sabato 17 febbraio 2018

Samba Traoré. Il senso di colpa che maledirà Compaoré




di Roberto Silvestri 


SAMBA TRAORE’
Idrissa Ouedraogo, Burkina Faso 1993

Ouagadougou, ai giorni nostri. Samba Traorè, giovane contadino che odia la campagna, e un suo amico d’avventure metropolitane, pistole in pugno, rapinano di notte un distributore di benzina. Il colpo è fortunato solo per Samba. Il compagno viene colpito a morte. Samba fugge al villaggio natio, e sfoggia i contanti.
L’inizio è da thriller Usa, quasi a velocità De Palma. Poi il film si snoda in più calmi quadretti-strips, ora buffi, ora poetici, ora da incubo… Samba, fortunato anche nel gioco d’azzardo (lascia letteralmente in mutande un altro suo amico del cuore, giocatore di strada e marito di un tenero donnone) apre – anzi fa costruire pietra su pietra – un bar, conquista la più bella della zona, la sposa e diventa il buon papà, affettuoso, della figlioletta di lei, divorziata, cui racconta tante belle fiabe. Ma il rimorso (dell’amico morto più che dei soldi sporchi) scava lentamente (soprattutto di notte, nelle ore diaboliche dei sogni) e sbuca sempre più insinuante la perplessità dei suoi ‘amici’: da dove vengono tutti quei soldi? Il terrore di essere arrestato fa precipitare la tragedia. L’ex marito della moglie, percosso per gelosia, giura di vendicarsi. E lo farà… Ma Samba riuscirà a punirsi da solo. Abbandona la moglie partoriente mentre si avvicina all’ospedale della capitale, dove potrebbero accoglierlo le manette. Non si lascia così una donna amata… A quel punto anche i sassi comprendono la sua vera indole. La polizia viene informata e si avvicina. Il padre di Samba, infuriato, brucia le prove, i frutti e i proventi del misfatto. Fuoco purificatore alla Hawks, alla Corman. Samba Traorè è stao il primo film africano sub sahariano lanciato nel nostro paese non in stile apartheid. 
Lo ha scritto, diretto e coprodotto nel 1992, in stupefacente bilico tra tragedia e commedia, farsa e gangster movie, Sankara e Compaorè (i due amici rivoluzionari burkinabè che poi si sfidarono all’Ok Corral; e ha perso il migliore), uno dei più grandi cineasti francofoni viventi, Idrissa Ouedraogo, classe 1954, di Banfora, studi a Parigi e Kiev, il fiore all’occhiello della giovane generazione nera, documentarista, regista di cinema, di teatro (ha messo in scena un fondamentale Toussaint Louverture a Parigi, dedicato al nero che sconfisse le truppe napoleoniche nel 1804 guidando a Haiti la prima rivoluzione proletaria della storia) e di televisione, drammaturgo dalle idee narrative, ritmiche, spazio-temporali e gestuali originali e avvincenti.
Samba Traorè  è il suo quinto lungometraggio (La scelta, Yaaba, Tilai, Karim e Salah) e, dopo il premio a Cartagine ’92, è stato presentato in competizione a Berlino ‘93. Lo stile cinematografico cristallino e ‘senza errori’ di Ouedraogo, mai una parola di troppo, mai una ripresa gratuita, un reticolo scientifico di sguardi, una geometria implacabile, quasi optical-art, di orizzonti e linee verticali, questa volta non addormenta la tensione sperimentale (come successe soltanto a Tilai, il suo unico ‘saggio’ quasi accademico).
Commedia, giallo, avanspettacolo, Shakespeare, politica e dibattito etico sui valori fondamentali della vita si passano il testimone, come a teatro col cambio scena. In una sequenza si finisce, attraverso il passaggio di un pallone da football, con campo/controcampo ardito, all’occhio glaciale del padre di Samba che ha trovato il revolver nella valigetta del figlio (ma chi permette, di nuovo, lo strapotere dei capi villaggio?).

Certo la morale finale potrebbe apparire, a torto, un po’ da parrocchia. Cioè: non si può costruire niente di buono su un gesto di violenza attiva. Cioè: se è malandrino Samba Traorè, perché rapina e mente, per ottenere potere, figuriamoci l’attuale dittatore-presidente burkinabè, Blaise Compaorè, che ha rapinato il potere per conto delle multinazionali. Che poi, in questo caso, è anche il vero responsabile del dramma della moglie di Samba. Dove sono, infatti, i telefoni per chiamare le ambulanze? Dove le strutture ospedaliere periferiche in un paese che è per il 95% agricolo? ‘E’ un film sulla colpa, sul passato che perseguita l’uomo e che sempre riemerge. Il passato torna sempre, implacabile. Ho voluto sviluppare la sensazione di permanente pericolo connessa alle colpe legate al passato: la sanguinosa rapina che aveva portato alla morte del suo complice e amico’, spiega Ouedraogo. E la metafora colpisce infatti di più, come un uppercut, sia lo stomaco dell’attuale president
e che l’assassinato ex presidente Thomas Sankara, reo di essere stato militare, di essere andato al potere con un colpo di stato e secondo Idrissa Oudraogo poco interessante anche quando tentò di inventare, primo e unico presidente ‘settantasettino’, il socialismo ‘in un solo senso’. Quello dell’humor.



giovedì 15 febbraio 2018

"Cento anni" di moltitudine ingannata. Il nuovo film di Davide Ferrario all'Apollo 11 di Roma



Venerdì 16 febbraio all'Apollo 11di Roma proiezione, alla presenza dell'autore, di Cento anni, il nuovo straordinario documentario del cineasta, critico e teorico Davide Ferrario (nella foto). Il film è uscito nelle sale nel dicembre scorso ma meriterebbe un nuovo giro nei cinema liberati d'Italia. Fatevi sotto.



di Roberto Silvestri

Gli archivi del Luce, che custodiscono la parte più cospicua del patrimonio documentaristico nazionale, da qualche anno sono stati messi a disposizione dei cineasti italiani che li stanno riattraversando e studiando trasversalmente e coMario Brunello suona Havun Havun, un’antica melodia armena, all’Ara Pacis di Medea (GO), mentre scorre un montaggio di immagini di cimiteri e sacrari della Prima Guerra Mondiale.n sguardi dissonanti grazie anche a finanziamenti pubblici crescenti e alla distribuzione Rai Cinema, almeno in questo caso, visto l'interesse nostalgico/politico del pubblico per il ripescaggio e rimontaggio dei materiali di repertorio. Stiamo perdendo la memoria. E aiutano i recenti incontri tra Tatti Sanguineti e Andreotti, Giorgio Treves e Rondi, Carlo Di Carlo e “lo stile Luce”, fino a 9X10 Novanta, il lavoro collettivo firmato dai “novissimi” (Marazzi, Quatriglio, Rorhwacher, Marcello, Piperno e altri) in occasione del novantesimo compleanno dell'ente.
Ma questa volta si cambia passo e si rompono platealmente le righe, più sfrontatamente che mai. Perché Davide Ferrario, che non smette mai di alternare film di finzione molto ben documentati, con film-saggio ad alto quoziente emozionale, indica i veri nodi irrisolti di un immaginario educato con le cattive a non scioglierli mai. In Cento anni , presentato in anteprima all'ultimo Tff, mette in suggestiva prospettiva, a cadenza sincopata, alcuni avvenimenti salienti e significativi della nostra storia, mai messi insieme, partendo proprio dal centenario della grande disfatta militare, Caporetto, 24 ottobre del 1917, luoghi e racconti di profughi, orfani e prigionieri. La Resistenza e le antiche vicissitudini famigliari di Massimo Zamboni (ex CCCP e CSI). La strage di piazza della Loggia a Brescia. Lo spopolamento del Sud oggi, con il poeta Franco Arminio, in viaggio tra Irpinia e Basilicata che racconta la distruzione delle comunità montane. 



Il soggetto è di Giorgio Mastrorocco con cui Ferrario ha realizzato una trilogia sulla storia italiana completata da Piazza Garibaldi (2011) e La zuppa del demonio (2014). Materiali della memoria incandescente, dunque, che si aprono ad altro. A cominciare da Mario Brunello che a inizio film suona Havun Havun, antica melodia armena, all’Ara Pacis di Medea (Gorizia), mentre scorre un montaggio di immagini di cimiteri e sacrari della Prima Guerra Mondiale, ricollegando poi la ricezione al biennio anti rosso 1920-1921 dello squadrismo criminale protetto dal re, che spianò la strada al fascismo (Minniti, ristudiatelo prima di definire “teppisti”); alle “volanti rosse” del secondo dopoguerra che cercarono di purificare, in malo modo, i resti coriacei del fascismo nelle istituzioni democratiche a venire; allo stragismo e alla desertificazione delle campagne e del sud....Una stessa strategia. Attenzione, adesso alle imminenti elezioni. Chissà se il Piave mormorò davvero: “Non passa lo straniero”. E quello straniero era l'austriaco o il bolscevico o il nigeriano?
Oltretutto siamo ancora in pieno shock nazionale per l'eliminazione della Nazionale dalla coppa del mondo di calcio... Ma, solo chi cade può risorgere. Disastri coloniali (Adua) e postcoloniali (Somalia e Libia), economici (le macerie del secondo dopoguerra e il falso boom), politici (il fascismo e il berlusconismo colluso con la mafia, vedi Dell'Utri), culturali (gli anni plumbei della Dc e delle censure e della sessuofobia maschilista), hanno dimostrato (in questo film, non altrove) che questa Italia abbattuta e sconfitta sa anche resistere e riscattarsi (divorzio, aborto, sessantotto, 77...). Ma non è solo questo il taglio del lavoro, diversamente commuovente, di Ferrario. I disastri patrii sono per lo più analizzabili, in tutto il mondo. Particolarmente nel caso delle strategie belliche di un generale come Armando Diaz. Ma il caso Italia scodella troppe sconfitte misteriose, debacle criminali senza colpevoli, mandanti e autori materiali. A partire dagli orrori coloniali e dalla macchina razzista che inquina ancora il nostro inconscio collettivo (pronto a inneggiare al pistolero giustiziere e a terrorizzarci con il cannibalismo atavico degli africani). O, più vicina a noi, a partire dalla bomba nella Banca dell'Agricoltura, prima di una lunga serie di attentati fascisti contro civili e sindacalisti. Nessun tribunale della giustizia e della riconciliazione è stato istituito, come in Sudafrica o in Ruanda, in questi 50 anni italiani, per rifondare il patto che, tra dominanti e dominati, come era, dovrebbe finalmente trasformarsi nel sistema di regole democratiche tra governanti e governati. Tra le due Italie. Indagando meglio sul ruolo di organizzazioni criminali protette come la P2 e Gladio e sulle tecniche di depistaggio delle attività delle forze dell'ordine e dei servizi segreti, carabinieri in primis, visto il caso Cucchi, Ilaria Alpi, Sgrena.,... Di questo si parla in questo film, diviso in quattro parti. 85 minuti, in bianco e nero e a colori. A cosa servono i morti se non a vendicarli? Spettri di Marx, direbbe Derrida, evocandoli. Un po' di scienza sarriana è richiesta. Se le sconfitte non vengono ben studiate alla moviole, potremmo davvero sprofondare tutti nel baratro. Altro che retorica. Ferrario in questo film urla dissonante, è a livello Joe Strummer.


The Post. E' Spielberg, bellezza




mariuccia ciotta

Prospettiva rinascimentale, lo spazio si perde in fondo alla stanza, campo lungo, messa a fuoco di una molteplicità di figure... non solo il direttore del Washington Post Ben Bradlee (Tom Hanks) emerge nella luce grigio-azzurra, ma i fantasmi della New Hollywood richiamati da Steven Spielberg per un episodio storico che sta al Watergate come Dunkirk allo sbarco in Normandia.
Fatti oscurati dai grandi avvenimenti ma che risulteranno determinanti. I Pentagon Papers, 1971. Eppure il regista di Sugarland Express non si perde nella nostalgia di quelle redazioni fumose con il ticchettio delle macchine da scrivere e le fragorose rotative, l'invio in tipografia della posta pneumatica, i cilindri con gli articoli giù per i tubi, e poi il nastro danzante delle copie stampate. The Post è una chiamata alle armi in tempi di contraffazione delle idee e abusi di potere, e non solo a favore della libertà di stampa. Spielberg l'ha girato in estrema urgenza – via dal set italiano di The Kidnapping of Edoardo Mortara - per consegnare il suo “pezzo” prima della Deadline celebrata da Richard Brooks con la famosa frase di Humphrey Bogart. “E' la stampa, bellezza. E tu non puoi farci niente”.
Katharine Graham (Meryl Streep), la prima editrice di un grande giornale trasformerà il quotidiano locale di Washington in un colosso dell'informazione mondiale in coppia con Ben Bradlee, che un anno dopo, 1972, guiderà l'offensiva finale contro Nixon, missione trasferita sullo schermo da Alan Pakula in Tutti gli uomini del presidente, protagonista Jason Robards.
New York Times e Washington Post se la battono oggi come allora per avere documenti top-secret in grado di smascherare un governo inganna-cittadini. Ma nel '71 l'uomo-chiave è Daniel Ellsberg (Matthew Rhys), il cittadino "più pericoloso d'America” secondo Kissinger. Analista militare per due anni in Vietnam, collaboratore del segretario di stato Robert McNamara per la stesura del rapporto sulla guerra che registrava la progressiva e inevitabile sconfitta degli Stati Uniti contro i vietcong, Ellsberg, disgustato dalle bugie dei portavoce governativi sull'avanzata vittoriosa dei marines, fotocopiò le 7.000 pagine dei Pentagon Papers destinate ai posteri e li consegnò al New York Times. Domenica 13 giugno 1971 la prima pagina del giornale titolava così “Archivio Vietnam: gli studi del Pentagono rivelano tre decenni di crescente coinvolgimento americano”. Due giorni dopo, l'amministrazione Nixon chiese alla Corte Federale di bloccare la pubblicazione per motivi di sicurezza nazionale. E così fu.
Spielberg inizia da qui il suo thriller che ha l'andamento avvincente del discorso di Thaddeus Stevens (Tommy Lee Jones) contro la schiavitù in Lincoln, le arguzie e i détournement politici, labirinti mentali e suspense negli atti di coraggio, la paura prima di dare l'ok alla stampa, prima che si perda l'edizione del mattino, con i tipografici in attesa. Il Washington Post raccolse la sfida. Sequenza incantata: il pavimento trema in redazione sotto i piedi del giornalista al vibrare delle rotative in moto giù nella tipografia. Miracoli da E.T. . E' il cinema di Spielberg (bellezza) che catalizza quei giorni, risucchiati nel vortice di corpi gloriosi, dei nostri vicini nel tempo, non super-eroi ma persone degne di rispetto.
Katharine Graham, vedova dell'editore, ex casalinga, non è giornalista, ma sa leggere negli occhi del direttore Bradlee, un Tom Hanks trasformista inarrivabile, circondata da uno stuolo di uomini con sigaro, consiglieri sgomenti. Si va in prigione se si pubblicano i documenti interdetti al New York Times. Il legale si oppone. Katharine Graham non lo ascolta. E, come in Dunkirk, a salvare la libertà arrivano le barchette in forma di una miriade di piccole testate cittadine che il giorno stesso pubblicano stralci dei Pentagono Papers. “Dal mio punto di vista – scrive nella sentenza di assoluzione il giudice della Corte Suprema Hugo Black – lungi dal meritare la condanna per la loro coraggiosa inchiesta, il New York Times, il Washington Post e gli altri giornali dovrebbero essere lodati per aver servito lo scopo che i Padri Fondatori indicarono così chiaramente”. La stampa deve essere al servizio dei governati, non dei governanti.
Con quanta leggerezza, una poesia da cronista che batte sulla tastiera circondato da gente vociante, Spielberg racconta le sue fiabe radicate nella Storia, ripercorsa dai registi scrigni di memoria, da Clint Eastwood in poi. Storia di amori nel flusso di una macchina da presa (35mm!) che accumula dettagli in una sola inquadratura, composizione pittorica, abiti, arredamento, gesti, sigarette, movimenti e dati precisi su quel che accadde. Armonie romantico-stellari di John Williams. Sullo sfondo si muovono i protagonisti reali, e il fuori-campo suggerisce note a margine.
Perché Robert McNamara (Bruce Greenwood), autore dei Pentagon Papers, è amico della famiglia democratica di Katharine Graham - lo vediamo in affettuosa confidenza con l'editrice - che pubblicherà i documenti segreti contro il suo parere? Perché era un uomo di John F. Kennedy che nel 1961 lo nominò segretario della Difesa. Il riluttante ex insegnante di Haward lasciò la presidenza della Ford e uno stipendio di 800 mila dollari all'anno (contro uno da 25 mila dollari) per contrastare il superpotere del Pentagono e la sua strategia militare che mirava alla distruzione del nemico. McNamara, molto critico rispetto alla devastazione di Tokyo e alla bomba nucleare, elaborò la sua dottrina della “risposta flessibile” che prevedeva un'Escalation in proporzione alla minaccia degli avversari. Ma scrivendo il suo diario sulla guerra in Vietnam si rese conto che il continuo invio di soldati si risolveva in una carneficina e in una sconfitta, e propose a Kennedy il ritiro entro due anni degli uomini (16.000) impegnati sul fronte. Il presidente fu ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, e il successore alla Casa Bianca, Lyndon Johnson, invertì l'ordine e spedì 500.000 marines in Vietnam. McNamara, intenzionato a consegnare i Pentagon Papers a Bob Kennedy, assassinato a Los Angeles il 5 giugno 1968, si dimise dall'incarico il 29 novembre 1967 in rotta con Johnson. La guerra in Vietnam finì con la disfatta americana nel 1975. “Abbiamo agito in base a quello che pensavamo fossero i principi e le tradizioni di questa nazione. – confessa McNamara a Errol Morris nel documentario The Fog of War – Eppure abbiamo sbagliato, terribilmente sbagliato”. L'errore corre negli anni fino a oggi con lo sdoganamento dei generali che tornano a dominare senza più il controllo politico, e con l'opzione nucleare fissa in testa.
I nuovi Pentagon Papers sono i fotogrammi classici e ribelli di The Post usciti dal cinema combattente di Coppola, De Palma, Altman, Corman, Lucas, Cimino, Penn, Romero, Peckimpah, Forman... Spielberg li ha messi in forma con il suo sguardo purissimo. Due le candidature all'Oscar – miglior film, migliore attrice - ma gli è stata negata la nomination alla regia. Non ci sarebbe stata partita.






mercoledì 14 febbraio 2018

Innamorarsi della Laguna Nera. The Shape of Water, mai Leone d'oro fu più meritato




Esce oggi nelle sale italiane l'horror agrodolce di Guillermo Del Toro, contributo storico alla comprensione di un momento politico chiave della nostra contemporaneità. Dopo aver vinto a Venezia (accettando già la presidenza della giuria della prossima Mostra) Del Toro è il grande favorito nella cerimonia degli Oscar 2018 ed è primatista in nomination. Ripubblichiamo la recensione scritta a caldo durante il "festival della Laguna nera" nella speranza che venga finalmente allestita, anche in Italia, la grande e bellissima mostra sull'immaginario dark del cineasta messicano: stanze dell'orrore, foto, oggetti, statue, quadri, filmati, storyboard, diari da Poe a Lovecraft, da Tod Browning a Walt Disney, da Murnau a Corman, dai fumetti all'epopea sm.... 



Roberto Silvestri

Sarà merito anche dell'imprevisto successo dei giovanissimi vecchi Corbyn e Sanders se oggi, a comunismo reale morto e sepolto, Pinewood e Hollywood fabbricano high concept movies dove gli eroi sono lavoratori delle pulizie specializzati in cessi (vedi anche Downsizing) o comunisti. E non russi dissidenti o visceralmente anti-Partito, ma proprio cittadini sovietici che ancora credono nella Rivoluzione e nell'uomo nuovo (ed eccentrico). Ora i film dell'Occidente li dipingono belli e affascinanti e non più torvi e subdoli "ti spiezzo in due". E, con amore, lottano, festivi, insieme a noi. 
Spielberg è stato il primo ad accorgersene (e in un certo senso anche Nolan che gli ha preso in prestito il protagonista del Ponte delle spie, Mark Rylance) e Guillermo Del Toro subito si affianca. 


Guillermo del toro con Sally Hawkins e Octavia Spencer

C'è in giro così tanta carenza di pensiero laico che sappia sprigionare spiritualità e magie non castranti, ma liberatorie, che al Lido il film è stato accolto da applausi scroscianti prima che Annette Bening (e la sua giuria) lo facessero poi addirittura vincere. Si dirà. Come è possibile visto che c'era uno Schrader sontuoso e un sorprendente Insulto? Probabilmente ha giocato il fatto che la Mostra presentava curiosamente anche la versione in prosa dello stesso film. Insomma c'è urgenza di ritornare agli anni 50 e 60 e alla guerra fredda. Sarà per colpa del Russiagate, o del nervosismo nord coreano. 


Una immagine di Warmwood di Errol Morris

Ma anche il bellissimo docu-serial tv di Errol Morris Wormwood, in oltre sei ore racconta proprio la produzione super segreta e sintetica, tramite LSD, sempre in epoca di scontro Usa/Urss, di persone-mostro lisergiche, simili al fantastico uomo pesce ricreato da Del Toro. In questo caso non si racconta un Mito, ma si svela ciò che la Storia patria ha a lungo nascosto. L'orrore di un esperimento non riuscito che doveva rendere le spie americane, trattate a LSD, capaci di resistere a ogni interrogatorio, in caso di arresto, senza parlare perché la sostanza fa dimenticare tutto quel che si conosce. E viceversa un trattamento all'LSD di spie sovietiche catturate e costrette a spifferare tutto. Vittima di questi esperimenti pericolosi (Frankenheimer vi alludeva in The Manchurian Candidate, non a caso rifatto da Demme, colpevolizzando però i rossi), proprio un simpatico e patriottico ricercatore, gentile padre di famiglia, che esce dai laboratori con il cervello spappolato e, per paura che dica cose che non deve, viene "suicidato" da una finestra d'hotel, per superiori interessi nazionali, proprio come capiterà al povero Pinelli non tanti anni dopo. Morris gioca a più livelli. Film documento, film di finzione con attori, tra questi giganteggia Peter Sarsgaard, film-saggio sul giornalismo investigativo visti i circa 60 anni di inchieste e processi da parte dei familiari, e del figlio in particolare, per stabilire la verità intricatissima del caso coperto da strati e strati di documenti top secret. 


Peter Sarsgaard in "Warmwood" 

The shape of Water, versione poetica di quell'intrigo, è il titolo del nuovo film di Guillermo Del Toro, il regista messicano di Cronos, Hellboy, Il labirinto del fauno le cui tonalità fantasy sono sempre sorprendenti e spesso volutamente indigeste. Il pubblico va scosso. Scandalizzato. Qualche fiala di anti-normalina è ciò che lo infastidisce di più. L'happy end a doppie canne poi darà il colpo di grazia. 


Esterni in studio. Il cinema 

Questa volta il cineasta di Guadalajara che adora Disney ed è stato recentemente consacrato al Lacma di Los Angeles da una mostra delle sue opere (anche grafiche) e del suo ricco immaginario visivo e letterario dark e gotico, parte con la complicità della sceneggiatrice Vanessa Taylor (Il trono di spade) da Il mostro della laguna nera (film di Jack Arnold, variazione acquatica del tema della Bella e la bestia) e ne fa un sequel che è un po' storico, un po' horror, un po' politico e un po' romance, molto cinefilo e perfino molto musical (scena tap dance con parodia di Lalaland compresa). 
Sally Hawkins si allena nella tap dance
La Creatura è leggermente abbellita e un po' trasformata. Assomiglia più a un lottatore di wresting dalla strana divisa squamosa, e quasi quasi viene da pensare a El Santo, il lottatore sovversivo delle periferie di Città
del Messico, sempre dalla parte degli ultimi. Il comunista in questione, invece, è lo scienziato-spia che lo ha studiato e scoperto e che parteciperà alla liberazione del “Mostro” che a un certo punto non interessa più agli Usa nè all'Urss. Perché sia il Pentagono (è proprio kubrickiano, o peggio aldrichiano, dal punto di vista del quoziente di repulsione, il suo repellente rappresentante) che il Cremlino hanno deciso di ammazzare, per vivisezionarne il corpo i primi e impedirglielo i secondi. 


Il mostro e lo schermo 

Ma l'amore, la forze più gentile e potente dell'universo, fermerà la mano assassina di entrambi. Certo uno scienziato negli horror o nei film di fantascienza è da sempre, per stereotipo, dalla parte delle Creature, perché il suo compito è proprio quello di introdursi/ci nell'ignoto. Ma questo scienziato è anche un artista, è l'alter ego di Del Toro. Il libro di appunti e disegni amazzonici che consegna al laboratorio, è proprio uno dei bellissimi libri-opere d'arte, con disegni e calligrafia di Del Toro esibiti al Lacma. 


L'incontro acquaceo 

I diversi, i dimenticati, i servi, gli sguatteri, gli esclusi, i perdenti, i rossi, i licenziati, i gay, i neri, e cioé tutti i cittadini che stanno per essere espulsi dal paese perché considerati clandestini, in questo film non sono oggetto di consolazione. Ma lottatori vincenti.  Hanno un altro passo. Sono imbattibili perché il loro ritmo è tap dance, imprevedibile, ipnotico, versione Nicholas Brothers più che Fred Astaire. 
La forma dell'acqua è in realtà una favola con doppio happy end, che non si racconta, ambientata nel 1962 durante la crisi missilistica cubana, mentre astronauti americani e cosmonauti sovietici si contendendono il primato nello spazio e la vittoria morale della guerra fredda tra Kennedy e Kruscev. Una eccezionale quantità di materiale televisivo e cinematografico d'epoca, con fantastiche clip prese dai musical di Betty Grable, Rhonda Fleming e Alice Faye, così come di oggetti iconici dell'epoca, dal modello tal dei tali della Cadillac alla fonovaligia, dal Diner razzista al manganello elettrico anti sommossa nera, vengono trasformati dall'occhio di Del Toro da rigatteria nostalgica del modernariato in coprotagonisti animati di una love story che è addirittura un omaggio e un rovesciamento di un altro film mitico (e per molti imbarazzante), Splash di Ron Howard



E' umana la donna che potrebbe seguire il mostro della laguna nel suo mondo acquaceo, non Tom Hanks che decide di diventare sirenetto, girando al contrario la ruota dell'evoluzionismo. L'amore scatta anche qui tra due alieni, paria della società. Elisa (una Sally Hawkins spettacolarmente dimessa), solitaria donna delle pulizie in un laboratorio governativo di massima sicurezza, aiutata solo da una collega african-american che ha la forza della natura di Octavia Spencer, e la Creatura, catturata nel Rio delle Amazzoni, una sorta divinità locale, maltrattata dai militari nel film come un alieno clandestino nelle mani di Salvini e Grillo, da Michael Shannon, l'addetto fascistoide alla sicurezza, uno degli attori contemporanei capace di dare a ogni ruolo di cattivo fascino e charme maligno. Sarebbe una perfetta Volpe nel prossimo progetto di Del Toro, Pinocchio. Il contatto avverrà tramite un disco, un po' di cibo, un po' di tenerezza. Chi è abituato ai serial tv dove cattivo cattivo mangia cattivo buono rischia la crisi di nervi. Qualcuno pensa che ci sia dell'LSD irreversibile che vaporizza fuori dai nostri maxischermi domestici.

lunedì 12 febbraio 2018

Detour. Clint diventa rosselliniano. 15,17 to Paris




di Roberto Silvestri

Tre ragazzi americani tre anni fa fermarono disarmati, su un treno in corsa, un coetaneo stragista all’opera. Poi hanno scritto in un best seller la loro storia. E Clint li ha fatti esordire come attori a raccontarci questa avventura straordinaria e i suoi retroscena. Un instant movie che utilizza e stropiccia sistemi emozionali di ogni tipo (action movie, spiritual movie, racial movie, school movie, road movie, femminist movie, buddy movies, war movie, sex movie, film commission movie…) e perfino materiali di repertorio con tanto di presidente Hollande in campo, e risponde alla domanda che tutti ci poniamo. La domanda non è: come mai in America tutti sono attori nati come Alec Skarlatos, Anthony Sadler e Spencer Stone? Ma: cosa possiamo fare noi cittadini disarmati davanti a un gruppo organizzato, dinamitardo, e presumibilmente disperato di morituri che può massacrare decine e decine di civili ovunque e in qualsiasi momento nel mondo? Dobbiamo armarci tutti, uomini e donne e bambini, come urlano i reazionari collusi con la Beretta? Dobbiamo riempire le strade e le piazze di mercenari pubblici e privati agganciati agli MK17? No. Clint dice no. Il fascismo non si combatte così. Ce lo ha insegnato Franklyn Delano Roosevelt. Nella prima parte del film i tre bambini, che fanno a pezzi assieme alle loro mamme l’ipocrisia e la pericolosità dell’insegnamento cattolico, si interessano solo alla seconda guerra mondiale, studiando strategia militari sul fronte orientale e occidentale, con la stessa grinta e passione di George Lucas davanti alla sua collezione di supereroi Marvel.  Sorprendente questo detour per chi ha sempre preferito i repubblicani, i presidenti forti che non dimentiano l’opzione atomica, e enfatizzato il concetto di individualismo drastico come base della civiltà Usa. Davanti a scenari inediti, però, ci spiega Eastwood, si richiede un salto di ingegno, una deviazione dalla ragione comune e dalla immaginazione solita. Due dei tre amici sono bianchi. L’altro è nero. I due bianchi amano le pistole - l'altro ricorda sarcasticamente che gli african american frequentano poco la caccia -  con la stessa determinazione del protagonista di Gun Crazy, il noir di Joseph H. Lewis del 1950 che raccontava come la passione per le armi, e per saperle usare con grande competenza, non sia solo sintomo di pulsioni autoritarie distruttive, ma a volte garanzia di democrazia, se non deviata dalle maligne (in quel caso) macchinazioni di una femme fatale  o strumentalizzate da dittatori pericolosi. Questo non è sorprendente. Fin dall’epoca dell’ispettore Callaghan, Clint, come Rossellini, ha sempre affermato l’importanza della storia per comprendere meglio le novità che attentano alla convivenza democratica anti razzista e antisessista.  Se la giustizia diventa formale bisogna darle uno scossone sostanziale. Solo chi è in malafede non ha capito che questa radiografia d’America aiuta a capire il mondo che cambia attraverso ipotesi nuove. Dunque che Clint è un cineasta d’avanguardia.

Alec Skarlatos, Anthony Sadler, Spencer Stone 

Nessuno si aspettava, però, un film così. Squilibrante. Strano. Semplicissimo. Può causare irritazione patologica. Oltretutto è vietato in Gran Bretagna ai minori di 15 anni! Gore, sesso, parolacce, una sceneggiatura demenzial-popolare che ha tolto - come faceva Bresson - ogni inutile orpello psicologico alla triade gloriosa (merito di una rookie, e Clint adora i giovani alle prime armi come Dorothy Blyskal). 15,17 to Paris è soprattutto una rilettura storica dei fatti non agiografica e una concezione spirituale della vita che fa infuriare accademie, chiese e tromboni vari. Il cittadino armato può essere utile solo se la società e sana a possiede valori comunitari alti. Questo è il messaggio che infastidisce. Sembra che Clint parli dell’Armata rossa, russa o cinese, o dell’esercito popolare svizzero…

Si è detto invece, in America e qui. Questa trilogia sull’eroismo americano dell’uomo comune avrebbe riesumato alfine lo sciovinismo destrorso del regista. Si sapeva, no? Clint ha sbagliato sempre al voto, da Nixon a McCain a Trump… Ma questa volta, più che davanti a American Sniper e Sully, gli altri pezzi della trilogia seccante sull’eroismo dell’uomo comune - comune poi fino a un certo punto perché sono tutti e tre fortunati e ben addestrati e soprattutto non sono loro ma un altro il primo che disarma il terrorista, altro guizzo destabilizzante della storia - qualcosa ha fatto deragliare l’intelligenza e i nervi degli spettatori, professionali o meno. Tanto che ci viene un sospetto. Per gli anarchici come Clint il voto nullo è proprio come un’estasi erotica. E quali voti sono stati più nulli dei suoi (a favore di baby kisser scacciati o sconfitti o smaniosi di impeachment…)?


“Film commerciale – ricordava Renoir a Rossellini – non vuol dire ricerca del profitto a tutti i costi, coi mezzucci e l’uso di algoritmi dello statisticamente corretto, ma imporre un’estetica”. A una certa età ridicolizzare quell’estetica omogeneizzante (per esempio quella ben ricalcata da Greengrass in un blockbuster simile, ma esageratamente leccato e adorato, United 93) deve essere diventato la piacevole missione di Clint. Che ha fatto dunque il suo primo (si spera di molti) film testamento, molto autobiografico. E’ anche lui l’uomo qualunque che viene dal nord California (Sacramento come San Francisco), ha dei principi morali che entrano in rotta di collisione con le autorità religiose (in questo caso cattoliche, a giudicare da quel poster del cuore di Gesù, molto ottuse), che si impone una disciplina fisica e psichica durissima ma non per non essere un loser ma perché vuol diventare una persona degna di rispetto, utile agli altri (tutto il contrario di chi smania per il successo personale ai danni di tutti, si ascolti la più blasfema delle preghiere notturne, in epoca scientology, di Spencer Stone) e poi viene sradicato dai suoi amici di infanzia per colpa dei bigotti, e ha la fortuna di trovare in Europa (e proprio nell’odiatissima, dagli Usa, per anni, Francia) fama e Legione d’onore… Non basta l’individuo degno di rispetto e tecnicamente preparato. Deve essere attorniato da istituzioni integre. Maestri affascianti, addestratori militari efficienti. Che sanno come salvare la vita a un ferito. Uno stato sociale di cui si fa un elogio che proprio non ci aspettavamo. Rooseveltiano. 
 

Il film è andato di traverso così anche nel middle e tra i rednecks che di stato non vogliono sentir parlare. E poi. I bravi ragazzi non dicono parolacce, non fumano canne, non si sbronzano e non frequentano la “Roma più perversa” o i club olandesi alla Kechiche (in due minuti tutto Mektoub my love canto uno e due). Quella tirata berlinese contro gli americani, infine, che pretendono sempre di aver salvato il mondo, e perfino dall’immonda bestia, mentre sono stati i comunisti e pure russi a distruggere Berlino e Hitler, ha fatto uscire dalle sale metà pubblico statunitense infuriato.
Insomma. Eastwood, a destra e a sinistra, questa volta avrebbe proprio dato i numeri.
A 87 anni compiuti, questi 94 minuti (record di sintesi) girati al volo come se in un instant movie della New World di Corman, sarebbero noiosi, banali, turistici, cartolineschi. Personaggi senza spessore psicologico, permeati da religiosità equivoca, non fosse per le scene d’azione finali, quando il montatore, il direttore della fotografia e il musicista prenderebbero il sopravvento rispetto al regista canuto e lo immobilizzano. Colpa, ovvio, anche di una donna, della sua sceneggiatrice, dilettante, che ne sa di macha possanza, addirittura ex producer, che ne sa di dinamismo adrenalinico? E poi, a chiudere con questo capolavoro di cinema illuminista-irrazionale, come lo avrebbe chiamato senza affetto Cesare Cases, Ore 15,17: attacco al treno, o meglio, in originale, Alle 15.17 verso Parigi, è pieno di numeri.  Ben quattro numeri già nel titolo. Il primo è fortunato, l’altro annuncia disgrazia. E poi la data, 21 agosto 2015. Siamo già nei territori della Cabala. Apparirà poi, su sfondo biancorosso, un grande 25 - la Legge, la parola di Dio, il giorno del sacrificio - che infatti è anche il numero di maglia di Thomas Mueller, il centravanti (e anche centrocampista!) magico del Bayern Monaco e della nazionale tedesca (un nome, oltretutto, Robert Swan Mueller, diventato l’incubo di Trump).

Ma per tutto il film si continuerà a insistere sui numeri e sulla loro fondamentale importanza, scientifica non magica, per comprendere qualunque cosa. Arte della guerra compresa. 
87 anni, 36 regie,  Eastwood la sa lunga, ha esperienza, non si fa intrappolare dal già fatto o dallo stile e migliora i classici. Adesso maneggia davvero alla perfezione la saggezza visiva di Don Siegel e si avvicina perfino agli europei. Come Eisenstein fabbrica un film come “campo di guerra”. Ma non si indicano le cose vere se non si attraversano le verosimili. Gelato, colazione da Gritti, ostelli per studenti, ballo, sballo, selfie e torre Eiffel sembrano banalità turistiche degne di Woody Allen a Roma. Già. Lo sono. Verosimiglianze molto plausibili quando si tratta di vederle alla luce dell’obiettivo terroristico.  
Come Rossellini. Non ripetersi mai. Non affidare il film ai plasticosi clichés ritmici (qui la poliritmia è proprioi free jazz, come scrive Giulia D’Agnolo Vallan). Afferrare il protagonista e farlo passare nei tentacolari labirinti dal destino al quale non sempre ci si può opporre (e qui i fan del libero arbitrio si inalberano). Certo, anche alternare attori professionisti con non attori presi dalla strada.  Certo anche voler spiegare i punti essenziali della storia di un paese a forza di sembrare indifferenti al versante “spettacolare”. Ripartire dalla seconda guerra mondiale, la guerra giusta, per vedere come affrontare quest’altra guerra, talmente inedita ma apparentemente infinita che ci obbliga a percorrere altre opzioni oltre a quelle militari. Che ne dite di cambiare un modello economico finanziario così disastrosamente imperiale? diceva Rossellini e oggi Clint.

Come Brecht. Non si può dire che questi “attori” abbiamo problemi a indicare quel che i veri protagonsti dell’azione abbiano fatto, senza sforzi interiori per immedesimarsi nei ruoli. Come quel treno alla Dario Argento, di questo che tra i suoi thriller è il più horror.

lunedì 5 febbraio 2018

James Toback, "Sedotti e abbandonati". Un doc del 2013 contro il Moloch cinema



E’ proprio strano. Ecco un doc girato 5 anni fa per spiegare e combattere l’autoritarismo violento di Weinstein & C., controllo e dominio sessuale dei corpi compreso, cioè la strapotenza biopolitica della macchina cinema dominante, realizzato proprio da un film-maker, messo da decenni ai margini del big business, e accusato recentemente di molestie sessuali seriali su attrici. Ma io credo che il movimento metoo e time’s up debba ben separare lo strapotere ricattatorio del Leviatano che ha il diritto di vita e di morte artistico su chiunque, perché ormai è un conglomerato unico che controlla l’affare mondiale, da specifiche situazioni, politicamente deboli, che coinvolgono cineasti non riconciliati e fuori schema e che mai  andrebbero generalizzate, ma messe in attenta e differenziata prospettiva storica.      
Il 9 maggio del 2013 il cineasta statunitense James Toback, tra i più originali, sperimentali e fisicamente massicci della generazione sessantottina, ha presentato a Cannes un documentario “alla Orson Welles” che aveva girato l’anno prima con James Baldwin, proprio sulla Croisette, sullo stato (pessimo, quasi funebre) del cinema mondiale ormai in mano a conglomerati adepti della religione monoteista più fanatica e sanguinaria, quella del dio profitto e dell’omologazione del sempre uguale. Però Sedotti e abbandonati è soprattutto un omaggio ai cineasti di confine, ai film-maker libertari non “hollywoodiani”, agli autori e attori che hanno avuto il coraggio di addentrarsi nelle zone più dark e inquietanti dell’esistenza, là dove l’ immaginario desiderante e l’erotismo come gioco della vita con la morte, combatte i comportamenti psicopatologici più autoritari e sanguinarie, cercando di conoscerli e di comprenderli. Strano. Proprio quello che hanno fatto altri cineasti poi colpiti dall’uno-due media&potere: Bertolucci (il cui ultimo tango fu condannato al rogo), Polanski, sottoposto a incomprensibile persecuzione pluridecennale; Woody Allen che nonostante l’assoluzione giuridica subisce aggressioni ripetute e prepotenti del tutto ingiustificate, James Franco …. Ripubblico dunque volentieri questa recensione (il manifesto 10 maggio 2013), dopo che Toback è stato accusato (da molte attrici) di violenza e di molestia sessuale, senza giustificare i suoi comportamenti prevaricanti anzi sperando che sia fatta giustizia al più presto, ricordando però che Toback è stato per molti mesi esposto a Yale a esperimenti distruttivi con l’Lsd negli anni in cui questa droga, allora legale negli Usa,  friggeva i cervelli di molti studenti universitari, mentre la Cia che la diffondeva cercava inutilmente di sfruttarne le potenzialità in senso antisovietico, in piena guerra fredda.     



James Toback



di Roberto Silvestri
CANNES
James Toback, il regista omaccione e controculturale di Fingers e Tyson, e Alec Baldwin, la star che sei anni di serial tv stanno scalzando dai piani alti dello star-system, l'anno scorso a Cannes hanno reso omaggio al più importante festival del mondo, per charme e giro di affari, girando proprio sulla Croisette un mockumentary, mezzo buffo e mezzo serio, Seduced and abandoned, quest’anno proiezione speciale fuori concorso.
I due cineasti statunitensi raccontano intanto se stessi, le proprie gioie e soprattutto i grandi dolori dentro Hollywood e dintorni, poi le bellezze paesaggistiche, culinarie e finanziarie di questa parte di Provenza, dall'arrivo all'aeroporto di Nizza alle grandi terrazze sul mare, dalla monté de Marche all'abbuffata di ostriche e champagne, adornando le tante interviste con rari spezzoni di classici della storia (il film è prodotto da Michael Mailer per Hbo) e di foto d'epoca (Sofia Loren, Belmondo, Bardot, Welles, Truffaut, Godard, Hitchcock, etc...).
Alec Baldwin e James Toback
Punto di partenza dell'operazione: l'importanza per un attore e per un regista delle scene psicologicamente più ardite e “insostenibili”. La più sconvolgente è stata quella tra Marlon Brando e Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi, il film più pericoloso di tutti, di frontiera e oltre, nella carriera di un attore costretto dal regista a mettere in discussione le zone più intime del proprio inconscio di uomo, senza reti tecniche a sostenerlo.
“Per 5 anni Brando non mi ha più voluto rivolgere la parola”, ricorda Bertolucci (che intanto, omaggiatissimo, a Cannes 66 ha presentato ieri la versione 3d di L'ultimo imperatore).
Film così sono stati cancellati dai blockbuster di oggi. Abbiamo i multiplex pieni di film d'azione omologati. Certo, però, che senza omologazione non c'è salto creativo. Dunque l'innesto blockbuster/cinema d'autore è non solo fecondo ma d’obbligo.

Bernardo Bertolucci con James Toback e Alec Baldwin
Gli americani ormai sono così tornati alla grande sulla Costa azzurra, nonostante recenti freddezze e divorzi politici. Sono alloggiati negli yacht di fronte al Palais, negli hotel di lusso dei dintorni, in agiate ville (ma, ricordiamolo, negli anni 70 c'erano solo tre giornalisti Usa tra le palmette, parola di Toddy McCarthy, il veterano critico di Variety) e fanno sentire con la solita involontaria esuberanza da marines la loro presenza sia sugli schermi che in sala, nelle lunghe file e in sala stampa, nei bar, nei ristoranti, nei Grand Hotel e per strada. Certo, c’è Lloyd Kauffman della Troma da una parte e Harvey&Bob Weinstein dall’altra.

Alec Baldwin con il critico francese Michel Ciment (a sinistra) 

Più che il “costume”, cioé il calligrafismo turistico, però è il paesaggio interiore del cinema di oggi che interessa i nostri due detective dell'immaginario. Una spietata frase di Orson Welles apre il film: “un cineasta deve passare il 95% della suo tempo a cercare i soldi per fare un film e solo il 5% per girarlo”.
Da una parte Toback & Baldwin fanno spiritosamente i Gianni e Pinotto della situazione, e hanno così inanellato interviste a produttori di ogni risma e stomaco, fingendo di cercar finanziamenti per un loro progetto e dando così nel frattempo un quadro più che realistico, scandaloso e divertente, di come si mette insieme un film. Di come si possa cambiare tutto un concept per le bizze di un finanziatore di Abu Dhabi (“è un emirato? Ma anche New York è un emirato” commenterà il regista). Di come non interessa affatto ai più l'aspetto artistico e culturale - i tycoons ossessionati dal rischio delle immagini innovative ma che le immagini le conoscevano - non abitano più qui, ma solo il profitto sicuro. “Volete 50 milioni di dollari? Ma un film con Baldwin non vale sul mercato che un budget di 5 milioni di dollari, al giorno d'oggi. Certo ci fossero Gosling e Chastain, la cosa cambierebbe”....
Dall'altra parte la strana coppia, sostenuta da una colonna sonora colta, griffata Shostakovich, hanno discusso di arte, di forme, di festival e anche del rapporto tra cinema e morte (il cinema è la morte al lavoro 24 fotogrammi al secondo, si diceva, ma oggi che il digitale non ha più i fotogrammi?), con i cineasti più interessanti presenti nell'edizione 65: Bernardo Bertolucci (che ricorda come sia entrato per caso nel cinema, Pasolini abitava nello stesso suo palazzo e i due si scambiavano corrispondenze poetiche, quando a un certo punto lo ha nominato suo aiuto regista per Accattone: “Ma io non sono mai stato su un set” e Pasolini “Neanche io”), Francis Ford Coppola (che non ama troppo Cannes, anzi trova detestabile l'ambiente, con le sue gerarchie, i premi, e ricorda di avere pure buttato all'aria qui i suoi sei oscar per il Padrino), Roman Polanski (ancora innamorato della scuola di cinema di Lodz e della bellezza sconvogente dei laghi Mazuri, dove ha ambientato il Coltello nell'acqua ed è ancora perplesso per la “contestazione” del 68), Martin Scorsese (che illustra la difficoltà di una scena magistrale con Joe Pesci in Good Fellas), e Ryan Goslin, Jessica Chastain, James Caan, Berenice Bejo...
La parte divertente, quasi alla Michael Moore, è la prima, la ricerca spasmodica di un partner produttivo per un fantomatico film d'azione e sesso da ambientare nell'Iraq della guerra, titolo Ultimo tango sul Tigri. E dunque quando si inventano appuntamenti con il gotha e il gotha bis della produzione internazionale, da Medavoy (ex Orion) a Jeremy Thomas (il braccio produttivo dei kolossal di Bertolucci), da Katzenberg (che sta dietro a Shrek) a Marc Damon, l'ex figlioccio di Corman, oggi nel grande business. La parte più teorica è nell'interessante confronto tra i cineasti, le loro poetiche, il loro differente modo di sconfiggere la morte con l'eternità delle loro opere. Fino al ciak finale di Toback. Ogni vita finisce nel nero, all'improvviso. Proprio come in un 'the end'.    
James Toback e Roman Polanski