Assalto al cielo di Francesco Munzi. Facciamo un 48 o meglio un 69 .... |
di Roberto Silvestri
C’è una scena in Assalto al cielo che non mi piace affatto. Anche se è bellissimo, intenso, commuovente questo documentario di montaggio in tre movimenti, più due pause di riflessione, sul lungo settantotto (1967-77) visto dal basso e non inseguendo le dichiarazioni dei suoi leader e dei loro nemici istituzionali. Il film è stato realizzato da Francesco Munzi, ritmato alla moviola da Giuseppe Trepiccione, con materiali scovati da Nathalie Giacobino, tra gli scaffali e la memoria del Luce, teche Rai, archivio Grifi, cineteca di Bologna, archivio audiovisivo del movimento operaio ("e democratico" come si dice da Craxi in poi) e forse anche altrove. E' stato prodotto da Roberto
Ciccutto (allora militante dell’estrema sinistra e ora al vertice dell’Istituto
Luce) ed è stato presnetato fuori concorso alla Mostra di Venezia e speriamo che adesso giri nelle scuole e scateni attenzione e dibattito.
La scena che non mi piace è quella in cui Giorgio Almirante insegue e
ferma, come se fosse un galantuomo, un pugilotto impasticcato di Avanguardia
Nazionale (o Ordine Nuovo) che rotea minacciosamente un bastone e vorrebbe
buttarsi contro il corteo di universitari e liceali che manifestano all’Università
La Sapienza di Roma.
Quel momento lo ricordo bene perché il nostro piccolo nucleo di attivisti, per la prima volta, trascinò a quell’appuntamento
di Movimento tutto il liceo Augusto (fino a quel giorno piuttosto addormentato
e in "zona nera") in corteo, dall’Appia a San Lorenzo, contro l’ennesimo arresto
provocatorio della polizia. Ce n’era una al giorno di quelle provocazioni,
quando andava bene. Se no si allungava quotidianamente la lista dei compagni uccisi, dei
picchetti aggrediti, dei feriti dai nazi davanti alle scuole, dei giornali
censurati e processati, per non parlare delle stragi, dei colpi di stato nel
mondo, dei bombardamenti clandestini in Cambogia, degli studenti massacrati a
Kent e Città del Messico, etc. Bombe incendiarie ma senza vittime, bombe carta e attentati di ogni tipo in tutto il mondo occidentale (in Usa e Gb, Francia, Germania, Italia e Giappone più che altrove) contro le sedi militari Usa contribuirono a fermare l'aggressione in sud est asiatico. Dopo gli assassinii dei Kennedy, di Martin Luther King, di Malcolm X, di Fred Hampton, di Che Guevara e dopo la baia dei porci, sull'onda della grande rivoluzione proletaria culturale cinese, la rabbia e l'umorismo, le droghe "che dilatavano la coscienza" e il rifiuto del lavoro tecnico intellettuale e operaio asservito allo sviluppo, mise in crisi ilmodo di produzione capitalistico, bloccò il normale sistema imperialistico e il pericolo che la rivoluzione globale si accendesse davvero divenne palpabile. Forse in Italia ci fu un Potere Operaio per qualche anno.
Si vede molto di tutto
questo, anche in inedite sequenze a colori. E nel bellissimo finale "sul comunismo come programma minimo", tratto dal film (al crepuscolo del movimento) di Alberto Grifi su Parco Lambro. Le immagini sono potenti, danzanti (il 68 fu soprattutto piacere, divertimento, ironia e entusiasmo collettivo) e parlano da sè per 72 minuti. Anche se la produzione è istituzionale (Rai Cinema e Luce) il film è una partitura musicale, difficile da trasformare in parole d'ordine subliminali. Resta un'opera extra parlamentare. E giustamente si è scelto di non utilizzare
scene entrate nell’immaginario collettivo, come Valle Giulia, la prima
autodifesa organizzata, o quella celebre, girata da Pasolini, nella quale il
commissario Calabresi dice al telefono alla signora Pinelli, raggiunta dalla
notizia della morte del marito non da lui ma da un giornalista dell’Unità, “sa
signora, con tutto quello che abbiamo da fare…”.
Un po' come Almirante, in quella
scena, che ora odioso quel giorno e invece sembra un agnellino. Insopportabile.
Poi si vedono le sue squadre
fasciste entrare a Legge e occuparla e da lì buttare di tutto dall’alto contro chi,
per rispetto alla costituzione (antifascista) vorrebbe cacciarli
(scandalizzando molto Nanni Moretti perché la violenza signora mia è sempre da
condannare) e deve per questo sobbarcarsi pure il lavoro di polizia e
carabinieri. Oreste Scalzone, uno dei leader del movimento, verrà colpito da un
banco scagliatogli addosso da un magnifico quarantenne palestrato e resterà
malandato alla schiena e al collo per un bel po’. Intanto Caradonna, figlio di
quel Caradonna benedetto da Padre Pio (perché massacratore di rossi) gironzola
soddisfatto: Domani gli organi di stampa e la televisione getteranno fango
sull’estrema sinistra violenta. Missione compiuta. Si vede tutto questo. Bene.
Ma non si vede quel che era
avvenuto poco prima. Ora il fucilatore di partigiani, precedentemente, roteava
come fosse un teppistello il suo “stalin” e aveva aggredito con la sua guardia
del corpo (che lui alla Céline avrebbe chiamato scagnozzi) il nostro corteo di liceali
che pacificamente aveva raggiunto lettere e filosofia. Anche in quella
occasione la polizia rimase a guardare, se non a picchiare in consonanza. Per
10 anni “il film” è stato questo. Repressione dura, lotta, reazione di difesa e
mass media che ingannavano l’opinione pubblica raccontando bugie. Anche
l’Unità, anche Paese sera. Per questo, per disperazione nacquero manifesto lotta continua e quotidiano dei lavoratori e poi le radio libere... Non siamo riusciti ancora a fare una tv... E il film,
senza neanche bisogno di ricorrere a didascalie e meno che mai a voce
esplicativa fuori campo, restituisce cronologicamente e emozionalmente la forza
interiore di quei ragazzi cool, la scultura intima di quegli anni, il modo di parlare, di pensare, di fumare, di
sedurre…..E sullo sfondo i cortei pacifici per il Vietnam libero, la strage di
Milano e di Brescia, la nascita dei gruppi e dei partiti della sinistra
extraparlamentare, gli scontri violenti,
i morti, l’autodifesa che diventa a poco a poco istigazione e quasi obbligo del partito armato…..
Ma torniamo a quella
sequenza. Francesco Munzi dirà: “Ma quelle scene non ci sono più, non le ho
trovate”. Già. Uno si chiede infatti come si fa a realizzare, pur con le
migliori intenzioni, un documentario sul ciclo di lotte studentesche e operaie
che resero il periodo tra il sessantotto e il settantasette uno dei migliori
decenni del secolo scorso, quando si sa che i materiali Rai per il 99% andarono
distrutti, per decisione arrogante e unilaterale di viale Mazzini. E che molto
girato del Movimento, archiviato da Silvano Agosti o dai Collettivi di cinema
militante, in quegli anni veniva continuamente sequestrato, requisito e
distrutto dalla polizia per eliminare tracce dei crimini dei loro
protettissimi fascisti, moderati, irriducibili o travestiti che fossero. Alberto Grifi era
in carcere, coinvolto nel caso Braibanti che fu la prova generale del complotto
contro gli anarchici e Pietro Valpreda. E avrebbe girato quei film su Parco
Lambro e sull’antipsichiatria che chiudono il film di Munzi e chiuse anche quel ciclo di lotte,
perché il movimento scoprì che perfino i gruppuscoli erano diventati
imprenditori a caccia di profitto sulle spalle dei proletari. Avanguardia Operai e perfino Re Nudo e Capanna si erano già
“berlusconizzati” ante litteram.
Intanto fuori dal Movimento si
sbatte il mostro in prima pagina e l’opinione pubblica abbocca. Valpreda non
verrà neache tirato fuori quando il
manifesto lo presenterà alle elezioni. L’intero paese pensava che fossero
stati gli anarchici a mettere le bombe alla Banca dell’Agricoltura. E l’intero
paese pensa tutt’oggi che, bomba dopo bomba si arriverà al rapimento Moro e
alle Brigate rosse come un'unica ondata di violenza estremista crescente. E
quell’assalto al cielo verrà chiamato, nel luogo comune, “gli anni di piombo”, mentre
plumbei semmai erano stati i dieci anni precedenti, quelli del maccartismo, del
bigottismo, della repressione sessuale generalizzata, della chiesa cattolica in
crociata, delle gemelle Kessler che in tv mettevano le calzemaglie scure e
Dario Fo veniva cacciato perché non si fa mai satira sul potere.
Nel 1970 Julian Beck e il Living arrivano a Lettere, e in una sala gigantesca e affollata creano un happening: spogliamoci tutti nudi e danziamo come un collettivo indistruttibile. Ma arriva il questore con la fascia e sguinzaglia i celerini. L’Italia in stile Isis in quei
dieci anni fu bloccata, sparì. E il paese, per una volta, fu tolto di mano ai
suoi padroni di sempre. Durante e dopo il lavoro.
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