cuore e imprescindibile di una romanziera di best seller altrui, Delphine (Emmanuelle Seigner, la terza moglie di Polanski dal 1989 dopo Barbara Lass e la povera Sharon Tate), abituata a raccontare le storie di qualcun altro, una ghost writer, ma che si trova nella brutta situazione, già descritta da Billy Wilder in Giorni perduti, di non riuscire più a scrivere O a scrivere meglio. Oltre ad avere modi nervosi e capelli biondi disordinati. E un amante un po’ distratto e volatile. E una figlia insopportabilmente pilota d’aereo, altro che insicurezze. La bruna L è proprio l’amica disponibile, generosa, simpatica, complice come quella che si ha a 17 anni. Come il conigliaccio Harvey di Jimmy Stewart.
Ma non è la sicurezza che attrae Delphine. L al contrario è importante per il suo lato dark scoperto (che poi è anche nel lato dark coperto di Delphine: i sensi di colpa per aver utilizzato e strumentalizzato la vita vera degli altri e ascendere, opportunisticamente, al successo): “qualcosa di nascosto, di appena percettibile, mi diceva che L. era una sopravvissuta, che aveva alle spalle un passato torbido e misterioso, che aveva messo in atto una straordinaria metamorfosi." Una sopravvissuta, come tutti gli scrittori o le persone o i cineasti pericolosi (dal 1977 Polanski è ufficialmente diventato un pericolo pubblico numero 1, anche se la lolita Samantha Geimer è incolpevole). L. pericolosa come Delphine. Una coppia più vicina di quanto non sia un rapporto lesbico semplice e dichiarato.
Conservatore della messa in scena sintatticamente e grammaticalmente più che corretta, Polanski, questo rivoluzionario dell’immagine lavora sul non visibile, crea paesaggi interiori tematicamente perturbanti, simili alla messa in scena di un atto psicoanalitico, di un transfert nel quale però è arduo trovare il punto di vista dell’analista. È il regista? E' lo spettatore? E' il critico?
Da cui l’imbarazzo di fronte ai suoi film più riusciti. Forse solo un po’ l’allieva inglese Ramsay sembra seguire gli stessi sentieri deliranti, fantasmatici, futili, babbei (da beato: da “povero di spirito”) e schizofrenici. È paradossale però che il nomadismo fatto persona e cinepresa del regista polacco di Rosemary’s Baby, L’inquilino del terzo piano e Chinatown sia stato fermato negli ultimi tempi, per colpa di leggi internazionali non consone a uno stato di diritto. Roman non può mettere piedi fuori dalla Francia o dalla Svizzera, vittima di una sorta di “sindrome Sofri-Negri” planetaria (non a caso tutto iniziò nel 1977). E’ la perfida vendetta contro chi ci aiuta con le immagini visive e sonore a capovolgere il mondo. E il suo indagare che inquieta. Da una storia vera è un romanzo del 2015 di Delphine de Vigan, scrittrice francese cinquantenne pubblicata in Italia da Mondadori, che aveva sfiorato il premio Goncourt nel 2011 con Niente si oppone alla notte, biografia romanzata della vita e del suicidio della madre. Proprio dal successo di quest’ultimo libro, e da una fiera del libro dove l’autrice lo presenta con successo, parte sia il nuovo libro (ancora una volta autobiografico) di de Vigan che il nuovo film di Roman Polanski, scritto con l’ex critico e collega francese Olivier Assayas, interpretato oltre che da una Eva Green perfetta sia come spettro cinematografico sia come proiezione fantasmatica di Delphine, che è la moglie di Polanski, e la mamma di due suoi figli.
È proprio lei che ha voluto il film, colpita da un romanzo in cui realtà e finzione giocano a nascondino, e dunque perfettamente in linea (anche se non dritta, curva) con le ossessioni, i sogni, i fantasmi, insomma la poetica del grande cineasta polacco. Il fil, è stato scandalosamente e masochisticamente tenuto fuori dal concorso di Cannes, solo per evitare che vincano sotto i film le solite polemiche che intrigano i bigotti di tutto il mondo.
Il romanzo è del 2015, proprio lo stesso anno del suicidio di Chantal Akerman, la regista belga che ha reinventato il tempo cinematografico, ha creato un sito facebook estremamente sospetto e ha sempre, costantemente, tragicamente raccontato i suoi rapporti con la madre sopravvissuta di Auschwitz, imbastendo realtà e finzione senza preconcetti. Spesso c’è più vita vera nell’immaginazione radicale. Mi piacerebbe che questo film le fosse stato dedicato da Polanski e Assayas. Anche perché Akerman come Polanski non usava ralenti o sovrimpressioni per mettere in scena i sogni. Non usava il flou per eliminare il fondo, che nel sogno è opaco. Il sogno non è solo ciò che si vede ma ciò che si sa. E nulla è statico nei sogni. Tutto si muove e cambia. E si rischia l’incubo. E i colori non sono mai vividi…

* (pubblicato su Alfabeta2)


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