Arando il sertao con il suo carrello traballante
Glauber aveva arato la realtà. E inventando il movimento nuovo aveva inventato
ancora una volta il cinema (Bernardo Bertolucci)
di Roberto Silvestri
Caetano Veloso, leggenda vivente
della musica brasiliana, ma anche scrittore e cineasta, ricorda che nel 1961 la
visione, all’inizio di Barravento,
della barca dei pescatori neri che approda sulla costa dopo una dura notte di
lavoro, fu un vero shock culturale per lui.
Come se quella sequenza d’approdo
del primo Glauber Rocha (e del primo film della nuova onda carioca che vinse un premio
internazionale, a Karlovy-Vary) scolpisse in un attimo, nell’immaginario e quasi
in stato di trance mistico, la sostanza del tropicalismo bahiano, il realismo magico e antropofagico: “quando
il mare diventerà sertao e il sertao mare… e quando tra terra e cielo non ci
sarà confine” (come si profetizzerà in Il
dio nero e il diavolo biondo), la contro-storia del suo gigantesco paese. L’isola
di un’utopia nell’aldiqua.
Un Brasile di fantasia
plausibile, tricontinentale per essenza, non più quello dei fatti: “scoperto” nel 1500 dai navigatori portoghesi,
indipendente dal 1822, non più Impero
ma Repubblica (ma dal 1888), arricchito da secoli di lavoro schiavistico
(abolito, buon ultimi, nel 1889) che ha edificato metropoli mozzafiato.
Ma come sacralizzato da una
moltitudine di lavoratori e lavoratrici sem
terra e di migranti africani - non da predators bianchi, piuttosto ingegnosi
e biechi. Classe dirigente, diligente, nobile, mobile, più esperta, tra cittadini
eguali - di qualunque colore o
gradazione di colore, di qualunque origine, nativa o non nativa fosse - aperta
all’invenzione e al liberoscambismo di cultura, idee, oggetti e corpi. It's all true, si intitolava il documentario interrotto e censurato di Orson Welles, protagonista la star african-brasilian Grande Otelo.....
Brasile come luogo
dell’emigrazione, dell’immaginazione fertile e della condivisione per
eccellenza, terra di un processo tropicalista e antropofagico contino,
contaminante, incruento, ricco, sostanzioso.
Come se tutti i colonizzatori
armati fossero stati fermati sulla battigia. Lo immagina Nelson Pereira dos
Santos in Como era gostoso o meu francês
(1971), ‘come era delizioso da mangiare quel francese’, dal libro di memorie di
un tedesco prigioniero della tribù Tupi, pubblicate nel 1557: sconvolto da
quegli esseri “selvaggi, nudi, sinistri, cannibali” che li avevano accolti
pregustando una necessaria goduria gastronomica . O la realizzazione dei versetti,
forse biblici, che più piacevano anche a Robert Aldrich: “i ladri non hanno
fortuna, gli onesti sì” oppure: “l’onore è l’unica ricchezza dell’uomo” (I 4 del Texas).
Brasile, infatti, è molto più
di quel che conosce il turista. Più di Rio, la bellezza travolgente del
paesaggio, più di San Paolo, l’opulenza della metropoli industriale.
“Non lo conoscerai mai questo
paese fantastico, se non penetrerai all’interno, dentro la sua geografia più
sconosciuta”, spiegavano, spingendomi all’avventura, il novista David Neves e l’udigrudi
Andrea Tonacci. Tutti i loro film erano guide per quel viaggio interiore. Mappe
del tesoro.
Scrivere quella geografia
emozionale, ribaltare gli stereotipi della storia ufficiale, fu infatti la
missione del cinema novo e dei loro allievi
di tutto il mondo, anche se qualcuno subito “scomunicato”, come i ribelli del cinema marginal (o udigrudi). Ed era anche il senso profondo delle canzoni, testi e armonie
sincretiche e “bastarde”, di Caetano Veloso, rielaboratore di un immenso patrimonio
popolare nascosto.
Nel 1993 Veloso scrive per
Gilberto Gil, futuro ministro della cultura del governo Lula, una canzone
dedicata proprio al cinema novo. E
ruba al collega Chico Buarque de Hollanda il verso “Nella pancia della miseria
sono nato brasiliano”, che cuce insieme quei due grandi movimenti cine-musicali,
per la prima volta conquistatori del mondo, nel decennio di Pelè, sedicenne e
già campione del mondo di calcio con la nazionale verde-oro, simbolo di un
ciclo esaltante, iniziato a Stoccolma nel 1958.
Si chiameranno novissimi anche i nostri poeti ribelli e
moderni degli anni 60 e tratteranno le parole e la disciplina del discorso con
la stessa violenza alchemica, e scienza formalista, dei cineasti
bahiani/carioca/paulisti, condividendo, almeno alcuni di loro, quel doppio
spettro mitologico che innestava cristianità a radici yoruba, nel Candomblè
bahiano, così come il tragitto Athena nera-Ibn Arabi-Illuminismo francese.
Nanni Balestrini, che già ci
manca, avrebbe descritto il Gruppo 63 quasi con le stesse parole usate da
Glauber per spiegare il suo folto super-clan : “il cinema novo è tecnicamente imperfetto, drammaticamente dissonante,
poeticamente ribelle, sociologicamente impreciso e insicuro politicamente, come
le stesse avanguardie rivoluzionarie. E’ violento e triste, anzi più triste che
violento, come più triste che allegro è il nostro Carnevale. E’ soprattutto una
proliferazione di stili personali”.
Questo non vuol dire che non fosse
espressione anche di una estrema sinistra festiva
(come amava definirla Saraceni), o che non ereditasse dal neorealismo l’occhio
aperto, eticamente corretto, sul mondo, che non utilizzassero la carrellata
come strumento di conoscenza e il montaggio non come demagogia ma come
punteggiatura, “nel nostro ambizioso discorso antropologico e mitologico sulla
realtà umana e sociale del Brasile”.
Erano oltretutto cineasti
attrezzati, tecnicamente e culturalmente, sovrumani e subumani più di qualunque
artista conservatore o reazionario.
In fondo cinema novo è dovunque e in ogni tempo. Basta avere una cinepresa
in mano, un’idea nella testa e un minimo di coscienza umana in mezzo, dalle
parti del cuore. Con la postilla: “Il cinema non è solo arte, per me. E’ molto
più che arte. E’ più potente” (Rocha).
Oggi in Italia, per esempio,
il critico Adriano Aprà ha riunito i nostri migliori cineasti indipendenti e
anti sistemici nel movimento “Fuori Norma”. Li riconoscete al volo questi film,
perché sono autoritratti di uno sguardo. O meglio storie sul “guardare
guardarsi”. Come si reagisce e si risponde di fronte alle immagini del
massacro? Con il realismo spettacolare, come quello dei “sinceri comunisti”
Costa Gavras e Elio Petri? O con un realismo magico (cioè capace di crudeltà) che provochi l’insostenibilità? I novissimi non “girano film”, tossicità
visiva, ma costruiscono immagini di cui vi potete fidare. E ce ne sono
pochissime in giro.
Estetica della fame. La violenza latinoamericana
è l’essenza della sua stessa società. Il cinema
novo ha descritto, poeticizzato, discusso, analizzato, esaltato
tragicamente, i temi della fame, i personaggi che mangiano terra, rubano radici
per sopravvivere, corrono sudici, brutti, scarni, senza scarpe per il sertao,
abitano case orrende oltre i bordi delle metropoli. Una galleria di affamati,
indocili però allo sguardo miserabilista e populista. Istintivamente,
selvaggiamente ribelli.
Il comportamento di un
affamato è la violenza, e la violenza di un affamato è cieca, sbagliata, è
primitivismo. Ma è l’unica possibilità per una presa di coscienza. “Solo violenza
aiuta dove violenza regna” (onnipresente, Brecht). Il colonizzatore solamente
attraverso l’orrore comprende la forza della cultura che sfrutta :“c’è voluto
un poliziotto ucciso perché il francese si accorgesse dell’esistenza algerina”,
riassumerà in uno dei suoi vorticosi e pulsanti scritti il bulimico Glauber Rocha,
che ci raccontano spesso alle prese con due macchine da scrivere, contemporaneamente.
La dolce violenza nova. Trasformare quella violenza in amore per l’azione,
per il cambiamento, per la metamorfosi, per la politica, in buona sostanza
trasformarla in amore, questo è cinema
novo. Non è più l’amore compiacente e contemplante del cinema realistico
commerciale. O l’amore per l’odio del
terrorismo solipsista, drastico e cieco.
“Il cinema novo odia il
populismo e lo slogan zdanoviano ‘creare cose semplici per un popolo semplice,
affinché il popolo capisca’. Il popolo invece è complesso, eterogeneo, magari
ammalato, povero e analfabeta. Ma, pur accettandola, critica la propria
miseria”. Scruta l’orizzonte e trasforma
il miraggio del San Giorgio-Oxun giustiziere, che sconfigge il maledetto
dragone, in realtà.
Un intellettuale molto
coinvolto nella prassi, Pier Paolo Pasolini, amico di Rocha che fu sconvolto
per l’omicidio e ritornò in patria dall’esilio subito dopo, sintetizzava così
le consegne ai non riconciliati: “Fare del profetizzare sul futuro e
dell’indignazione del presente, le ragioni del poetare”.
Glauber Rocha costruisce in
questo modo un tragitto di presa di coscienza dialettica. Nelson Pereira dos
Santos, un altro amato esponente del cinema
novo che nel 1955 con Rio 40 gradi
e nel 1957 con Rio Zona Norte e nel
1963 con Vidas Secas aveva piazzato
le cineprese dove l’oligarchia proprio non voleva, tra i poveri impresentabili
delle periferie cittadine e contadine, neri e sem terra soprattutto, amava spesso
citare una frase del poeta portoghese José Regio: “Non so dove vado, ma so che
non vado lì”. Indicazione stradale irrazionale?
No. Spiega Glauber: “La rivoluzione è l’anti-ragione che comunica le tensioni e
le ribellioni del più irrazionale di tutti i fenomeni, la povertà”.
Roberto Rossellini, amico di
Rocha, anche se aveva accusato Il Generale Della Rovere di
“spettacolarità”, aveva abbandonato da tempo gli agi del professionista di
successo, sfidato i bigotti nel caso Ingrid Bergman e nei film con lei, e gli
standard neorealisti (“ormai qualunque miserabile fascista può fare un film schematicamente
neorealista”) proprio per seguire la linea della povertà nel mondo
fiancheggiata da carrelli “etici”, in modo che tutti fossero in grado di riconoscerla,
scoprirne i colpevoli, combatterli e condannarli. L’India, i filosofi greci, la
storia, la cultura araboandalusa, il Mediterraneo del sud, Allende, Napoli, il
misticismo cristiano…
E Rocha seguiva la
cartografia del maestro: “La ragione dominatrice classifica il misticismo come
irrazionalistico e lo reprime a colpi di fucile. Per essa tutto ciò che è
irrazionale deve essere distrutto, sia la mistica religiosa sia la mistica
politica”.
La prova? La sua riscrittura
del cinema brasiliano che trovava le pietre miliari nei capolavori Limite, opera unica di Mario Peixoto
(1930), quasi un manifesto del modernismo astratto, saggio di alto formalismo
adorato da Eisenstein e Pudovkin e Ganga
bruta (1933) di Humberto Mauro, l’autodidatta elettricista mineiro che con
230 film educativi aveva fondato una feconda pista, saggistica e nazionale,
anti narrativa e spettacolare, e non fu mai così erotico e surreale come in
questo noir alla Jean Renoir.
A differenza delle altre
nouvelle vagues europee di fine anni 50 e inizio anni 60, francese, ceca,
inglese, ungherese o polacca, come spiegò Gianni Amico, quel cinema lusofono d’equipe
“aveva piazzato la macchina da presa nel ventre dell’affamato e non cambiò mai
angolazione.
Glauber Rocha aveva
individuato con più esattezza di tiro il diavolo nell’Imperialismo e lo aveva
vestito da dragao de maldade, da
mostro malvagio dalle sette teste”.
Perché è “novo” questo cinema?
Tropicalismo, bossa nova, cinema novo… Perché è novo
questo cinema? “Perché il Brasile è nuovo”. Rispondeva Carlos Diegues.
E le due case di produzione
brasiliane dell’epoca del presidente Joao Goulart, poi deposto dai militari con
un golpe, cioè la Vera Cruz e Atlantide, erano invece vecchie, old fashion.
“Europea” è la prima, una
sorta di Pinewood fotocopiata da Alberto Cavalcanti. Simil-hollywoodiana, e ne
riproduce male i format, la seconda.
Vera Cruz, almeno, si accorge
del potenziale epico del cangaceiro,
il bandito popolare del sertao che “uccide anche i poveri, affinché non muoiano
di fame”, e vince un primo premio internazionale, a Cannes nel 1953. Gli Studios
sono animati anche dalla presenza rumorosa
di molti cineasti italiani volanti che di epica si intendevano: l’attore
e regista Adolfo Celi (sarà il più adorato cattivo in 007), lo sceneggiatore e regista Ruggero Jacobbi, il compositore
Enrico Simonetti, il regista Fabio
Carpi, lo scenografo Pierino Massenzi… Quel che però manca al film è proprio la sostanza
emotiva racchiusa nella letteratura accorata del cordel, da Euclide da Cunha (Os Sertoes, 1902) al più sperimentale
Graciliano Ramos. Ma trionfa l’esotismo.
L’orientalismo. Quel vezzo colonialista che spiega ai colonizzati la loro
ricchezza culturale, invisibile ai nativi. E che sui mercati occidentale va
forte.
Carlos Diegues indica come
personalità più influente e carismatica di un movimento così eterogeneo proprio
Glauber Rocha, “la nostra cometa più bella”. Ma il gruppo è numerosissimo, solo
tra i registi sono più di 30 e quasi tutti maschi, a parte Paula Gaitan (che
realizza Uaka) l’ultima compagna di
Glauber, dopo Rosa Maria Penna e Juliette Berto. Glauber è una luce, una stella,
in movimento. Non è fissa né si vuole eterna come i divi Mgm del firmamento hollywoodiano.
E’ indocile, scalpitante, furiosa come un fulmine. “Perché l’eredità di Glauber
è l’indignazione”. Basta leggere uno solo dei 500 saggi critici che ha scritto.
Oppure una delle oltre 500 interviste che ha concesso nella vita, fino alla
fine, prima morire di setticemia e
broncopolmonite (pare mal curata) a Lisbona, il 23 agosto 1981 a Rio, a 42 anni.
La rabbia americana
E’ la rabbia il sintomo più vistoso dell’arte americana, anche del nord
(il nuovo mondo), e la più feconda. I
beat. I boppers. I muckrakers. Gli action-painters. I filmakers underground da
Maya Deren a Jonas Mekas. Gli ossessivi dell’horror movies. Paesi dove è
assente l’antitesi (come si raccontò Italo Calvino nei diari americani e nel
doc America paese di dio), dove manca
il partito operaio e contadino organizzato e potente, sconfitto da sempre il
socialismo. O dove l’antitesi è troppo difficile da organizzare. Il Brasile è
un continente gigantesco. “Era impossibile perfino organizzare facilmente una riunione del comitato centrale del partito comunista”, mi
spiegava Valentino Parlato che in Brasile aveva lavorato qualche tempo per una
azienda che costruiva strade. Né treni, né reti autostradali, né aeroporti che collegavano
il paese e lo univano agli stati confinanti dell’America Latina. No. Esistevano
solo quelle strade di cui ogni colonialismo è fiero, perché servirono, per 400
anni, a unire le miniere ai porti, e a trasportare più in fretta possibile le
merci, più o meno depredate, verso l’Europa. “Troppo costoso fare politica, dunque”. Poi
con gli aerei low cost, finalmente, il Pt, partito dei lavoratori di Lula, ha iniziato
a far riunioni e a intraprendere la sua lunga marcia verso le vittorie
elettorale, ostruite e sabotate con ogni mezzo necessario. Come quella
dell’eroe dell’indipendenza dal Portogallo del 1789, Joaquim José da Silva
Xavier, conosciuto come Tiradentes (che fu tradito). O quella iniziata
dall’insurrezione anti oligarchica guidata dal comunista Luís Carlos Prestes
nel 1922, poi fallita.
Lula, prima parte, contadino
impoverito del sertao costretto a emigrare a San Paolo, e ostinatamente a
lottare, è incredibilmente raccontato molto tempo prima della presidenza e del
carcere, nel profetico Tropici di
Gianni Amico, uno dei classici film realizzati nel 1968, con l’attore feticcio
del cinema novo, Joel Barcelos (scoperto in Terra
em trance di Rocha nel 1967 e che vedremo anche in Il conformista). Una
produzione italiana di Gianni Barcelloni a cui si deve la sequenza di film più
importanti e inquietanti per capire cosa fu il sessantotto internazionalista,
estremo e totale (quello che fermò l’aggressione nel sud est asiatico): Porcile e Appunti per un film sull’India di Pasolini del 1968, Capricci di Carmelo Bene del 1969, Necropolis
e La via del silenzio di Franco
Brocani del 1970 e 1981; i tre Glauber Rocha italiani: Il leone a sette teste (1970), girato rocambolescamente nel Congo
Brezzeville maoista, con Jean Pierre Leaud e Fabio Testi, Giulio Brogi e Rada Rassimov; lo sperimentalissimo
Kancer/Cancer (girato nell’agosto del
1968, terminato nel gennaio del 1971, trasmesso dalla Rai in prima mondiale nel
1972 in versione italiana), apologo sulla violenza verbale, domestica, fisica e
pubblica, in piani sequenza di 10-12 minuti l’uno. Con Hugo Carvana, Antonio
Pitanga, Odete Lara (e musica anche di Gato Barbieri). Debitore del
procedimento usato da Hitchcock in Young
and Innocent, 1937; Under Capricorn, 1949
e The Rope, 1948; di Cronaca di Anna
Magdalena Back (1967) e che Sganzerla utilizzerà in Sem Essa, Aranha (1970. E Claro
con Juliette Berto che passeggia un po’ a distanza ma con Glauber in una Roma
estrema, cattolicissima nei superbi riti da corte dei Principi Neri o
attorniata dalle nostre baraccopoli-favelas, dove i poeti sono straccioni e gli
straccioni poeti (1975).
Quel che separa il ricco nord
euro-yankee dal sud carioca, paulista, nordestino e mineiro è però 1. la bastardaggine etnica e sociale,
rivendicata ai tropici. “Ogni brasiliano ha nel suo passato e presente un piede
nella cucina”. 2. non voler mettere
mai al primo posto l’arte rispetto alla giustizia sociale. Gustavo Dahl, che
assieme a Saraceni sarà studente-uditore al Centro Sperimentale di
Cinematografia romano, diventando amico e collaboratore del primo Marco
Bellocchio e di Sandro e Jennifer Franchina, a Santa Margherita Ligure (il
festival latinoamericano, poi trasferitosi a Sestri Levante e Genova, voluto da
padre Angelo Arpa e diretto da Gianni Amico dal 1960 al 1964 dove il cinema novo e i cubani ricevettero il loro
fortunato lancio internazionale) dichiarò: “Noi non vogliamo saperne di cinema,
vogliamo udire la voce dell’uomo”. E 3.
L’incanto della poliritmia Candomblè e del Samba. I tamburi atabaque e
tambourim. Ovvero, contemporaneamente come coniugare il lineare piano sequenza
con il frammentato montaggio, incalzante e penetrante come in un rito di
possessione.
Attualità dei novisti
Ma. Perché parliano di cinema novo oggi, a 70 anni dallo
sfolgorante inizio e dopo la morte di quasi tutti i suoi esponenti più
inventivi, Paulo Cesar Saraceni, Joaquim Pedro de Andrade, Nelson Pereira dos
Santos, Gustavo Dahl, Eduardo Coutinho, Leon
Hirszman, Walter Hugo Khouri, Carlos Reichenbach? Chi resta vivo? Walter Lima
jr., Carlos Diegues, pochi altri.
Prima di tutto è disponibile in dvd un incredibile
documentario di montaggio, bello e impetuoso come una cascata andina,
realizzato dal figlio di Glauber, Eryk Rocha e presentato a Cannes nel 2016. Titolo
Cinema novo. Parlano le sequenze di
film e i registi, in un vorticoso montaggio a mosaico.
Poi perché i millennial -
dopo alcune generazioni di figli e nipoti obbligati a “uccidere i loro pesanti
antenati” e a rimuovere un’estetica troppo imponente e ingombrante per le
esigenze di Mercato – stanno tornando con occhi preoccupati, dati i tempi, a
quel ricco patrimonio di film sperimentali e di combattimento, fragili e
potenti, corali e unici, che via via sono stati nel frattempo restaurati,
grazie anche al prezioso contributo finanziario della Petrobras, finché Lula
era al governo e alla presidenza e alla cultura non era ancora stato messo il
bavaglio (ci aspettiamo una nuova ondata di esuli, dopo la generazione di Vinicius
de Moraes, Amado, Toquinho, De Andrade, Rocha…). Alice de Andrade ha curato
personalmente il cofanetto con l’opera omnia del padre, per esempio. E sono
usciti con enorme successo mondiale in cofanetto anche gli horror di Zé do
Caixao ovvero di José Mojica Marins. Poi.
E' uscito da un po' il primo cofanetto Rarovideo "Glauber Rocha Collection", a cura di Boris Sollazzo e con un bel volumetto allegato, con Barravento, Terra em trance, Il dio nero e Antonio Das Mortes... e una lettura eisensteiniana che condividiamo... "il cinema non è solo un arte per Rocha, lui dà tridimensionalità alle emozioni, a partire da quella musica diegetica, dal rumore armonico, dal chiasso invadente, così ti scuote con la nostra parte più innocente e bestiale, più primaria, e al tempo stesso complessa". Poi.
L’uscita nelle librerie in
queste settimane di Cartas ao mundo,
il grosso volume che raccoglie le lettere di (e a) Glauber Rocha, a cura di
Ivana Bentes (edito da Companhia Das
Lettras), il premio Camoes per la letteratura assegnato nel 2019 al gigante della bossa nova, Chico, il Dylan
brasiliano (che, esule in Italia, pubblicò con Bardotti, nel 1969 e nel 1970,
due album, Chico Buarque De Hollanda
e Per un pugno di samba, nel 1970) e
il documentario che Cesar Meneghetti, filmmaker italo-paulista, sta girando in
questi giorni con gli amici e i testimoni del “Glauber Rocha romano”, riportano
l’attenzione sul Brasile di oggi e di ieri, quello che trapassa dal periodo
culturalmente e economicamente più aureo della sua storia, il cinema novo, la riforma agraria a un
passo dalla firma e il tropicalismo letterario e musicale di Jorge Amado e Carlos
Jobim, fino ai giorni nostri.
Come in un incubo, infatti,
il Brasile dopo essere asceso al vertice del Brics, polo
industriale-politico egemone ed emergente (con Russia, India, Cina e Sudafrica), ripagando il suo debito dollaro su dollaro, si è ricacciato (o è stato trascinato)
negli ultimi mesi – dopo il processo mediatico che ha scaraventato Lula in
carcere e incriminato Dilma, mentre la Petrobras deflagrava – nell’isolamento e
nel sottosviluppo, nel back to the future, nel tempo-spazio reversibile che trapassa
dall’apertura democratica di Goulart con le sue parole destabilizzanti: “sanità-scuola
e cibo per i più poveri”, alla caricatura democratica della sanguinaria dittatura militare Medici, glorificata
dagli attuali fan sovranisti di Trump-Bannon.
E speriamo che questa
ripetizione-farsa del presidente sedicente ultrafascista Jair Bolsonaro, critico
da destra dei metodi troppo morbidi dei generali golpisti, termini prima del
fine legislatura, visto che si tratta del primo presidente della storia occidentale,
dopo Mussolini, che aizza a (e si vanta di) uccidere nemici o sovversivi. E per questo viene votato
dalla moltitudine che forse vede e sa
cose che noi non vediamo e non sappiamo. Il culto del Talebano barbuto si diffonde
anche nell’Occidente cristiano depilato.
Sovranismo, però, in Brasile
è una parola che non ha molto senso. A meno di restituire la terra agli indios.
Come non lo ha in tutto il “terzo mondo”, o meglio nei tre mondi o
nell’altromondismo. Sovranismo è la preservazione o la ri-acquisizione della
sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in contrapposizione
alle istanze e alle politiche delle organizzazioni internazionali e
sovranazionali.
Ma l’accesso all’indipendenza
e autonomia nazionale, sostanziale e non formale, in troppe aree del sud del
pianeta, è stata finora sempre impedita da colonialismo, imperialismo,
socialimperialismo, borghesie locali corrotte e asservite e globalizzazione. Vogliamo ricordare i 64 colpi di stato
francesi nell’Africa Occidentale? La fauna marina distrutta in Angola dalla
pesca a strascico dei compagni sovietici per rifarsi delle spese dopo la
protezione del Mpla? O i presidenti deposti dalle multinazionali
dell’alimentazione quando il costo del lavoro si alza scandalosamente in quel paese o in quell’altro (Ananas di Amos Gitai, 1983)? Oppure l’abbassamento
del prezzo del petrolio che “assassina” le politiche sociali di Lula e Maduro
in un colpo solo e crea un delirante flusso di sanzioni per presidenti
democraticamente eletti ma che affamano tutti? E l’Iraq delle armi di
distruzione di massa? E Salvador Allende?
Molto bella, a questo
proposito, la lettera che il presidente eletto del Cile scrisse a Rocha
ringraziandolo per l’aiuto importante che il cineasta brasiliano stava dando al
risorgimento dell’America Latina tutta, con i suoi film e i suoi scritti, e per
il suo contributo, pratico e teorico, alla costruzione di una industria cilena
del cinema finalmente degna di questo nome. E da cui emersero cineasti come
Ruiz, Littin, Soto, Francia, Guzman… e poi Larrain, Caiozzi, Andres Wood, Justiniano, Lelio…
Jean Marie Straub e Glauber Rocha |
Contro il cinema marginal
Rocha non fa cinema marginal. Non mischia i generi e non fa omaggi a ripetizione, come il ventitreenne Rogerio Sganzerla nel film-manifesto O Bandido da Luz Vermilha (aprile-maggio 1968), interpreta la geniale Helena Ignez, la ex di Rocha che ora sta con Rogerio e interpreta Janete-Jane, personaggio fatale.
"Un western sul terzo mondo, programmaticamente filmato come abitualmente non si deve filmare, insomma un cinema fatto come Jean Genet fa letteratura, José Celso fa teatro e Caetano Veloso e Cozzella fanno musica", lo definisce il suo autore. Una fusione-mix di musical, documentario, fantascienza, stri-tease, poliziesco, commedia e chanchada. La sincerità e tenerezza di Rossellini, più il clima di un noir di Welles, più la violenza di Fuller, più il ritmo anarchico di Sennett e Keaton, più la semplificazione brutale della narrativa di Hawks, più l'amore per i piani lunghi e per i grandi spazi di Anthony Mann, più filmare alla metà del costo di Godard, più le devianze armoniche di Hendrix, più la maniacale ossessione per l'autodistruzione di Noel Rosa, chitarrista e autore di samba anni 30.... E perfino un omaggio alla grande arte cubano-brasiliana della radionovela. Appetito antropofagico comune? No. C'è una differenza abissale di sensibilità politica. Rogerio, come Welles, se ne occupa come un artista distaccato. "Welles mi ha insegnato a non separare la politica dalla criminalità". Infatti Rogerio ammira la complessità formale di Rocha. Ma.
Glauber (il nome è il cognome di uno scienziato tedesco del Seicento...) invece le mani se le vuole sporcare proprio con la politica. Rocha ha un progetto strategico semplice in testa. Conquista il vertice del cinema nazionale. Come cercheranno inutilmente di fare Lucas e Spielberg in Usa e Godard in Europa. Non vuole assolutamente anticipare le "conquiste" estetiche di Quentin Tarantino. Vuole controllare le leve complessive, produttive, distributive e
di esercizio, dell’industria brasiliana troppo manovrata dall’estero e
concentrata sulla commedia locale inesportabile, sia nella forma disprezzabile chanchada (nel quale il popolo si compiace della propria degradazione) sia
nella forma pornochanchada, sia nella forma d’arte media (Vera Cruz). Il bacino
sale è povero nel paese, quello internazionale limitato (anche in Portogallo i
film brasiliani non sono comprensibili da tutti) dunque o si realizzano film di
impatto mondiale forte, da vendere ovunque, o non c’è industria forte capace di
contrastare i blockbuster di Hollywood sul suo terreno mitologico-tecnologico,
finanziariamente inarrivabile. Il Brasile deve essere capace di presentarsi al
mondo integro e indipendente nella sua cultura.
I rapporti politici del
giovane Rocha sono già abbastanza forti, anche perché ereditati dal padre
massone, commerciante in impianti ferroviari, e politicamente legato al futuro
ministro e governatore dello stato di Bahia, Yuracy Magalhaes. Inoltre Glauber ha
fiuto, una lucidità e conoscenza del
paese “profondo” che gli permette di analizzare meglio dei colleghi e dei
nemici quel che cresce e quel che muore, i varchi progressisti che si aprono
anche nelle situazioni che sembrano più chiuse. Nel 1968, mentre inizia la
dittatura, monta e firma un documentario sulla campagna elettorale di un
giovane politico rampante, José Sarney. Il film si intitola Maranhao 66. Sarney, che viene da quel
piccolo stato tra Piauì, Goias e Para, sarà il primo presidente eletto in Brasile,
dopo il ritorno della democrazia, nel 1985.
E ancora. Durante la dittatura militare lunga ben 21 anni (lo spiega all’inizio di A Idade da terra, il suo film testamento
del 1980), sostenuta dagli Stati Uniti perché Joao Goulart stava minacciando i
propri interessi e la dottrina Monroe (“l’America agli Americani, non agli
europei, cioè tutta l’America a guida Usa”), a una prima fase “rivoluzionaria”
in economia, guidata dal generale Castelo Branco (che blocca la riforma agraria,
abolisce 13 partiti, ne permette solo due, scioglie le camere e cancella il
welfare), succede il ‘raddrizzatore dei conti’ liberista Costa y Silva in un
paese dove la crisi incalza e si moltiplicano i gruppi di opposizione
terrorista, repressi attraverso l’atto istituzionale n.5 del 13 dicembre 1968.
E, dalla fine del 1969 in poi, il famigerato Medici strumentalizza la vittoria
ai mondiali di calcio del 1970 e una ripresa economica congiunturale, per
accentuare le misure antidemocratiche e la repressione dura della guerriglia,
affidata soprattutto nello stato di San Paolo, a corpi separati riuniti nell’Operazione
Bandeirante. In 4 anni sarà sconfitta sia il partito clandestino armato più
radicato nelle città, l’A.N.L., sia il gruppo guerrigliero dell’ex ufficiale
militare Carlos Lamarca (Sergio Rezende,
nel 1994, racconterà la sua storia in un importante film omonimo). E sul leader
rivoluzionario Carlos Marighella, ucciso nel 1969, Carlos Moura ha appena
girato un bio-pic, mentre escono in tutto il mondo le riedizioni dei suoi esplosivi
scritti sul terrorismo metropolitano.
Con la nomina del generale
Ernesto Geisel (1974-1979) e più tardi con quella di Figueredo che completerà
la transizione democratica, si
accentuano però i toni anti-americani e nazionalisti, vengono abrogate le leggi
più repressive e quelle sulla censura, ed è in quel momento che Glauber Rocha,
tra lo scandalo della nuova sinistra internazionale, decide di tornare in
patria, di accettare incarichi pubblici e di fondare e dirigere la Embrafilme,
struttura pubblica che produce, distribuisce e promuove nel mondo film brasiliani
finanziati (anche) dallo stato. Si ritirano fuori dal cassetto perfino le
simpatie di un Rocha quindicenne per un cenacolo culturale di estrema destra,
per denigrarlo. Eppure l’utopia di Rocha si era realizzata.
Ma nel frattempo “il gruppo”
non c’è più. Molti non sono d’accordo con la svolta a sorpresa del grande capo.
Il Mito Rocha, e la sua abilità polemica
vengono utilizzato dalle televisioni (capita anche a Oshima in Giappone
e a Carmelo Bene in Italia). Glauber fa un programma di grande successo, Abertura, della tv Tupi, nel quale
conduce delle interviste incredibili e scandalose, provocando abilmente gli
intervistati, e facendogli dire cose di cui domani si pentiranno, secondo il
procedimento utilizzato molto tempo dopo da Cruciani nella Zanzara di Radio24. Un cineclub
di Rio, dal 1972, si chiama “Glauber Rocha”… I suoi interventi critici
diventano sempre più polemici e le sue accuse drastiche. Litigava negli ultimi
anni un po’ con tutti. Perfino con i vecchi amici critici che lo avevano
adorato a inizio carriera e promosso nei festival. Uno è Lino Micciché,
direttore del terzomondista festival del Nuovo Cinema di Pesaro. Non lo nomina
ma lo considera colpevole di alto tradimento per una recensione troppo fredda
quando A Idade da Terra viene presentato (e fucilato dalla stampa e
dalle tv) alla Mostra di Venezia, sezione Officina. Un film fortemente desiderato
da Enzo Ungari, che arriva all’ultimo secondo e senza sottotitoli italiani né
inglesi. Quell’edizione è vinta da Malle (“un regista di seconda classe”) e da Cassavetes
(“un regista commerciale che si nasconde dietro forme da cinema d’autore”), oggetto
di scherno pubblico da parte del cineasta bahiano che non risparmia accuse di
arido accademismo anche ad Angelopoulos. Michel Ciment, il critico francese di Positif viene paragonato a Suso Cecchi
D’Amico come la vergogna del ceto
intellettuale europeo, e in più definito un figuro losco “notoriamente pagato
dalle Majors di Hollywood e dalla Cia”. E così via. Organizzarà presto il
boicottaggio delle produzioni Rai e della struttura Gaumont in Brasile e il
boicottaggio della Mostra di Venezia.
Quel che non si comprende in
Europa è lo stile dei suoi interventi, declamatorio e incalzante, violento e
barocco, appreso dal suo maestro in oratoria, il gesuita portoghese del Seicento Antonio Vieira, nemico
della schiavitù, difensore degli indios e tra i maggiori sctittori lusofoni
(come ci ricorderà Manoel de Oliveira in Parole
e Utopia, nel 2000). Ricci neri e pelle dorata, Rocha si muoveva come un
missionario del passato, la sua missione era il Brasile, le armi della
rivoluzione erano tutti i suoi film e i progetti di film falliti, come La nascita degli dei, un Napoleone, Os Maia la saga familiare di Eca de Queiroz (un film che sarà
realizzato dal portoghese Joao Botelho), Definisao
che doveva girare in Cile sugli esuli brasiliani durante il governo Allende, Amiga nuestra su Cuba, una produzione di
Renzo Rossellini… E anche tutti quelli degli amici del cinema novo. “Dava l’impressione di essersi caricato sulle spalle il
peso del paese”, scrisse Gianni Amico.
Si allargava nel frattempo la
frattura estetica con la generazione più giovane, più paulista e meno
ossessionata da Lukacs, “che cerca altro” e non vuole essere considerata una
“Igreijnha”, una chiesetta. Sono quelli di Boca de Lixo (quartiere di San
Paolo, barrio piuttosto pericoloso di Santa Efigenia): apre la competizione nel
1967 Ozualdo Candeias (con A Margem),
poi Carlos Reichenbach, Rogerio Sganzerla
(O bandido da Luz Vermelha), Julio Bressane
e Andrea Tonacci, sono più attratti formalmente dalle deformazioni atonali se
non già punk della cultura pop anglo-americana (Jimi Hendrix) e dai generi
bassi, l’horror, il thriller, il porno, tra lo scandalo di Glauber (oltre a
questioni private che riguardavano l’attrice e in realtà anche regista Helena
Ignez, che lo aveva lasciato per Rogerio
Sganzerla dopo O Patio, e che sarà il
simbolo degli udigrudi). Rocha stava
rinnegando con la rigidità di una educazione materna presbiteriana, e poi di un
ex credente battista, da sempre studioso letteralista
della Bibbia (come si vede nei suoi film, sempre conditi da allusioni
cristiane), le osservazioni del suo maestro Eisenstein, riassunte da un suo
seguace tedesco, Herzog: “Il cinema non è erede dell’arte e dell’Accademia, ma
del circo e delle fiabe”.
Mentre però il maestro del
cinema moderno torna a Rio, dopo aver elogiato un generale della giunta,
Golbery, chiamandolo assieme a Darcy Ribeiro, “genio di razza”, le notizie sui
desaparecidos inquietano il mondo. Quasi 500 giustiziati e molti di più
imprigionati e torturati (come la futura presidentessa Dilma Rousseff) nelle
prigioni clandestine dei banditi paramilitari. Qualcuno gettato vivo dagli
aerei nell’Oceano. Solo nel 2014 la commissione nazionale per la verità ha concluso un
rapporto di 2000 pagine sui crimini
commessi dalla dittatura, tra il 1964 e il 1985, dichiarando ufficialmente che
furono 434 i cittadini uccisi e fatti sparire (di 200 i corpi non sono mai
stati trovati) e 377 i responsabili di quei crimini (191 erano ancora vivi nel
dicembre 2014).
Con Roberto Rossellini |
A questo punto i film, uno per uno….
Non c’è bisogno. La rete è
esauriente dal punto di vista critico e infromativo. Basta ricordare, però,
come Glauber, in due lettere del 2 e del 28 dicembre 1980 spedite a Carlos
Augusto Calil (direttore tecnico di Embrafilme) consigli di raggruppare i suoi
film, in caso di una programmazione: gruppo 1. Il Dio nero e il Diavolo biondo; Terra em Trance, Antonio Das Mortes;
Cabezas Cortadas e A Idade da Terra.
Gruppo 2: Barravento; Cancer; Il leone a
sette teste; Storia del Brasile; Claro. Terzo gruppo: O Patio; Amazonas; Maranhao 1968; Di Cavalcanti; Jorjamado No
Cinema.
Aggiungiamo solo alcune cose
per chi non avesse mai visto i film di Glauber Rocha.
Nel primo gruppo non tralasciate di vedere
- Cabezas Cortadas, cioè Teste tagliate, del 1970, con Pierre
Clementi e Francisco Rabal. Girato in terra di Bunuel, a Barcellona secondo Rocha: “Non è un film,
perché il cinema del futuro sarà luce, suono, delirio, riprendendo la linea
interrotta da Bunuel”. Si tratta di quel tipo di film soprannominati “toro
miura”. Che è il toro che non crede alla bandiera rossa sveltolata dal torero.
Un film che non dà pace allo spettatore, lo sfianca o lo esalta. Guarda negli
occhi lo spettatore e lo obbliga a porsi il problema di cosa sta vedendo,
sentendo e comprendendo del film.
Nel secondo gruppo
- Storia del Brasile. 1974. Documentario “epico-allegorico” e
didattico pensato per le scuole e per la televisione sui 473 anni del Brasile
“moderno”. Un doc iniziato a Cuba, dove Rocha si era trasferito nel 1972,
durante l’esilio, grazie all’amicizia di Alfredo Guevara, direttore dell’Icaic,
il centro cinematografico cubano, e fondamentale consigliere culturale di
Castro.
Fallito il progetto di un
film sul colonialismo latinoamericano, America
Nuestra, a causa del forte contrasto estetico tra un visionario più che
marxista, atterrito dalla potenza virale e formale del cinema imperialista e un
funzionario aperto ma per forza di cose costretto a sottostare a vincoli più
dogmatici e “social-imperialisti”, si dedicò a un progetto più circoscritto,
apparentemente, ma che ricevette aiuti finanziari da varie organizzazioni
internazionali (comprese quelle sostenute da Jane Fonda e Rod Steiger) e doveva
rappresentare il manifesto di un cinema che, scavalcando il cinema novo,
divenisse la pietra miliare di un “cinema tricontinentale”. Sperimentando con
una certa ambizione relazioni suono e immagini innovative. E introducendo nel
documentario il procedimento del monologo interiore. Infatti. Senza libertà
creativa non c’è libertà politica.
Terminato a Roma nel 1974
grazie all’aiuto di Renzo Rossellini il documentario è stato presentato per la
prima volta in pubblico alla Mostra di Pesaro del 1975. Una versione lunga di 7
ore è stata successivamente ridotta a due ore e 45 minuti e diviso in due parti
(con l’Icaic che nel frattempo aveva ritirato la sua firma per divergenze
politiche, visto che il doc esclude il ricorso alla lotta armata per la presa
del potere in Brasile). Rocha lo ha co-diretto non senza dissidi con un altro
militante rivoluzionario brasiliano esule, Marco Medeiros decidendo di spalmare
sopra le immagini, ininterrottamente, una stentorea, ma asincrona, voice over. Come se il linguaggio
parlato, il dialogo tra arte e scienze sociali, pur pieno di tensioni tra
forzature politichesi e interferenze mistico-poetiche-religiose rochane, non
fosse sufficiente a raccontare le “cose vere” mostrate dalle immagini, vorticosamente
caotiche anch’esse. E viceversa.
Nella prima parte voice over
e musica commentano in modo solo apparentemente lineare e cronologico la storia del paese, le
strutture economiche imposte dai portoghesi, la lotta per l’indipendenza, le
contraddizioni tra latifondisti mercanti e industriali, Tiradentes, l’epoca di
Getulio Vargas, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, Goulart, fino
ai rapimenti terroristici di un diplomatico tedesco e di uno svizzero, e alla
morte di Lamarca. Rocha tiene presente l’insegnamento di Eisenstein e la
necessità di un “montaggio verticale” che faciliti una linea interpretativa
“aperta” e sfaccettata, anche se fattualmente rigorosa.
Nella seconda parte il caos
organizzato è più esplicito. I due registi dialogano e discutono su: meticciato,
rivolta di schiavi, letteratura, sterminio indigeno, violenza popolare, colpo
di stato militare, interpretazioni
divergenti sul sottosviluppo latinoamericano, importanza storica della
rivoluzione cubana e errori del partito comunista brasiliano. Ma non mancano
momenti di “squilibrio”, come il lungo insert su Castro Alves, adorato poeta
romantico rivoluzionario, critico della borghesia industriale, esperta
soprattutto nel creare sottosviluppo.
Storia del Brasile è un esempio di cinema didattico rosselliniano, è un viaggio critico,
di taglio economico, sociale, artistico e politico, nel passato del paese, a
cominciare dal 1500, anno della “scoperta” portoghese, che utilizza iconografie
popolari e erudite, foto, materiali filmati di repertorio, poesie, sculture,
musica e soprattutto i saggi di antropologhi, storici ed economisti, come
Gilberto Freyre, Fernando Henrique Cardoso e Celso Furtado (e tanti altri), che
hanno analizzato e spiegato nel profondo il cosiddetto “caos brasiliano”. I
brasiliani non conoscono la storia del proprio paese e non sono resi conto
che quel“caos” non è mai esistito, “è
solo il frutto dell’ignoranza e
dell’alienzione”. Non è casuale il fatto che il film in Brasile sia stato
proiettato per la prima volta solo nel 1985.
Nel terzo gruppo.
- Joriamado no cinema è un documentario del 1977 sul grande scrittore tropicalista Jorge
Amado, che ha fatto nel romanzo ciò che Brecht ha fatto nel teatro,
capovolgendo le cose e trasformando la moltitudine, più che il popolo, nel
personaggio principale del dramma e restituendo ai brasiliani il suo
linguaggio. Che l’occupato non parli più il linguaggio del’occupante. “Jorge è
la verità psicosociale delle masse oppresse”.
- Di Cavalcanti. Nel 1977 Glauber filma gli ultimi
giorni di vita di un grande pittore brasiliano. Come Wenders al capezzale di
Nichalas Ray? Non proprio. Glauber dirà “Qui Di Cavalcanti non è morto, ne
mostro il sorriso”. La morte è quel tema festivo nella cultura messicana che ossessionò creativamente Eisenstein, e i
film di Rocha sono pieni di morti, stragi, assassinii ed esecuzioni
sacrificali. Il Cangaceiro Corisco lo concepiva come metodo per realizzare la
profezia del rovesciamento delle classi: “il deserto che diventa mare e il mare
che diventa deserto”….
“Qualsiasi protestante
essenzialista come me non considera la morte una tragedia”.
leggerò domani con calma :)
RispondiEliminaMi piace anche leggere, leggo sempre gli ultimi libri qui https://altadefinizione.page/ A questo proposito, mi è piaciuto molto il sito, ti consiglio di leggerlo da solo, non te ne pentirai
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