Lav Diaz, Leone d'oro. Foto di Claudio Onorati (Ansa) |
Roberto Silvestri
Sorprendendo tutti ha vinto il
migliore film di Venezia 73, La donna che
partì. Non succede mai che vinca, in un megafestival, l’opera più
appassionante e dinamica, più sorprendente e incalzante. Il film più “cinema”. Qui
non si tratta infatti di prendere le parti dei cinefili drastici e pallosi o dei consapevoli e moderati tutori
del piacere schermico popolare, così divertenti. Non c’è stata nessuna guerra,
al Lido, tra Giusti e ghezzi o tra Straub e Grease.
Perfino Il viaggi del tempo di Malick
e Spira mirabilis esempi
piuttosto radicali di film non narrativi, sono piaciuti. La donna che partì ha l’high concept di unificare Randal Kleiser
con l’Empedocle. E’ concentrato e
serio, non adatto a perditempo, come Grease,
e contemporaneamente ferreo e impalcabile nella struttura, ma libero e giocoso,
come Dalla Nube alla Resistenza (o
una serie Usa tv), nel fraseggio. Ma. Ci
si chiede. Diaz? E chi è? Nessuno andrà a vedere il film nelle sale perché dura
come Via col vento, 226’, è in bianco
e nero, non ci sono star da rotocalco: quale distributore italiano avrà mai il
fegato di comprarlo? Heimat è stata
una eccezione irripetibile. Roba da festival. No. Non è vero. A parte che
questo bianco e nero (grazie anche a Daniele Ciprì, sta diventando il più
caleidoscopico dei cromatismi, e va di moda).
Charo Santos-Concio in La donna che partì di Lav Diaz |
Le Mostre d’arte (quando
funzionano) devono prefigurare profitti altri,
pensare al pubblico e al Mercato mondiale del futuro, mai a quello presente oltretutto
in crisi o alle periferie più marginali e subumane dell’impero. Se no
basterebbe il box office a staticizzare il mondo e chiudere la partita (e qui
entra in gioco l’importanza e la responsabilità che deve avere la critica
libera e che pesa e che parla a 500
mila persone). Inoltre Venezia ha un bonus, gioca anche a un altro tavolo. Ha
una seconda giuria. Gli Oscar. E adesso entrerà in competizione con Cannes,
Telluride e Toronto, proprio perché il suo scopo è anche diventare
indispensabile per le major e per il cinema che attualmente conta, cioè lanciare
film da Oscar (e quest’anno ne era pieno il programma, oltre 20 film americani,
cosa che ha scandalizzato, e non poco, Le
Monde e Liberation e ha fatto
bene).
Comunque, per ora, ha vinto
non il cinema settario e “fast food”, ma quello per buongustai aperti alla
multipla esperienza, che poi sono i critici riscrittori del “nuovo cinema a
venire” perché riesplorano quello antico, classico o dimenticato con maggiore
efficacia degli altri (cinefilo non è
una parolaccia, ma come ci insegna Steve Della Casa, non a caso autore di un
elogio della Lorenza Mazzetti, vuol dire solo questo: filologo acuto).
La donna che partì di Lav Diaz è un Leone d’oro che va per la prima volta in Filippine, e
giustamente consacra al massimo livello (dopo Locarno e premi minori a Cannes e
Venezia) uno stupefacente total filmmaker. Fa davvero tutto lui. Scrive produce
monta illumina musica, spesso interpreta… Le tecnologie oggi lo permettono. Il
basso costo molto lavorato è tornato a essere non solo il marchio della
flessibilità infernale, ma anche un occasione per cambiare lo stato di cose
vigenti. Come nell’epoca delle nouvelle vague e dei cinema free.
E’ la 27esima regia di un
cineasta che sta reinventando completamente il rapporto tra produzione e
ricezione di immagini. Mi ricorda, e non solo per i bianchi e i neri e i grigi
che danzano meglio di Ryan Gosling, degni della tradizione hollywoodiana
classica, più ancora che il maestro filippino di Diaz, realista ma con gli
artigli, Lino Brocka (che Cannes ebbe il merito di fiancheggiare in anni
altrettanti bui per Manila, quelli contro la dittatura Marcos), proprio Allan
Dwan (mai sprecare un solo secondo, mai giocare con gli orpelli) e il suo
occhio prensile (John Alton), o John Ford (che girava in modo tale che i suoi
film non potessero mai essere “rimontati” maldestramente dagli studi) o Orson
Welles, capace di trascinarci dentro l’inquadratura nei luoghi “paria”, negli
sfondi bui, e nei lati estremi, democratizzando la visione. Anche Diaz aggredisce esplora i nuovi
territori del piacere, dell’emozione schermica dentro e fuori l’immagine. E
polemizza contro chi pensa che per essere un buon regista basta provocare una
emozione devastante di commozione a comando, come chi prepara in clandestinità
una “bomba spirituale” di immensa potenza da far esplodere a orologeria, sulla
tre quarti della narrazione (è stato il tormentone di questa Mostra, il film
commuovente: da La la land a Jackie, da Paradiso a Nocturnal Animals hanno
tutti usato i trucchi prevedibili dell’ “esperto professionista”). Diaz, che è
più un operaio che un white collar
del cinema, oltretutto mi è sembrato l’unico capace di affrontare la grande sfida
con il cinema anfetaminico dei super eroi di oggi. I Michael Bay con i suoi
ritmi da Mach 2. Bisogna inventare “forme”, unità spazio temporali altrettanto
seducenti. All’immagine costretta ad annullarsi e a diventare vuota e cieca
(per merito del montaggio epilettico) e il diletto dello spettatore è
riempirla, re-immaginarla, Diaz contrappone un altro tipo di piacere visuale.
Rallenta. Ferma. Ha bisogno di far
giocare velocemente non i personaggi del film d’azione, ma l’occhio dello
spettatore, che diventa lui il Transformer delle immagini statiche, dei lunghi (qui non tanto) piani sequenza,
spostandolo continuamente anche nel fuori campo. Che è un fuori campo nel quale
si sovrappongono cronaca, storia, politica, spiritualità, musica, il thriller, la
suspense, la mutazione, la violenza, il carcere, la tortura… Insomma si è
schiacciati dalle informazioni-emozioni, nei suoi film. E non solo sulla
tre-quarti del tempo. Ma sempre.
In questo film poi, che più
tradizionalmente mette in scena un racconto pacifista di Tolstoj, Diaz è ancora
più del solito comunicativo, popolare, semplice, eccitante. Diaz infine ha svolto con più profitto il
tema-quesito scelto quest’anno dall’equipe di Alberto Barbera. Come
reinventare, dopo i giochi pirotecnici della postmodernità, il cinema di genere?
Recuperando il patrimonio etico perduto (ecco la soluzione del quesito) che gli
altri (a parte Ana Lily Amirpour, più vicina a Gianfranco Rosi che a George
Miller e all’America del passato Bush che al futuro distopico) non sanno come
maneggiare. Konchalovsky mette nazisti e comunisti sullo stesso piano (una
spanna sopra la cristianità ortodossa di una “russa bianca”. Putiniana?).
Chazelle torna all’individualismo drastico, perché quello democratico gli
sembra “ideologico” e si dimentica che il conflitto vincente/perdente è proprio
reaganismo volgare. Larrain fa dell’antiamericanismo da operetta (il premio per
la sceneggiatura è uno sberleffo involontario). Tom Ford è un po’ ipocrita
quando relega alla fiction, e all’equazione imposibile Jake Gyllenhal alias
charles Bronson, la sua attrazione fatale e funestaper “il giustiziere della
notte”. La scatola orgonica di Escalante è più sessuofobica che reichiana…
Insomma questa vittoria è proprio un
salutare shock. Come se Hitch avesse vinto l’Oscar, come quando Jonathan Demme
lo vinse. E’ infatti una vera sorpresa, nei grandi appuntamenti internazionali,
spesso pilotati da major, o succedanei locali, che vinca davvero il migliore.
Bisogna complimentarsi allora con chi ha scelto i film (per averne messi uno
più di una spanna superiore agli altri) e con la giuria, moderata nel
companatico, nei premi collaterali, ma radicale, e molto, nella sostanza. E
ricordare tutti i loro nomi. Laurie Anderson (Usa), Gemma Arterton (Gb),
Giancarlo De Cataldo (Italia), Nina Hoss (Germania), Chiara Mastroianni
(Francia/Italia), Joshua Oppenheimer (Usa), Lorenzo Vigas (Venezuela) e Zhao
Wei (Cina). Una giuria a maggioranza femminile, non fosse che al presidente,
Sam Mendez (Gb), spettano due voti. E a stragrande maggioranza occidentale.
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