"La grande bellezza" di Paolo Sorrentino |
di Mariuccia Ciotta
Febbre italiana lungo l'Hollywood boulevard, La grande bellezza è stato nominato nella cinquina dei candidati all'Oscar per il miglior film straniero, e la festa è già cominciata intorno al Dolby Theatre, aggregato monumentale in stile assiro-babilonese incastonato tra caffé, fast-food, catene di t-shirt, negozi di souvenir.
Frenetica e chiassosa,
aspettando il 2 marzo, la festa, in realtà, è sempre in corso tra
i corpi spintonati di milioni di turisti su e giù per il largo
marciapiede losangelino dove si incontrano uomini-ragno,
frankeinstein, pin-up in calze a rete, batman, marilynmonroe,
maschere iperrealistiche che agganciano il passante e lo schiacciano
tra muscoli tatuati, cosce variopinte, balletti selvaggi e risate per
una foto ricordo... Oh, non saremo a Roma, davanti al Colosseo con i
centurioni dalla corazza d'oro e il pennacchio a scopa? E già
dentro il film di Paolo Sorrentino?
Il Dolby Theatre a Los Angeles |
Il set è giusto per
accogliere La grande bellezza,
“metafora del declino italiano”, come ha scritto il New
York Times, o al contrario della mancanza
d'immagine, di un cinema non più metafora ma scatto fotografico da
telefono digitale tra la folla globale del Dolby Theatre. Fotografia
dell'assenza di visione.
Dov'è la forma critica
dell'obiettivo di Fellini che riprendeva il salotto marcio romano con
i suoi intellettuali sgangherati e cinici? La “dolce vita”, al di
là del suo glamour internazionale, non indicava il languore festivo
dello stile romano, ma l'anima corrotta e criminale della borghesia
arricchita nel dopoguerra. La “grande bellezza” invece è solo
segno di sé, aderisce in pieno senza uno scarto, senza un sussulto,
alla sagoma del disincanto.
Sguardo illustrativo del
panorama circostante, nani e ballerine da repertorio, grossi e grassi
preti, prostituti e freaks, l'armamentario dejà
vu sfila nell'orgia della Grande
bellezza, dove non c'è un punto di vista
sulla massa di carne in eccesso, e la macchina da presa ciondola
inerte nei vortici subumani.
Dov'è il barocco, che non
indica un surplus di materia come scritto da alcuni, ma riconfigura
lo spazio, segna vuoti e pieni materici? Niente barocchismi e niente
formalismi. Magari. La dismisura spettacolare del film, “sformato”
nell'accumulo di presenze, è il contrario dell'invenzione di nuovi
percorsi visivi, una baldoria carnevalesca ossessiva, depurata
dall'ossessione. Si zoomma sui fotogrammi, a sbeffeggiare l'arte di
“Pollock” o di Abramovich, negazione dell'informe folle,
evoluzione darwiniana senza lo slancio della vita.
Davanti al Dolby Theatre |
Il problema non è che La
grande bellezza registri la brutta Italia di
oggi, affogata nel cinismo, svenduta e cialtronesca, ma l'essere al
di sotto della sua mostruosità, incapace di trasmetterne errori e
orrori, e di spiccare il volo immaginifico oltre il compiacimento del
proprio degrado. Un film fermo in quel “cinema medio” che è
cieco, anti-emozionale, decorativo.
La candidatura all'Oscar,
si dice, dovrebbe comunque inorgoglire e rendere più indulgente la
stampa italiana che lo ha maltrattato alla prima di Cannes. A
preoccupare, però, non è il consenso americano, gli elogi delle
istituzioni, l'euforia dell'ambiente produttivo, ma la censura del
pensiero critico verso il cinema e verso l'Italia. Nessuno dei due,
cinema e vita, assomigliano al film di Sorrentino.
Il non-cinema e la
decadenza putrescente del mondo occidentale devono affascinare la
Hollywood Foreign Press, che l'ha premiato con il Golden Globe, e
anche i colleghi dell'Academy, inebriati dall'istantanea di un paese
che non sa più “vedere”.
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