domenica 11 settembre 2016

VENEZIA 73. Ha vinto il migliore. Cosa rara. Un commento sui premi, sulla giuria e sul comitato di selezione





Lav Diaz, Leone d'oro. Foto di Claudio Onorati (Ansa)
Roberto Silvestri

Sorprendendo tutti ha vinto il migliore film di Venezia 73, La donna che partì. Non succede mai che vinca, in un megafestival, l’opera più appassionante e dinamica, più sorprendente e incalzante. Il film più “cinema”. Qui non si tratta infatti di prendere le parti dei cinefili drastici  e pallosi o dei consapevoli e moderati tutori del piacere schermico popolare, così divertenti. Non c’è stata nessuna guerra, al Lido, tra Giusti e ghezzi o tra Straub e Grease. Perfino Il viaggi del tempo di Malick e Spira mirabilis esempi piuttosto radicali di film non narrativi, sono piaciuti. La donna che partì ha l’high concept di unificare Randal Kleiser con l’Empedocle. E’ concentrato e serio, non adatto a perditempo, come Grease, e contemporaneamente ferreo e impalcabile nella struttura, ma libero e giocoso, come Dalla Nube alla Resistenza (o una serie Usa tv), nel fraseggio.  Ma. Ci si chiede. Diaz? E chi è? Nessuno andrà a vedere il film nelle sale perché dura come Via col vento, 226’, è in bianco e nero, non ci sono star da rotocalco: quale distributore italiano avrà mai il fegato di comprarlo? Heimat è stata una eccezione irripetibile. Roba da festival. No. Non è vero. A parte che questo bianco e nero (grazie anche a Daniele Ciprì, sta diventando il più caleidoscopico dei cromatismi, e va di moda).  

Charo Santos-Concio in La donna che partì di Lav Diaz
Le Mostre d’arte (quando funzionano) devono prefigurare profitti altri, pensare al pubblico e al Mercato mondiale del futuro, mai a quello presente oltretutto in crisi o alle periferie più marginali e subumane dell’impero. Se no basterebbe il box office a staticizzare il mondo e chiudere la partita (e qui entra in gioco l’importanza e la responsabilità che deve avere la critica libera e che pesa e che parla a 500 mila persone). Inoltre Venezia ha un bonus, gioca anche a un altro tavolo. Ha una seconda giuria. Gli Oscar. E adesso entrerà in competizione con Cannes, Telluride e Toronto, proprio perché il suo scopo è anche diventare indispensabile per le major e per il cinema che attualmente conta, cioè lanciare film da Oscar (e quest’anno ne era pieno il programma, oltre 20 film americani, cosa che ha scandalizzato, e non poco, Le Monde e Liberation e ha fatto bene).

Comunque, per ora, ha vinto non il cinema settario e “fast food”, ma quello per buongustai aperti alla multipla esperienza, che poi sono i critici riscrittori del “nuovo cinema a venire” perché riesplorano quello antico, classico o dimenticato con maggiore efficacia degli altri (cinefilo non è una parolaccia, ma come ci insegna Steve Della Casa, non a caso autore di un elogio della Lorenza Mazzetti, vuol dire solo questo: filologo acuto).


La donna che partì di Lav Diaz è un Leone d’oro che va per la prima volta in Filippine, e giustamente consacra al massimo livello (dopo Locarno e premi minori a Cannes e Venezia) uno stupefacente total filmmaker. Fa davvero tutto lui. Scrive produce monta illumina musica, spesso interpreta… Le tecnologie oggi lo permettono. Il basso costo molto lavorato è tornato a essere non solo il marchio della flessibilità infernale, ma anche un occasione per cambiare lo stato di cose vigenti. Come nell’epoca delle nouvelle vague e dei cinema free. 
E’ la 27esima regia di un cineasta che sta reinventando completamente il rapporto tra produzione e ricezione di immagini. Mi ricorda, e non solo per i bianchi e i neri e i grigi che danzano meglio di Ryan Gosling, degni della tradizione hollywoodiana classica, più ancora che il maestro filippino di Diaz, realista ma con gli artigli, Lino Brocka (che Cannes ebbe il merito di fiancheggiare in anni altrettanti bui per Manila, quelli contro la dittatura Marcos), proprio Allan Dwan (mai sprecare un solo secondo, mai giocare con gli orpelli) e il suo occhio prensile (John Alton), o John Ford (che girava in modo tale che i suoi film non potessero mai essere “rimontati” maldestramente dagli studi) o Orson Welles, capace di trascinarci dentro l’inquadratura nei luoghi “paria”, negli sfondi bui, e nei lati estremi, democratizzando la visione.  Anche Diaz aggredisce esplora i nuovi territori del piacere, dell’emozione schermica dentro e fuori l’immagine. E polemizza contro chi pensa che per essere un buon regista basta provocare una emozione devastante di commozione a comando, come chi prepara in clandestinità una “bomba spirituale” di immensa potenza da far esplodere a orologeria, sulla tre quarti della narrazione (è stato il tormentone di questa Mostra, il film commuovente: da La la land a Jackie, da Paradiso a Nocturnal Animals hanno tutti usato i trucchi prevedibili dell’ “esperto professionista”). Diaz, che è più un operaio che un white collar del cinema, oltretutto mi è sembrato l’unico capace di affrontare la grande sfida con il cinema anfetaminico dei super eroi di oggi. I Michael Bay con i suoi ritmi da Mach 2. Bisogna inventare “forme”, unità spazio temporali altrettanto seducenti. All’immagine costretta ad annullarsi e a diventare vuota e cieca (per merito del montaggio epilettico) e il diletto dello spettatore è riempirla, re-immaginarla, Diaz contrappone un altro tipo di piacere visuale. Rallenta. Ferma.  Ha bisogno di far giocare velocemente non i personaggi del film d’azione, ma l’occhio dello spettatore, che diventa lui il Transformer delle immagini statiche, dei  lunghi (qui non tanto) piani sequenza, spostandolo continuamente anche nel fuori campo. Che è un fuori campo nel quale si sovrappongono cronaca, storia, politica, spiritualità, musica, il thriller, la suspense, la mutazione, la violenza, il carcere, la tortura… Insomma si è schiacciati dalle informazioni-emozioni, nei suoi film. E non solo sulla tre-quarti del tempo. Ma sempre.
In questo film poi, che più tradizionalmente mette in scena un racconto pacifista di Tolstoj, Diaz è ancora più del solito comunicativo, popolare, semplice, eccitante.  Diaz infine ha svolto con più profitto il tema-quesito scelto quest’anno dall’equipe di Alberto Barbera. Come reinventare, dopo i giochi pirotecnici della postmodernità, il cinema di genere? Recuperando il patrimonio etico perduto (ecco la soluzione del quesito) che gli altri (a parte Ana Lily Amirpour, più vicina a Gianfranco Rosi che a George Miller e all’America del passato Bush che al futuro distopico) non sanno come maneggiare. Konchalovsky mette nazisti e comunisti sullo stesso piano (una spanna sopra la cristianità ortodossa di una “russa bianca”. Putiniana?). Chazelle torna all’individualismo drastico, perché quello democratico gli sembra “ideologico” e si dimentica che il conflitto vincente/perdente è proprio reaganismo volgare. Larrain fa dell’antiamericanismo da operetta (il premio per la sceneggiatura è uno sberleffo involontario). Tom Ford è un po’ ipocrita quando relega alla fiction, e all’equazione imposibile Jake Gyllenhal alias charles Bronson, la sua attrazione fatale e funestaper “il giustiziere della notte”. La scatola orgonica di Escalante è più sessuofobica che reichiana… Insomma questa vittoria è proprio  un salutare shock. Come se Hitch avesse vinto l’Oscar, come quando Jonathan Demme lo vinse. E’ infatti una vera sorpresa, nei grandi appuntamenti internazionali, spesso pilotati da major, o succedanei locali, che vinca davvero il migliore. Bisogna complimentarsi allora con chi ha scelto i film (per averne messi uno più di una spanna superiore agli altri) e con la giuria, moderata nel companatico, nei premi collaterali, ma radicale, e molto, nella sostanza. E ricordare tutti i loro nomi. Laurie Anderson (Usa), Gemma Arterton (Gb), Giancarlo De Cataldo (Italia), Nina Hoss (Germania), Chiara Mastroianni (Francia/Italia), Joshua Oppenheimer (Usa), Lorenzo Vigas (Venezuela) e Zhao Wei (Cina). Una giuria a maggioranza femminile, non fosse che al presidente, Sam Mendez (Gb), spettano due voti. E a stragrande maggioranza occidentale.

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