domenica 16 ottobre 2016

Il principe e la bolscevica, l'amore impossibile alla corte dello Zar

Vladimir Strizhevsky, attore e regista del cinema muto


Mariuccia Ciotta

Quale immaginazione esportarono in occidente i “russi bianchi” espatriati dopo la guerra civile che seguì la Rivoluzione d'Ottobre? Un cinema lontano dall'avanguardia di Eisenstein e Vertov, ma anche fuori dalla propaganda della Russia imperiale, come è il caso di un regista eccentrico, Vladimir Strizhevsky, nato nel 1892 a Yekaterinoslav in Ucraina (allora parte del territorio russo) e morto nel 1977 agli antipodi materiali e immateriali, Los Angeles. Uno strano caso di vagabondo dello schermo, passato in Francia, Germania e Italia prima di approdare in California.
L'aiutante dello Zar (1929) visto alle Giornate del cinema muto di Pordenone mette insieme i frammenti di un cineasta tenuto ai margini, eppure dall'intensità stupefacente che fa a gara con Lubitsch per humour ed erotismo e con Murnau per incanto e melodramma. La copia proiettata alle Giornate è l'unica rimasta e proviene dagli archivi danesi, protagonista un attore dagli occhi magnetici, Ivan Mozhukhin, anche lui esule in Francia insieme al regista.
Siamo nel 1912 al seguito del principe Boris Kurbsky proveniente da un mancato matrimonio e diretto in Russia su un treno sbuffante che farà tappa a San Pietroburgo. Ed ecco apparire Helena, interpretata dall'italiana Carmen Boni. Occhioni neri e charme. La seduzione ha inizio. Ma c'è un losco individuo che segue Helena e che le ruba borsetta e passaporto alla fermata di confine. L'unico modo per farle passare la frontiera è che il principe la dichiari sua moglie. Il gioco amoroso si fa piccante. Gli equivoci impertinenti nello scompartimento, le allusioni del capotreno, le velature del corpo nudo di lei dietro la porta a vetri proseguiranno con un ritmo brioso quando la coppia fittizia arriverà a destinazione. Balletto di ufficiali maliziosi alla vista della bella moglie straniera, invasioni festanti nell'appartamento del principe, scenografie hollywoodiane, brindisi a ripetizione, e frusciar d'abiti di seta e chiffon... Sembra di stare a Hollywood, invece siamo su un set tedesco dentro l'obiettivo di un ex divo russo del muto nella parte dell'eroe romantico, e poi sceneggiatore e regista, prima di fuggire nel 1923 quando la bandiera rossa con falce martello sancì la nascita dell'Urss dopo la vittoria sull'Armata bianca.
Ivan Mozhukhin

Ma Strizhevsky è davvero un anti-bolscevico devoto allo Zar come il principe Kurbsky? Secondo lo storico danese Casper Tybjerg, che firma un commento sul catalogo, sì. “La figura dello Zar è descritta con reverenza quasi mistica”, scrive. C'è un'ambiguità, però, che pervade il film, una nebbia emotiva che circonda i protagonisti e fa luccicare gli occhi chiarissimi di Ivan Mozhukhin, una specie di Rodolfo Valentino, nel bianco e nero della pellicola. Lo zar è lì quasi fuori quadro, di spalle, mai visibile da vicino, sghembo rispetto all'azione centrale, icona dall'alone di morte. L'uomo che impedirà l'amore tra Helena e Boris, tra la spia e il principe. Già, perché lei è una Mata Hari, l'agente segreto di un gruppo di rivoluzionari, un'infiltrata nel mondo dei nobili con la missione di uccidere lo zar durante una grandiosa festa a corte.
Il losco individuo che la seguiva altri non è che il capo della “banda” (Alexandre Granach, anche lui esule), berretto calato in testa, baffi e barba da carbonaro, crudele e spietato, capace di “soggiogare” la volontà di Helena, che si difenderà così quando il marito (lo è diventato davvero) scoprirà il suo doppio gioco. Ora però si è innamorata dell'aristocratico. E lui della “bolscevica”. Così dall'effervescente commedia degli equivoci si passa al melodramma con un rallentamento ipnotico del tempo, macchina fissa sul volto dell'attore, e azione sospesa sul suo sguardo allucinato, perso nel vuoto, mentre la “traditrice” si abbandona sulla spalliera del letto, disperata. Un “fermo-immagine” lunghissimo e inatteso. La flagrante immagine della Russia spezzata in due.

Strizhevsky resta ambiguo sulla natura politica dei rivoluzionari, che nel 1912 potrebbero essere anarchici o nichilisti, anche perché la pratica dell'attentato e del tirannicidio era del tutto estranea ai bolscevichi. Mentre nel ruolo dell'aristocratico innamorato di una rivoluzionaria ci potrebbe essere un'allusione al principe Kropotkin, cadetto dello zar e poi teorico insigne dell'anarchismo rivoluzionario e amico di Lenin...
Certo è che L'aiutante dello zar sotto la patina filo-zarista distilla dolore, disillusione e indifferenza al fascino dell'impero, anche quando il principe con uno sguardo glaciale ferma la mano di Helena affondata nella borsetta, pronta a impugnare la pistola. “La politica della Russia zarista finisce fatalmente per distruggere il vero amore” ammette Tybjerg che vede nella “tenace lealtà” del principe la causa della sua solitudine, quando “si trova infine solo, su una buia piattaforma ferroviaria, a fissare con gli occhi pieni di lacrime un treno che scompare tra sbuffi di fumo nero, portando via nella notte sua moglie”.
Nonostante l'ammirazione, lo storico danese definisce il film “non un capolavoro” e inferiore all'opera di Alexandre Volkoff, un altro esule russo, del quale le Giornate hanno presentato, tra l'altro, il notevole Kean ou désordre et génie, sempre con Ivan Mozhukhin (Francia, 1924). Strizhevsky, invece, ha una forza straordinaria nell'orchestrare le emozioni cangianti, e salta da un'euforica scena di raptus amoroso con Boris che fa volteggiare Helena – gli ha appena detto che lo sposerà – in una danza vorticosa stile Fred Astaire, alla straziante consapevolezza dell'addio.
Il regista russo merita attenzione nel suo girovagare di paese in paese, inseguito da un sé rimasto nella Russia ancora piena di speranza, prima della repressione stalinista. Infatti, nel 1917, l'anno della rivoluzione, esordisce nella regia con Chernaya lynbov (Amore nero), dove recita e condivide la sceneggiatura insieme a Lev Kuleshov, pioniere della scuola sovietica del montaggio, quello che affiancando al primo piano di un attore in alternanza una scodella di zuppa (fame), un cadavere (tristezza) e una bambina giocosa (felicità), dimostrò il vuoto di un piano isolato.
Strizhevsky nel '23 si trasferì in Germania dove girò Tarass Boulba tratto da un racconto di Gogol, e ambientato nell'Ucraina del XV secolo devastata dai tartari. In Francia, passato al sonoro, dirigerà, tra l'altro, Delitto e castigo di Dostojevskij, e avrà grande successo con Les Bataliers de la Volga ('36), titolo della canzone russa contro lo sfruttamento dei marinai tiratori di ormeggi nella Russia imperiale. Simbo della lotta per la liberazione dalla tirannia padronale, è anche un dipinto del russo Ilia Répine esposto all'Hermitage. Paradossi del “russo bianco”. Tarass Boulba fu anche diretto da Cecil B. DeMille tre anni dopo, nel '26 con il titolo The Volga Boatman. Una storia molto simile a L'aiutante dello zar, con le parti invertire, lui è un bolscevico, lei una principessa, ed entrambi difenderanno il loro amore dai fronti contrapposti.
Strizhevsky gira il suo ultimo film in Italia, La carne e l'anima con Isa Miranda e Massimo Girotti, e, altro paradosso, il film vien bloccato nel '43 dai tedeschi e distribuito solo alla fine della guerra, nel '45. Si è rivisto al festival di Locarno 2014 nella retrospettiva dedicata alla Titanus.
L'ucraino Vladimir, che condivideva con Lenin soltanto il nome, se ne va alla fine a Los Angeles, carico di molti pseudonimi e di un cognome spesso storpiato, e, si dice, diventò un collezionista di registrazione sonore di carattere storico. Un'altra magnifica assurdità per un attore e regista del silent-movie.







  




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