mercoledì 14 marzo 2018

L'autre Algerie. Ricordo di Mahmoud Zemmouri. Un'intervista di 20 anni fa firmata Marcella Crivellenti



Mahmoud Zemmouri (1946-2017)
Incontro e conosco per caso a una festa il giovane scrittore e giornalista algerino Kamel Daoud a Torino, durante l'ultimo festival del cinema. Ha pubblicato il romanzo Le mie indipendenze per la Nave di Teseo. Infatti è il party per il nuovo crito-film di Elisabetta Sgarbi, L'altrove più vicino: un viaggio in Slovenia. Siamo alla fino di novembre del 2017 e Daoud (che sta lavorano al nuovo lungometraggio di Allouache) mi dà la triste notizia della morte, avvenuta poche settimane prima, di un grande e sottovalutato cineasta algerino, Mahmoud Zemmouri. Lui della tragicommedia degli sradicamenti, duplici e triplici, è stato il cantore massimo, il più bizzarro, sformato e barocco. Nessun organo di stampa italiano, figuriamoci la televisione, ci ha informato. Non è un caso. La cultura araba deve passare per serissima, fanatica, un po' tetra. Al di là del Mediterraneo non c'è posto per gli umoristi e per la satira...

Nato a Boufarik il 2 dicembre del 1946 e morto a Parigi il 4 novembre del 2017, attore, sceneggiatore, regista e produttore Zemmouri da noi è conosciuto dai più attenti cinofili forse solo per aver interpretato in Munich di Steven Spielberg il ruolo dell'anziano commerciante libanese. 
In realtà, in 50 anni di carriera, Zemmouri ha diretto solo 7 magnifici lungometraggi comico-satirici sugli aspetti più seri e inquietanti del mal vivere bear in Francia e del mal mitizzato socialismo algerino, "faro della rivoluzione panafricana e panaraba": Prends 10000 balles et casse-toi (1981); Le folle années de twist (1983), De Hollywood à Tamanrasset (1990), L'honneur de la tribù, dal romanzo di Rachid Mimouni, girato in Kabylia per ragioni di sicurezza; 100% Arabica (1997), Beur Blanc Rouge (2006) e Certifiée Halal (2013). Per la televisione di Algeri ha creato la serie comica Imarat El-Hadj Lakhdar, andata in onda dal 2007 al 2009. 

Troppo demenziale, impuro e "diretto" (il titolo di un suo film mai girato era: Come diventare francesi in Nove settimane e mezzo) il suo cinema per la componente asessuata dei cinephiles parigini e troppo audace e irriverente per la casta al potere del Fln, il partito che ha retto sempre il paese dall'anno (1962) della sofferta indipendenza, vacillando solo dopo la vittoria elettorale degli integralisti. Zemmouri è stato così perseguitato, contrastato, ignorato, censurato e perfino fisicamente inseguito dal Fis che in piena guerra civile gli incendiava i set, da essere costretto per molti anni a vivere facendo il ristoratore. Dal 1968 si era infatti trasferito principalmente a Parigi, dove ha studiato cinema per conto suo, né come cinespettatore folle né come allievo Idhec, e ha lavorato inizialmente come assistente di Ali Ghanem, utilizzando poi strutture di post produzione francesi per montare i suoi film, quasi tutti girati in Algeria. Né algerino del tutto nè francese completamente integrato, Zemmouri ha ribaltato contro entrambe le parti malate di quelle tradizioni culturali (araba, musulmana, contadina agraria o cristiana, occidentale, industriale) i suoi affilati strali comici. Anche per sdrammatizzare la sua "doppia" esclusione. I  francesi infatti hanno amato Zemmouri soprattutto per Rachid, il corpulento personaggio di Tchao Pantin, commedia di successo diretta da Claude Berri nel 1983. Mentre noi lo abbiamo scoperto grazie alla Mostra di Venezia del 1983, quando Rondi selezionò un formidabile Gli anni folli del twist che raccontava non senza sarcasmo, rispetto alla retorica resistenziale delle repubbliche popolari e democratiche le disavventure (autobiografiche) di due sottoproletari ventenni di Boufarik, con camicie sgargianti e occhiali scuri da Blues Brothers. I due amici, per loro fortuna esageratamente americanizzati, e dunque indocili all'utopia "socialista" del Fln, diventavano corpo critico rock di chi, dopo la guerra, le sofferenze, le torture, gli eccidi, riconsegnava tutto il potere economico e politico  alle solite grandi famiglie potenti (e alla burocrazia di partito), e già cominciava a complottare con l'estremismo islamista per reprimere, fin dall'infanzia e dalla famiglia, affinché non insorgessero troppo, masse sempre più impoverite alle prese con i problemi di tutti i  giorni, casa, cibo, salute, scuola, divertimento...  Mahmoud Zemmouri dichiarò nel 1994 all' Humanité:  "il fondamentalismo non risale al 1988, è nato il 1 ° novembre 1954, con lo scoppio della rivoluzione algerina. L'Islam è stato il cemento dei combattenti. Il giornale dell' Fln si chiamava El Moujahid, la lotta era la jihad. L'articolo 2 della Costituzione afferma che l'Islam è la religione di stato. Il presidente Chadli ha autorizzato la partecipazione alle elezioni del Fis, un Frankenstein che si è poi rivoltato contro il suo creatore. Quello che in Francia è successo con la Le Pen. ..Nel mio film L'onore della tribù racconto che funzionari ignoranti e inesperti del Fin hanno imposto ai contadini una modernizzazione scriteriata che ha distrutto i nostri villaggi. I film osé e fuori norma di Zemmouri piacciono in Occidente solo la componente della critica meno ipnotizzabile dall'esotismo e dall'orientalismo.  Negli Anni folli del twist una scena di tortura, con il prigioniero immerso sadicamente con tutta la testa nel secchio d'acqua, viene ribaltata in burlesque d'alto contenuto simbolico, perché il povero contadino atavicamente assetato, quell'acqua finalmente se la beve proprio tutta, lasciando i carnefici di stucco. Prends 10 000 balles et cass-toi, che ironizza sul ritorno a casa di una famiglia irreversibilmente francesizzata, è premiato a Cannes. Le commedie sull'ipocrisia criminale degli integralisti (che predicano male e razzolano malissimo) girano per il mondo festivaliero in tutti gli anni 90. E il musical 100% Arabica (girato nelle periferie parigine a maggioranza beur) torna a Venezia dove Marcella Crivellenti lo intervista e, 20 anni dopo, ci regala i suoi preziosi appunti. (r.s.)


Il cineasta algerino Mahmoud Zemmouri 




di Marcella Crivellenti

100% arabica è la pellicola presentata in anteprima mondiale dal regista e sceneggiatore algerino Mahmud Zemmouri nella Sezione Mezzogiorno di Venezia 1997 (*) 


E' un film strano per noi, ancora poco avvezzi a misurarci con le banlieu, come invece a Parigi. Che film è, spiegato ad un italiano? 

Dovrei chiederlo io a te che lo hai visto… 

…Sono indecisa se dire che il suo film parli di progresso o di tolleranza… 

(sorride) È un film che racconta la periferia parigina, stipata di personaggi assai simili a quelli interpretati da Khaled e Cheb Mami. Sono quartieri estesissimi, quasi delle piccole città, come 100% Arabica. E sono delle isole, pensando allo sviluppo di Parigi, spesso ignorate completamente dalla popolazione cittadina. Sono messe lì. Distanti.  

... Emarginate 

Tanti algerini e nord africani vivono nella pericolo o - se vuoi - al limite delle loro esistenze, in questi quartieri dove passato e presente, tradizione (che spesso è rafforzata dal senso di lontananza che l’immigrazione porta con sé) e nuovi costumi, creano un multiculturalismo non sempre pacifico, equilibrato come saremmo portati a dire. Ho scelto il tema della musica per raccontare questo contrasto in seno ad una stessa comunità, perché la musica rappresenta al meglio i processi di sintesi, tra vecchio e nuovo. Pensa all’impiego di strumenti antichi, come oud e tabla nella musica rai. Diventa più facile mettere gli uni contro gli altri, usando, con ipocrisia, le ragioni della tradizione, se ci pensi. A volte questa mescolanza, insieme alla assimilazione di nuove abitudini, è quasi esplosiva. È il provare ad immaginare un equilibrio tra ciò che porti e ciò che trovi, ma pure tra la tua identità e quella del tuo popolo originario - diremmo la tradizione - e ancora tra te e il mondo, inteso come insieme di individui che lo popolano. Il progresso, però, passa da una consapevolezza: che certi processi di rinnovamento che accompagnano la società sono inarrestabili. 

Allora è un film sulla democrazia? 

Come le idee, che a volte arrivano da molto lontano, anche le parole e i concetti possono nascere da etimologie diverse. Per esempio democrazia per gli occidentali deriva dal greco, per la nostra tradizione arabo-musulmana da i Daiamuna Karasi, i seggi occupati dai saggi (1). C’è uno schema del concetto, che è lo stesso che anima la democrazia greca. Certo, poi dovremmo distinguere tra musulmani e arabi. Che vengono assommati come fossero un unico genere, ma parliamo di diversità enormi. Senza considerare l’apporto delle frange laiche che animano le comunità. Non puoi però generalizzare, nè parlare di un solo mondo arabo: la varietà di storia, tradizioni, posizioni politiche, governi succedutisi, diversità concettuali (soprattutto in tema di potere) è immensa. Tuttavia qualcosa che rimanda alla poca libertà e alla sua mancanza ha a che fare spesso con forme di integralismo religioso e la cultura di una comunità e di un territorio. 

Se una comunità è ricca, è più facile vivere in democrazia?  

Io penso che la libertà sia il primo punto a favore del vivere in democrazia. Vuol dire principalmente essere e poter rispondere di sé stessi. Essere noi stessi, la nostra possibilità. Ma vivere liberi vuole poter dire anche vivere senza l’assillo della mancanza, che poi ti porta - specie in contesti degradati - a odiare chi ha di più. Ed è un tema di propaganda di facile impiego, che può essere amplificato e distorto, come pure la modernità accusata spesso di essere decadenza dei costumi e serbatoio di corruzione.


(*) In quella edizione della Mostra 1997, diretta da Felice Laudadio, sono stati selezionati, nella sezione Mezzogiorno: 100% Arabica  con Khaled e Cheb Mami di Mahmoud Zemmouri (Algeria / Francia)Bent familia di Nouri Bouzid con Leila Nassim (Tunisia); Cinque giorni di tempesta di Francesco Calogero con Roberto De Francesco, Amanda Sandrelli e Chiara Caselli (Italia); The locusts di John Patrick Kelley con Kate Capshaw e Ashley Judd (Usa); Go for Gold di Lucian Segura con Lars Rudolph e Maria de Medeiros (Germania, Spagna, Francia); Im namen der unschuld (In nome dell'innocenza) di Andreas Kelinert con Barbara Sukowa (Germania); Kokkuri di Zeze Takeshi con Ayumi Yamatsu (Giappone); The civil second war di Joe Dante con Beau Bridges, Joanna Cassidy e James Coburn (Usa); True love and chaos di Stavros Andonis Efthymiou con Naveen Andrews e Miranda Otto (Australia).


(1) Si tratta di una espressione sarcastica popolare contro la casta e la dittatura. Letteralmente, in arabo, la frase significa: "Abituati (daiamuna) al potere (karasi)". 

Nessun commento:

Posta un commento