martedì 4 aprile 2017

Elle di Paul Verhoeven. Histore d'Oh. Attenti ai suoni



Roberto Silvestri

Era il film più atteso di Cannes 69, anche per le polemiche che tutti si aspettavano si scatenassero, tirando in ballo immancabilmente “le femministe”, come se esistessero in blocco compatto. Ma tutto è poi andato liscio come l’olio, tra premi e riconoscimenti critici unanimi, o quasi.  Elle, il venticinquesimo del cineasta olandese Paul Verhoeven - come Fritz Lang, è tornato a lavorare in Europa (Blackbox)  dopo 15 anni di Hollywood – ha però avuto, come spesso succede,  non poche difficoltà a riambientarsi. E ha girato in patria poco, solo Tricked, un film televisivo “partecipato”, molto interessante, visto nel 2012 al festival di Roma di Mueller, dove ha utilizzato le due telecamere a spalla parallele, come in questo film, per dare una fotografia non leccata, luci brutali, e movimenti bruschi da voyeur, specialità di Stéphane Fontaine (Il Profeta).  


Nervoso in occasione del suo primo film francese, nonostante avesse alle spalle da una parte i grandi progetti e incassi di Robocop, Total Recall, Basic Instinc, Showgirls, Starship Troopers…e dall’altra un passato olandese (25 anni) fatto di piccoli film superpremiati nei festival come i radicali, scandalosi, stracult futuristi Spetters, Flash+Blood, Soldato d’Orange e Il quarto uomo, Verhoeven è stato poi pienamente soddisfatto della qualità del lavoro di set e degli attori e del rispetto inusuale, dell’amor fou che hanno in Francia per ogni metteur en scene. Attesa ben ripagata, infine, dal risultato positivo, dagli applausi in sala e dalle reazioni durante e dopo la proiezione di questo psycho-thriller né francese né americano né all’italiana.


Opera davvero ibrida e finalmente bastarda, che ci trascina, attraverso la sequenza dell’emissione televisiva “Fasites entrer l’accusé” fino in Norvegia, perché Dijan si è ispirato al serial killer Anders  Behring Breivik e poi in Spagna, dietro la bigotta Rebecca, che va in pellegrinaggio al santuario di Compostella.

Oltre che illuminata dalla perfetta interpretazione della protagonista unica, una scatenata Isabelle Huppert, al massimo della forma e data da tutti gli scommettitori (perdenti) per vincitrice della Palma (ma risarcita da un Golden Globe, successivamente). Forse perché ha vinto sempre e troppo….  “Cos’è lo humor? Una tragedia raccontata come se fosse commedia”. Diceva Kieslowski. E il tono da commedia, non solo in Europa, è raro da catturare per una attrice, quando il dramma è serissimo. E il punctum, il centro del soggetto, è addirittura lo strupro plurimo. “Nessuna attrice americana avrebbe mai accettato di girare questo film, che volevamo ambientare a Boston o a Chicago”, ha precisato Verhoeven. E ha aggiunto: “Isabelle invece non ha paura di niente, non si fa mai un problema, vuole provare tutto, è di una audacia fenomenale”.


Elle, assieme a Paterson di Jarmush e a Mademoiselle di Park Chan Wook, è stato il film in competizione ufficiale che mi sarebbe piaciuto rivedere subito, almeno una seconda e terza volta di seguito, cosa che ormai a Cannes è diventata impossibile, perché quando ci si inebria di gigantismo si stipa all’inverosimile il programma, non si permette più a tutti  di vedere ciò che si vorrebbe e dunque si… rischia di entrare in crisi di crescenza e di “morire”. Soprattutto adesso che vuole entrare perfino in competizione con Lille per strappargli il festival delle serie tv. Una sindrome da gigantismo che potrebbe davvero essere pericolosa.




E i tre film erano accomunati dalla presenza dominante, egemonica, di personaggi femminili che alla fine non verranno nemmeno puniti per la loro intraprendenza e forte soggettività (forse è per questa impertinenza, chiamata dai borghesi trash, rispetto all’immaginario perbenista, che questi film non sono stati premiati). E’ stata la Cannes delle donne (e se ci pensate bene, anche i David di Donatello sono stati quesy’anno dei David di Donatella). Si è scritto. Ma per metà è stata la Cannes delle donne da abbattere, punire, contenere, tutelare, trattare paternalisticamente. Dall’alto. Non qui. 


Paul Verhoeven (che ha chiuso la competizione di Cannes 69) ha fatto un film su commissione ma non è riuscito a girare in California, come inizialmente previsto, la versione cinematografica, sceneggiata dall’americano David Birke, di un best seller francese, Oh… di Philippe Djian, propostogli da Said Ben Said, uno dei nostri produttori franco-maghrebini preferiti (la sua filmografia comprende opere di Polanski, Philippe Garrell, Pascal Bonitzer, Cronenberg, Walter Hill e Barbet Schroeder). Troppo moralisti in America? Piuttosto troppo abituati a vedere ben differenziata l’area del bene da quella del male e a degradare le tragedie in melodrammi, che, per quanto agitati o dinamici, siano rispettosi del genere. Quando si fa un po’ di confusione a questo proposito il consumatore statunitense si confonde e passa parola. E i critici (ipersensibili alla ricezione in sala) scrivono nel verdetto l’aggettivo controverso, che è veleno al botteghino (a Showgirls applicarono la stessa funesta etichetta…). Significa che le risposte che il film dà ad ogni perché non sono semplici, lineari e convincenti. Lasciano zone dark inquietanti. Figuriamoci poi se avessero lasciato come titolo Oh… che fa troppo Histoire d’Oh.


Se lo raccontate così, il film, effettivamente, è più che controverso: una manager parigina nel settore dei video-games, che tiene al guinzaglio una ventina di giovani nerd scatenati, tra geni della computer graphic, della scienza ludica e della programmazione, e ha una vita sessuale piuttosto disinvolta, una mamma scatenata e un figlio adulto non proprio semplice da gestire, viene perseguitata da un maniaco violentatore che si introduce, e più volte, nella sua ricca casa a tre piani, picchiandola e stuprandola, sia nei piani di sopra che in quelli di sotto. E invece di denunciarlo subito, comincia a instaurare con lui un gioco perverso, a distanza ravvicinata, che è anche sado-maso e cruento.



Ma non si deve raccontare così il film. Piuttosto così: perché nei primi due stupri la musica di Anne Dudley (compositrice inglese) che confligge con l’azione è elettronica e contundente mentre quella nei sotterranei è orchestrale e a spigoli smussati?

Elle è Michéle, che gestisce affari giganteschi e vita sentimentale con la mano di ferro. Come un uomo, più di di un uomo. Ma se l’aggressore sconosciuto - contro il quale le armi di risposta potrebbero essere un’ascia e uno spray urticante al peperoncino che ti lascia cieco per mezzora - risulta poi essere qualcuno che ben si conosce, anzi che piace, ci si masturba al solo vederlo passeggiare nel marciapiede di fronte, le cose sono molto più complicate di come sembrano.

il regista Paul Verhoeven
A differenza di qualunque film di Asghar Farhadi, qui infatti il non ricorso alla polizia, la non denuncia immediata, non viene motivato dalla sottomissione della donna alle leggi degli uomini (o peggio dalla misericordia femminile che va molto più in là dell’ipocrisia conformista maschile) ma ha una giustificazione scritta più che convincente. Michéle ha infatti il padre in galera a vita perché a Nantes, tanti anni prima, quando lei aveva dieci anni, ha ucciso più o meno tutto il vicinato, una dozzina di persone, bambini inclusi, in un momento di pazzia ben pianificata. Insomma è un serial killer. Michéle non lo vorrà mai più vedere nella vita. E la figlia di un serial killer, dopo quello che ha passato (ma la sequenza di questo devastante racconto autobiografico, sopra le note di una Messa solenne,  è di una leggerezza insostenibile, se non ci fossero le spalle  di Isabelle Huppert a sostenerne il tono lieve)  preferirebbe certo non incrociare mai più nella vita né papà, né i mass media né l’opinione pubblica né un solo poliziotto. Cosa improbabile perché anche quando è al caffè incrociare un parente delle vittime o su un muro una scritta che la riempia di insulti è la norma.  Ma non è solo il trauma infantile, post hoc ergo propter hoc, non è solo il particolare caratterino di Michéle a spiegare tutti i comportamenti e le intenzioni del suo personaggio. Che non sempre sono chiari, e che spesso intrecciano realtà con sogno. E spiazzano molto. 

Come avveniva in Total Recall quando l’onirico spintonava il verosimile. Eccita di questo personaggio complesso la sua radiante ambiguità. Cosa si nasconde dietro quel viso sorridente nei primi piani (come nella scena finale, metafisicamente corretta) e quell’aggressività spontanea e diretta, nei campi medi, nei piani americani, rispetto alla mamma, all’amante, ai dipendenti, al figlio, all’amica del cuore, col cui marito scopa e glielo dice, e alla fidanzata del figlio? Si impara in questo film qualcosa che – ci spiega il regista – si ammira nei quadri di Turner. Nei campi lunghi la violenza, il disastro, la catastrofe, la distruzione, sono sublimi. Ma avvicinandosi al primissimo piano, sono davvero orribile. Inizia così la “partita a scacchi” tra lei e il pubblico, con Verhoeven che cerca sempre, come in una partitura del suo amato Stravinsky, di sorprendere lo spettatore grazie a improvvise “mosse del cavallo”. Per tenere sempre alta la tensione Verhoeven gioca di similitudine tra il dramma vissuto da Michéle e il videogame che sta producendo, a metà tra gioco e porno, tra avventura e orgasmo. Quel che chiede ai suoi ragazzi è  quello che pretende dal suo corpo. Più eccitazione, più fantasia visiva, più raffinatezza nella illustrazione del piacere. “Tu sei troppo letteraria”, le rimprovera l’enfant prodige del gruppo. Non capisci niente del gioco agonistico. Lei gli fa capire come nel video gioco anche la violenza non deve essere meccanica. E lo spinge a fare di più, molto di più.  Infatti saranno loro due, lui e lei, a produrre gli orgasmi, live e digitali, animati o flagranti, più esplosivi e multipli. Nella storia dell’industria digitale e in quella di Michéle. 
              

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