giovedì 1 dicembre 2016

Sully, l'happy end dell'11 settembre




Mariuccia Ciotta

L'oca del Canada è un grande uccello elegante dalle piume bianche e nere, un migratore che insidia i cieli americani e che il 15 gennaio 2009 s'infilò, insieme al suo intero stormo, nei due motori dell'airbus A320, volo 1549, della Us Airways provocando il blocco dei reattori. In sovrimpressione, Tom Hanks alias capitano Chesley “Sully” Sullenberger vede sfilare tra i grattacieli dei Manhattan, nello splendore dei cieli azzurro fluorescente dell'Imax, altri “stranieri” alati, quelli dell'11 settembre 2001. Otto anni dopo, l'allarme provocato dall'incidente gettò i newyorkesi nel terrore di un nuovo attentato, tutti videro l'areo saettare a quota bassa sullo skyline, la città piena di fumo e di sirene urlanti, le strade bloccate, il delirio...
Sully diretto da Clint Eastwood diverge dall'azione spericolata che celebrò il capitano, e scarta il genere catastrofico - anche se le immagini del disastro scorrono in un loop ipnotico - e si concentra sul suo soggetto preferito, il non-eroe spezzato in due. Così in True crime, Million Dollar Baby, Gran Torino, American Sniper... Il Dirty Harry che viola il regolamento poliziesco o aeronautico e getta via il distintivo.

Trentacinque secondi per decidere se attraversare il fiume nel West Side di New York e atterrare al Teterboro Airport o a Newark nel New Jersey, tornare indietro all'aeroporto LaGuardia da dov'era partito o ammarare nell'Hudson. Altezza 2800 piedi a sfiorare i tetti delle case, tre minuti e mezzo dopo il decollo, Sully e il suo copilota Jeff Skiles (Aaron Eckart) si lanciano sulla pista d'acqua e salvano i 155 passeggeri a bordo.
Sully non è un film sull'uomo solo al comando, tanto meno sull'eroe - chi salva gli altri a sprezzo della vita - ma è un film corale, sul potere dell'umanità al lavoro, una massa in convergenza attiva, vigili, sommozzatori, elicotteristi, 1.200 membri del squadre di primo intervento, sette traghetti che trasportavano 130 pendolari e che accorsero intorno all'aereo galleggiante e salvarono tutti in 24 minuti. Una sequenza alla Frank Capra.
Una folla solidale in un film come It's a Wonderful Life si chiama popolo, mentre chi interpreta le sue peggiori pulsioni si chiama populista. Quindi che c'entra Clint Eastwood, si chiede Le Monde, con Trump? Forse, sostiene il critico Jacques Mandelbaum, nella sua bella recensione, si tratta di un “doloroso enigma”, il Clint regista di un “sottile e luminoso Sully” e la sua adesione cieca al partito repubblicano. Come se fosse ancora ai tempi di Lincoln.
Certo è che il suo 35mo film, il primo girato in digitale, scavalca l'individualismo del cavaliere solitario venuto dall'adilà, e orchestra il coro dell'America che solo unita può salvare e salvarsi.

Tratto dal libro autobiografico di Sullenberger Highest duty (sceneggiatura di Todd Komarnicki) e illuminato da Tom Stern, direttore della fotografia dei titoli più recenti di Eastwood, Sully ha in più lo splendore della scenografia di James J. Murakami, autore tra l'altro di Lettere da Iwo Jima. Un film dall'inedita espansione visiva. L'impatto sull'Hudson e le panoramiche dall'alto replicano la vertigine di The Walk di Robert Zemeckis, moltiplicate dalle visioni di Tom Hanks, perduto nell'incubo di un possibile errore che avrebbe spinto l'aereo a schiantarsi sui grattacieli. Flash back del capitano coraggioso che nello specchio si vede kamikaze, e si crede un-american. Sully subirà un “processo” in stile maccartista intorno al quale si concentra il film che gira su un asse vero/falso, un dormiveglia allucinatorio popolato di fantasmi, 2996 morti allora, 155 vivi oggi.
Il National Transportation Safety Board chiamerà Sully a rispondere delle sue azioni, con una schiera di foschi giudici seduti sugli scranni, inquadrati secondo l'iconografia dell'inquisizione anni '50. L'aereo, valore 150 milioni di dollari, si poteva salvare, sostiene l'agenzia investigativa, l'atterraggio in aeroporto era possibile. Ma la simulazione digitale non calcola le emozioni. Il tempo per virare pensieri e velivolo appartiene solo all'essere umano. Niente pilota automatico. Gli automi alla guida sono freddi calcolatori inebriati di manuale e di algoritmi.

Eastwood, umanista in formato Arri Alexa 65mm, però, non tira colpi alla modernità, lui ragazzo del secolo scorso, ma si interroga sull'”arte di ricostruire la realtà”, il cinema, e si allinea agli sperimentatori dell'immagine-tempo. I 35 secondi di Sully sono necessari, così come le sue proiezioni mentali nella stanza dall'albergo in dialogo telefonico con la moglie (la stupenda Laura Linney, già con Clint in Absolute power e in Mystic River) scandito da ossessivi “ti amo”. Sospensioni temporali. Giochi per distrarre il tempo e aggirarlo. Non ci sarà un inizio, un centro e una fine, il flusso circolare intreccia la storia e il suo riflesso. E nel delirio di una tragedia probabile, scorre anche l'umorismo negato al cinema-algoritmo-senza ritmo. “Cosa cambieresti se dovessi rifarlo?” chiedono al copilota, e lui “Lo rifarei a luglio”, gelido l'Hudson in gennaio, e ancora, “L'unico modo per decollare in orario da LaGuardia e decollare dal JFK”, sorrisi ai margini con una esilarante visita al David Letterman show.
Tom Hanks, “medaglia della libertà” appena ricevuta da Obama, chiama nel film i 155 passeggeri, “non uno di meno”, e Eastwood, che lavora con lui per la prima volta, lo alterna all'immagine del vero Chesley Sullenberger, attorniato dai veri sopravvissuti, non solo numeri, ma volti, ad evocarne altri senza nome sprofondati in acque lontane.
Sully suona il requiem alla paura, e dopo il lungo shock delle Twin Towers, è l'happy end collettivo di New York.
Aaron Eckart, il vero Sully, Clint Eastwood e Tom Hanks


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