mercoledì 10 giugno 2015

Fury. La Furia subumana. Contro l'ex film del momento (ora c'è Jurassic Park)





di Roberto Silvestri


Merkava contro Panzer

Questa volta sì. Vi sentirete più orgogliosi di essere americani dopo aver visto l’elogio del carro armato, Fury. Ma non perché la seconda guerra mondiale fosse una guerra giusta. Come diceva Sam Fuller, l’ultima guerra giusta.  Ma perché in fondo piace a molti l’odore del napalm la mattina, tra un surf e l’altro. Perché è affascinante perdere se stessi, la propria umanità, moralità e fede. Perché tanto se vinci la guerra, poi, te le ridaranno tutte queste cose. E loro le guerre le vincono tutte. Applichiamo questo schema al capitalismo e scopriremo il perché della mancanza in America del servizio nazionale sanitario per tutti. Anche i poveri preferiscono non averlo. Se no come faranno a conquistare il Paradiso? E’ una impresa solitaria, non collettiva. E’ un bene privato, non comune. 
Invece. Non si spara mai a un uomo o a un paese disarmato. Se si vuole “stare dalla parte giusta della Legge” - morale e qualche volta anche scritta, come avrebbe detto Doc Holliday, la vendetta privata non è mai ammessa. I giustizieri della notte sono “impresentabili”.
Ma è stata riciclata recentemente una scappatoia antica al rovello morale che è al centro del peggiore filone wasp del cinema hollywoodiano. Si può applicare al porno come all’horror, alla fantascienza come al war-movie, al melodramma come alla commedia. Si va giù con le brutalità e le abiezioni più terrificanti - che in confronto La Pelle di Malaparte-Cavani sembra un minuetto - quelle che fanno molta cassetta, e poi si attende l’arrivo della giustizia divina a distribuire le colpe e a emettere il verdetto e l’happy end.
E se dessimo all’uomo quel che è dell’uomo e a dio quel che è di dio? Se una cosa è il mondo ed esserne schiavi e un’altra rinunciare al mondo ed essere salvi? Il finish religioso (anche un po’ buddista), in questo caso al blockbuster di guerra (studiata combinazione di violenza, fratellanza, sacrificio, redenzione accompagnata da dialoghi che saltano all’occhio, personaggi accattivanti come in un bachelor party, accuratezza storica…)  ha antiche origini e un grande obiettivo… Il profitto si fa con la brutalità più estremista che gli occhi del pubblico amano divorare (il mondo) e dopo l’apocalisse arriva alla fine la salvezza eterna. E non è detto che la salvezza eterna, se non proprio il trionfo sulla Quinta Strada non sia per i più brutali e vendicativi, a spulciar bene la Bibbia come si fa in questo Fury che ruba il titolo proprio alla scrittura sacra (Ezechiele, 25:17 “la grande vendetta e la furiosa rabbia”). In Fury un individuo della nostra società contemporanea, uno di noi, si scontra con una solida cornice di valori universalmente accettati. E lì, accanto al conflitto armato sorge parallelo un conflitto umano, individuale, emotivo parallelo. “Qualunque film di guerra è un vivaio – diceva Kubrick – che favorisce la crescita rapida e forzata di atteggiamenti e sensazioni. Gli atteggiamenti si cristallizzano. Il conflitto è naturale, mentre in una situazione meno critica sarebbe un espediente forzato e falso”.  Il fatto è che questo individuo, uno come noi, alla fine viene risucchiato nel conformismo e nella tossicità della febbre bellica. Perché adesso non allora sono i professionisti a combattere. Quelli pagati tanto a cadavere. Sartre scrisse proprio nel 1944 il dramma A porte chiuse che poi divenne film (lo doveva fare Genina ma poi lo ha diretto Jacqueline Audry. Per Sartre l’uomo che si contrapponeva alla scienza e alla tecnica non era condannato a essere libero, solo, chiuso in se stesso, murato nei limiti angusti della sua finitezza, abbandonato alla sua unica condizione, che è quella di essere libero? Ebbene quel dramma invece del portello chiuso ha la porta. Ma si svolge anche quela aziene all’inferno. Un inferno che è una camera d’albergo, in cui viviono tre personaggi assortiti e inassociabili tra di loro. Ognuno è l’inferno per gli altri due. Per Sartre la colpa, la vergogna, la stessa coscienza non esistono se non in quanto esistono gli altri. Dai quali siamo inseparabili, perché non possiamo smettere nemmeno un istante di combatterli, per togliere loro la libertà e asservirli al nostro io, e senza dei quali non possiamo sapere nulla, né nulla risolvere circa noi stessi. In terra ci sono soste e tregue (il sonno, la fuga, il silenzio, la meditazione, le menzogne, il sesso, l’ipocrisia, l’adulazione) ma nell’inferno non c’è difesa o evasione possibile. Né sonno né parole, né sesso. L’inferno è lo sguardo. E anche la soluzione di uccidere o di uccidersi è inutile. L’inferno è l’eterno ritorno degli stessi problemi, delle stesse sensazioni, degli stessi misteri, della stessa angoscia. Ecco un film ambientato nel sommergibile o nel carro armato richiama un po’ questa situazione esistenziale sartriana. Uccidersi o uccidere.

Logan Lerman, il roukie e Brad Pitt, il veteralo
Ma torniamo un po’ meno indietro nel tempo.
Qualcuno si è lamentato perché American Sniper esaltava scandalosamente lo sciovinismo Usa di un campione di tiro al bersaglio del patriota arabo (il siriano internazionalista, ex campione olimpionico), oltretutto guardia del corpo fascistoide di Miss Palin. Io penso che non lo glorificasse affatto. Lo vivisezionava, analizzava impietosamente, certo, e perfino con lo zoom.
Perché peggiori dei veri cattivi (perfino di Hitler) sono i nostri lati dark che eseguono quello che i potenti cattivi vogliono. Per servilismo? Opportunismo? Masochismo? Erotismo del leader carismatico? Vanno messi bene a fuoco questi sentimenti e queste intenzionalità in un film che faccia critica dell’immaginario e non apologia dell’esistente. Eastwood lo ha fatto uscendo dallo stereotipo del cameratismo implicitamente omosessuale del bivacco prima dell’attacco. Andando molto più in là del solito piagnisteo generico e umanista sugli orrori della guerra. Bigelow non è passata invano. Non ho mai visto niente di simile dopo quei documentari che Huston faceva tra i reduci con il cervello fritto al ritorno dal fronte del Pacifico o da Auschwitz.
Ma le guerre dopo altra cosa. Non si fa la guerra in Afghantistan e in Iraq per occupare posizioni strategiche o conquistare pozzi petroliferi. E non si fa mistificandola dietro la fantomatica guerra santa al terrorismo islamista. I cattivi erano dunque Bush jr. (o la Spectre che lo manovrava) i suoi alleati e i suoi apparenti  nemici terroristi che stavano facendo, per lui, il lavoro, sporco ma utilissimo da guida indiana. Sempre pronti ad essere eliminati, a tempo debito, quando diventano inutili, come è stato fatto con altri alleati, da Saddam a Noriega, da Ben Alì a Gheddafi, da Mubarak. E si farà con l’Isis. Ma la seconda guerra mondiale aveva una causa così giusta e un nemico aberrante, tanto che perfino Stalin e Roosevelt divennero qualcosa di più che semplici alleati!  


Le cose si complicano con la crescente esaltazione ghignante del Cattivo, del villain, del malvagio, del marciume che ci circonda tanto non possiamo farci niente. L’adorazione della malvagità è malattia virale inguaribile della contemporaneità, quasi una religione che ha i suoi devoti nella confraternita degli anti-buonisti fanatici, d’oriente e d’occidente (perché se no Salvini e i barbudos dell’Isis, stessa faccia stessa razza, crescerebbe nei sondaggi?).
Costoro troveranno il loro vero film d’affezione in una operazione simile e contraria ad American Sniper, appunto nel war movie Fury, uscito nelle sale nordamericane nell’ottobre del 2014, e con un successo decretato proprio dal pubblico che più restò imbarazzato dalla spudoratezza e dal candore di Clint Eastwood. Uno spettro si aggira per il mondo. Si chiama cameratismo maschile. E produce testosterone atomico (da testicoli).
Tutto l'equipaggio al lavoro
Cinque soldati americani della Seconda Divisione Corazzata in Germania nelle ultime ore della seconda guerra mondiale, fronte tedesco, aprile 1945. Dentro un carroarmato M4 Sherman, quattro veterani ormai postumani che le hanno viste e fatte tutte, e un quinto, Norman Ellison, ex dattilografo da fureria, rimpiazzo di un mitragliere morto, classico pivello imberbe da svezzare a forza di Fuck! Kill! Drink!  Il quintetto sembra proprio un amalgama da Ghostbusters, o un direttorio del Pd o una band-rock: l’espertone, il leader quello che “ti seguirei all’inferno” (Brad Pitt); il mistico che cita sempre la Bibbia Boyd “Bible” Swan (Shia LaBeouf); l’etnico-ispanico Trini Gordo Garcia, cui è vietato perfino parlare spagnolo (Michael Pena); lo sfacciato, difficile da controllare ma meccanico divino  Grady “Coon-Ass” Travis (Jon Bernthal) e il roockie Norman Ellison, estremamente femmineo (Logan Lerman). L’anima bella non sopravviverebbe all’esperienza di uccidere se non ricevesse una traumatica iniziazione all’orrore massimo. E si trasformerà in puro animale da caccia. Sarà il sergente maggiore, il capo, l’uomo esperto di cui tutti si fidano, la macchina perfetta da combattimento, a impartirgli quella lezione fatale. E’ Don WarDaddy Collier (Brad Pitt), che cerca di rifare Lee Marvin o Ernest Borgnine, ma non sa tracciare alcuna differenze tra il clima “lisergico e satirico” della sua missione con la mazza da baseball ammazza crucchi in Inglorious Basterds, e l’americano consacrato da George Bush jr. quando, mano sulla Bibbia, aizza alla guerra infinita senza pietà contro i terroristi senza vero dio. Vinceremo! Il desiderio di tornare a casa con la valigia piena di scalpi fa luccicare gli occhi del sergente Collier, in una imitazione pallida del Lupo di Wall Street che ha appena piazzato titoli spazzatura. Uccidere nazi sembra quasi un affare che rende bene.
Certo. Ogni film storico in costume mal dissimula costumi morali e cronaca politica dell’epoca in cui il film è fatto e che emergono, in sovrimpressione, dai fatti di cui si parla. In questo caso siamo non più nel 1945 ma in pieno 2013-2014 (ottimi gli incassi, quasi 230 milioni di dollari, e arriva in Italia buon ultimo) e ci muoviamo cioé nei paraggi di American Sniper, fresco di meditazione individuale sulla necessità o meno di sparare ai bambini o ai civili, magari palestinesi, perché tutti, quando il fanatismo impera, sono potenziali corpi-bomba. Dunque non rompeteci con tutte quelle statistiche sui civili vittime di guerra, dice il cecchino e Clint Eastwood lo prende di mira con la sua cinepresa e lo riporta alla famosa Etica di Norimberga. Ci sono ordini che ci arrivano da ben più in alto o da ben più in basso, a secondo se si è credenti o meno, del Fuher. A loro bisogna rispondere e non al superiore nelle gerarchie militari. Si chiama coscienza. E anche coscienza di classe. Due entità preistoriche, sembrerebbe.  Ed ecco invece Pitt ammonire quasi demonacalmente il soldato Norman (che, peggio ancora, è un intellettuale, addirittura un pianista classico): i nemici armati vanno sempre uccisi; i bambini e le bambine con la divisa vanno sempre sterminati; gli ufficiali prigionieri vanno sempre giustiziati, con un colpo di pistola alle spalle; le donne vanno sempre scopate (meglio se con classe per non fare come i buzzurri violentatori sovietici se no sembriamo tutti Pol Pot!). Niente convenzione di Ginevra, dove orrore vige. Sono SS! Se non fai così muori. Se non apprendi la lezione non sopravviverai mai. E soprattutto ci farai massacrare. E non c’è niente di più emozionante dello “spirito da spogliatoio” di un carroarmato. Il film aderisce a questo slogan omocentrico con sempre maggiore gusto e con retrogusto inquietantemente religioso. E secondo me lo spirito è anche un po’ da revisione del verdetto severissimo contro i responsabili americani della strage di Mi Lay in Vietnam. “Altro che civili, erano terroristi travestiti….”.
Hitler (fuori campo) pretende, nel frattempo, che tutto il popolo combatta e muoia per lui. Donne vecchi bambini. Chi si rifiuta è un traditore e va impiccato. Prima ancora di arrivare a Mathausen il nostro equipaggio deve così farsi largo tra villaggi infidi e corpi appesi sui piloni più alti, spezzoni di un esercito ancora coriaceo (sono tedeschi), generali che si suicidano dopo l’orgia nel bordello di prammatica e panzer nazisti, molto più veloci e potenti come si ammirerà in uno dei duelli finali (l’acme da videogame del film). Sono i King Tiger da 70 tonnellate, e incombe addirittura la minaccia che appaia da un momento all’altro un Sdk.Fz 205, il famigerati Maus. Topolino contro il Big Topo. Non c’è partita.
Il regista David Ayer a sinistra con Brad Pitt sul set di Fury
I 4 moschettieri veterani e nichilisti dopo aver superato tutti i gironi dell’ inferno bellico, dall’Africa alla Sicilia, dalla Normandia al Reno nella scena più imbarazzante del film, l’iniziazione sessuale del ragazzo vergine, trasformano la brutalità così tanto decantata e che li ha resi comportamentalmente torbidi, in un ipocrita balletto romantico sentimentaloide, peggiorato dall’uso della cantata in lingua tedesca che farà cascar la gonna della ragazza prima ancora della ripetizione del ritornello. Insomma  Fury non solo non è Lang, ma non riesce neppure a rievocare Attack! di Robert Aldrich o Orizzonti di gloria e Full Metal Jacket di Kubrick (sull’idiozia criminale dei generali i primi due e dell’aggressione orribile del Vietnam il terzo) ma anche l’inanellar di suggestioni tratte da Rommel la volpe del deserto, Il giorno più lungo, The big red one e Salvate il soldato Ryan è un congiungere i soliti riferimenti ad effetto come il mare diventato rosso per il sangue o i chilometri e chilometri di cavalli feriti, fatti fuori uno a uno per non farli soffrire di più. E qui credo che lo sceneggiatore e regista David Ayer, che ha fatto il militare nei sommergibili e ha esordito con un film sui sottomarini tedeschi, U-571, si confonda con la prima guerra mondiale per colpa di Spielberg e di War Horse. Il tutto per dichiarare un grande sì alla guerra. Uccidere e distruggere il nemico e le sue città senza pietà è il “mestiere più bello del mondo”.
Fury insomma non mi piace per niente. Devo però avere seri dei problemi con i film che si svolgono dentro i carriarmati. Molto più del filone sommergibili (di cui Walter Chiari faceva deliziose parodie il sabato sera in tv) quelli stipati nei tanks, se non sono in odorama, estremizzandoin questo caso  esperienze olfattive degne di John Waters, risultano kammerspiel ancora più claustrofobici e soffocanti. Per esempio nei duelli, così pesanti. Sarà poi colpa di Lebanon, scritto e diretto nel 2009 da Samuel Maoz e che ha pure vinto il Leone d’oro glorificando le coraggiose avventure di quattro carristi israeliani spediti a bombardare oltre confine e che non vedi l’ora che venga colpito in piena fronte da un missile hezbollah. Trasudava sciovinismo da tutti i cingolati quello spottone pubblicitario in omaggio al vanto nazionale israeliano, il carroarmato Merkava, col blocco motore anteriore, tutto costruito solo da Tel Aviv, made in Israel,  e che ha un nome interessante. Merkava vuol dire Carro di fuoco, e il riferimento biblico è al profeta Ezechiele. Ebbene Ezechiele è super citato in Fury per il suo spirito guerrafondaio. Il film per ironia della sorte è stato girato nell’Oxfordshire, in Inghilterra e ripreso da Roman Vasyanov con i colori dei cinegiornali d’epoca, nello sforzo di nascondere obiettivi più attuali. Un ulteriore motivo di disturbo è la musica di Steven Price che non ha il coraggio di combattere prepotentemente per farsi ascoltare, come la cavalcata delle valchirie di Apocalypse now o gli inni patriottici più sfacciati di John Williams in Private Ryan o il sitar dei Rolling Stones di Paint’it Black. E riesce ad essere ancor più retorica e patriottarda.

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