giovedì 26 novembre 2015

Janis, di Amy Berg


di Roberto Silvestri 

Il rock a San Francisco. Negli anni d'oro. Blues e nuova consonanza, in crescendo frenetico, che non temono alcuna concorrenza allucinogena, perché hanno azione estroversa e contagiante. Feedback, la doppia articolazione dell'attivazione spirituale e della rigenerazione materiale. E anche. Simulazione di un gigantesco orgasmo che tutto è fuorché simulato. "Erano anni in cui credevamo di amarci davvero tutti", pig e square a parte, e non solo a Haight Ashbury, il quartiere hippies di Frisco (poi annichilito con l'aids), come racconta bene Janis, (fuori concorso alla mostra di Venezia, poi nelle sale scelte), bio-doc sulla pop star texana fuggita dal sud razzista proprio nella zona meno Amerika d'America, sopravvissuta per 27 anni alla catastrofe della civiltà occidentale. I genitori, i parenti, gli amici, i compagni di scuola, le lettere del suo archivio, i musicisti, i presentatori tv, i suoi amanti e le sue amanti (una parte soltanto, per lo più sono tutti scomparsi) la dipingono forte, piena di vita e di umorismo, "cattiva" come solo i veri buoni sanno essere, quasi inconsapevole del suo divino dono vocale, visto che da piccola era stata cacciata, blue note, dal coro. Poi la fuga in California, il Movement, l'alchimia acida tra folk, country, jazz; il contratto con la Columbia, l'abbandono della sua prima band, il viaggio a Rio, Warhol...

Un mito inscalfibile, non solo perché ha anticipato (muore nel 1970) il rinascimento femminista anche su Melody Maker e Rolling Stone, ma perché ha combattuto i fantasmi suoi e gli incubi del suo paese con una sincerità espressiva totale, dandosi completamente, totalmente al suo pubblico ("sul palco sembrava che si smembrasse davanti a noi, che si squarciasse il petto", racconta una sua groupie, l'attrice Juliette Lewis), con la voce roca, gli urli beat di Ginsberg, gli "scat" di Billie Holiday e i "gotta gotta gotta" rubati a Otis Redding. Nemici da sempre  i fanatici del Kkk subiti da piccola (a Port Arthur, "il posto più merdoso della terra") e gli  orrori in Vietnam, i bombardamenti di Nixon, My Lay, che l'hanno via via uccisa. Joplin se ne intendeva di emarginazione, ingiustizie, le parole delle sue canzoni lo provano, le registrazioni dei suoi concerti ci sconvolgono ancora per la forza coinvolgente del suo "contatto di massa". Ma Janis era così sensibile che senza eroina e tutti gli antidoti possibili a salvarla, per tutti gli anni di attività pubblica, naturalmente fuori dal paradisiaco e magico momento del concerto, sarebbe morta certamente molto prima, di dolore per i dolori del mondo. Sui titoli di coda John Lennon, un'altra vittima della gang Hoover/Nixon, fa capire che è stata una generazione davvero forte la sua per scampare all'autoannientamento totale da overdose. Forse non ci crederete ragazzini di oggi, ma questo è stato il favoloso, eccitante, guerriero ventennio sessanta settanta. Altro che anni di piombo. A meno che non si alluda al nostro libro sacro dei morti, da Hendrix a Janis, da Lennon a Brian Jones, la dove li si confonde con Malcolm X, Luther King, Fred Hampton, i fratelli Soledad, Pinelli, i morti dlele stragi ancora senza colpevoli.
Il documentario Janis (distribuito dalla società del Biografilm Festival) è di Amy Berg, filmaker losangelina impegnata politicamente e premiata permanentemente. La voce bianca più nera della storia musicale ha aperto la giornata rock di oggi, dando forse un po' troppo spazio ai parenti della vittima e mai la parola agli studiosi e ai critici musicali, dande certo per scontato o già trattato il contesto culturale, storico e politico nel quale ha vissuto e si è esibita la grande rock star nella sua breve vita, felice/infelice. Ma dopo gli anni 70, reggae e punk a parte, qualche fiammata glam, e certo hip hop, la musica rock è diventata un affare come gli altri, un business più addomesticabile.

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