lunedì 29 febbraio 2016

Spotlight, l'Oscar di carta (stampata)

Mariuccia Ciotta

Troppo bello per andare in concorso alla Mostra di Venezia (era fuori gara l'anno scorso), ma non per correre e vincere l'Oscar. Sorpresa. Al Dolby Theatre trionfa un film all'opposto di Revenant e di Mad Max Fury Road, un film che fa inversione a U nell'Hollywood Boulevard. Un piccolo film saporoso che qualcuno definirebbe in quel modo stantio di chiamare le cose piene di senso, “ideologico”.
C'è odore di inchiostro in Spotlight e l'adrenalina va su e giù nella concitazione che una volta scorreva in redazione quando il giornalismo investigativo meritava il premio Pulitzer, vinto nel 2002 dal Boston Globe per l'inchiesta sui preti pedofili. Pochi anni fa. Eppure l'aria che circola nel team capeggiato dall'ex birdman Michael Keaton sembra quella del Watergate anni 70, di Tutti gli uomini del presidente diretto da Alan Pakula, e nell'infilata di scrivanie spuntano i fantasmi di Bob Woodward e Carl Bernstein. Tra i segugi del quotidiano di Boston troviamo invece Mark Ruffalo che fa il portoghese, e Rachel McAdams, sguinzagliati dal neo-direttore che “Vuoi far causa alla Chiesa?”. Sì, perché lui, Liev Schreiber (Manchurian candidate di Jonthan Demme, premiato al Lido) viene da Manhattan e non tratta con i guanti l'irlandese cattolica Boston, tanto più che è ebreo, non ama i Red Sox, e ha deciso di sprovincializzare il giornale, appena acquistato dal New York Times.
La storia è vera e racconta come gli “spotlight” misero sotto i riflettori il caso di abusi su centinaia di bambini compiuti da una novantina di preti nella città del New England, e come l'inchiesta provocò un effetto valanga in tutto il mondo. Vescovi e cardinali, sapremo poi, insabbiavano i reati e spostavano i colpevoli di parrocchia in parrocchia. L'arcivescovo Law, al centro dell'investigazione, finirà a Santa Maria Maggiore, Roma, informa il film.
La faccia del porporato è quella di Len Cariou, attore di teatro e partner di Angela Lansbury nella Signora in giallo, e fa da magnifico controcampo a Stanley Tucci nella parte di un avvocato che, solo e minacciato, cerca da anni di strappare il sipario sui minori violati.







Ma perché raccontare una storia così tanti anni dopo? Quando la Chiesa ha già ammesso e punito? Perché Spotlight più che un film di denuncia è un omaggio al “metodo” del giornalismo investigativo e del cinema politico di ieri, oggi e domani, è una provocazione dell'attore, sceneggiatore, regista Thomas McCarthy, cresciuto a Boston, scuola cattolica, qualche amico del college abusato. Il suo film è una corsa a zigzag tra uffici, testimoni, bar, magistrati, biblioteche, spie in un rincorrersi di godibilissimi incastri narrativi, un percorso alla Marlowe con penna e taccuino. “Oggi l'industria dei quotidiani negli Stati Uniti è stata decimata e non ci sono chiare alternative alla preziosa funzione che giornali, come il Boston Globe, svolgono per il lettori. La situazione è disperata”.
Ed ecco che fa ripartire le rotative mentali, “E' la stampa, bellezza” di Bogart, uno che a 49 anni non ha vissuto la tipografia. Il suo Spotlight è un rollercoaster di giornalisti che “stanno sul pezzo”, schizzano da un lato all'altro della città, vanno in redazione pure di domenica e ballano in un musical di parole. Niente di meno ci aspettavamo da Thomas McCarthy, regista di L'ospite inatteso (2007) delicato con gli immigrati, e lontano dall'effetto “bambino morto sulla spiaggia”. Così delicato McCarthy da far volare le case appese ai palloncini colorati di Up, film d'animazione di cui ha scritto il soggetto.

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