venerdì 30 settembre 2022
"Ti mangio il cuore" di Pippo Mezzapesa. Il bidone come western puro
Roberto Silvestri
Condurre una vita con dignità non è facile. Impariamo qualcosa da Rosa di Fiore, tradire è eticamente più che corretto. Indigo Film che produce non voleva assolutamente (e giustamente) una replica di Gomorra (e simili) ormai gioiello alla moda cannibalizzato fino all’osso. Anche se il cognome del montatore semiesordiente, Vincenzo Soprano, parrebbe sospetto. Ma il suo lavoro free jazz basato sulla “fonologia della pausa” (come avrebbe detto Umberto Eco) e sul silenzio dello skratching, è mozzafiato. Da David di Donatello. Scrive con acutezza da Venezia il critico indiano Akash Deshpande: “Il modo in cui Soprano bilancia i silenzi con i raccapriccianti omicidi pieni di rabbia è geniale. L'intelligente mix di elementi della sceneggiatura rende il film costantemente coinvolgente e infinitamente avvincente. Cattura la tua totale attenzione. Anche i momenti di attesa destinati a concludersi con una nota tragica sono presentati con la necessaria suspense”.
Proprio come la fotografia dalle mille sfumature di grigio, di nero e di bianco di Michele D’Attanasio. Se le sue inquadrature suggestive e significative rendono il film un'esperienza cinematografica che vale la pena vivere su grande schermo cinematografico ricordiamoci che Mezzapesa non ci siede sopra soddisfatto. Ma crea un’inedita atmosfera mai calligrafica, anzi aniconica, nel senso che non si affida mai a repertori standard cui alludere (la scena d’amore bianco-su-bianco nella salina; le esecuzioni; i dibattito da circolo cittadino, la stessa processione e ‘fuga’…). Questo può generare noia, inquietudine. Inoltre. Ma. Attenzione alla personalità dei pantaloni scelti via via da Ursula Patzak (che rifanno la storia del cinema, da Germi a Russ Meyer) ai quali Theo Teardo dà sostanza sonora vibrante e obliqua.
Dunque bisognava far slittare sensazione, percezione, immaginazione, memoria dello spettatore fuori dalle icone ripetitive del thriller malavitoso nazionale, a sfondo neorealista. Il baricentro simbolico del film viene così consegnato interamente a Marilena (Elodie) che entra nella storia del cinema italiano con la grinta e la furia e gli occhi (truccati come nel cinema muto affinché ipnotizzi lo spettatore) di una Tura Satana. I suoi due antagonisti, Francesco Patané e Francesco Di Leva, sono pedine del suo romanzo di formazione, verso la libertà dell’amore (Andrea Malatesta la spinge naturalmente al doppio tradimento, di sangue e di talamo) e la libertà della ragione (quando capisce dai suoi falsi movimenti di far parte di un gioco doppiamente miserabile) e oltre: l’esodo, una seconda vita. Mezzapesa la tratta come Lev Kuleshov. Funziona.
Così Lidia Vitale e Tommaso Ragno, che sono membri della famiglia mafiosa, i Malatesta, ma più da Bob Wilson o Pina Bausch che da Sollima jr. E Nicola Davide, Mauro Lamanna o Kalysie Pagan, i loro rivali Camporeale, che si spingono verso la commedia stracult e l’ibridazione scandalosa. Il prete, Massimo Iannantuoni, poi, dimostra definitivamente che non esistono piccole parti ma solo piccoli attori che Maria Teresa Monco (casting director) sa come evitare. Qui introvabili. Lo spettatore italiano ne sarà molto disorientato se non disturbato. Proprio come in un western epico di William Wellman o di Glauber Rocha. Già. Siamo nel West mentale, senza legge e senza dio.
Lunga parentesi
Nel western classico nordamericano, alle scaturigini dello sviluppo capitalistico, antropofagico per definizione, sono tre le “famiglie”, da sfida all’Ok Corral, che si combattono cioè all’ultimo sangue per la supremazia nei nuovi territori: i piccoli coltivatori indipendenti e “democratici”, ma dall’estremismo puritano pericolosamente ambiguo; gli allevatori, ossessionati dai muri e dai fili spinati (L’uomo senza paura di King Vidor); gli speculatori terrieri “federalisti” e molto atei, collegati con i poteri forti ferroviari e bancari dell’Est. Edgar Allan Poe ne fa una perfida satira nel 1843 in Didling Considered as One of Exact Science cioè “La bidonata come scienza esatta”.
Quest’ultima famiglia, la più organizzata e famelica, e ben spalleggiata dall’esercito di Washington, sempre pronto a tenere a distanza i quarti incomodi alieni (nativi nervosi, francesi, sudisti impazziti, messicani, californios come Zorro, schiavi insorti…), completerà la “conquista wasp del West”. Secondo un’interpretazione della costituzione americana (sintomo della rivoluzione anti-inglese tradita o almeno incompiuta) che tende piuttosto (“In God We Trust” leggiamo sui dollari) all’eguaglianza e alla tutela religiosa dei grandi proprietari che non dei semplici cittadini. Dei redditi più che delle persone.
Il western del crepuscolo (Furia selvaggia di Arthur Penn, 1958; Solo sotto le stelle di David Miller, 1962…) che anticipa l’autocritica New Hollywood a proposito di ideologia della Frontiera, e del divorare i pesci piccoli come comandamento unico e obbligatorio, non a caso inizierà a raffreddare l’entusiasmante epopea progressista, utilizzando un bianco e nero più riflessivo e saggistico, visto che anche di genocidio si trattava. L’ultimo John Ford e l’ultimo Howard Hawks ci piacquero molto, ma erano “diversamente classici”, e furono accolti gelidamente da critica e pubblico, come fossero opere di registi pentiti.
La semplificazione, di classe e di etnia, attuata invece dal western spaghetti italiano anni 60-70, gioconda e umoristica parodia di un complesso snodo storico-politico altrui, rende più gigantesca e cruciale la ferocia del conflitto, zoommata secondo una sensibilità sia terzomondista che Pop Art (almeno nei suoi esiti più alti, da Leone-Eastwood a Questi, da Lizzani a Sollima e Corbucci). Il contesto filologico importava molto poco ad Almeria (dove il nostro cinema era stato militarmente cacciato dall’occupazione Usa di Cinecittà) e non ricordo, infatti, un solo western spaghetti in bianco e nero.
Se non uno. L’improprio, obliquo, contadino, metaforico Fuoco! di Gian Vittorio Baldi, troppo sottovalutato film del 1968 - e che del 1968 è drammatica allegoria, visto che la rivolta sociale obbligatoria degraderà nella psicosi familiare e infine nella follia individuale - aperto dalla sequenza di una statua della Madonna in processione, devastata dalle fucilate.
Adesso non si osa più sparare direttamente alla Madonna, ma, obliquamente, o di sponda. Ci pensa Pippo Mezzapesa a farlo. Sangue indiretto che ne imbratta la scultura. Sangue indiretto che ci ricorda famose e controverse stimmate, un’icona potente della zona scelta come set, il Gargano, nel foggiano, ma dell’est, del film Ti mangio il cuore….
E Padre Pio vuol dire per me soprattutto ristabilire una triangolazione: il millenarismo populista (“il santo di Pietralcina ha combattuto il male tutta la vita” secondo Papa Francesco, ma non secondo Papa Giovanni XXIII che lo trattò piuttosto da “bidonista”); lo strapotere capitalistico dei latifondisti pugliesi, appoggiati dai carabinieri di stato; infine i braccianti - oggi transnazionali - perennemente presi a fucilate. E poi i Di Vella e il Caradonna nonno, la legge privata nella zona imposta con le armi perché di appalto si vive nelle repubbliche imperfette…Come nei villaggi western. E infatti agli attori del film foggiano – terra della quarta mafia - è stato consigliato di vedere molti western.
Fine parentesi
Lì, in Fuoco!, la tragedia individuale che portava alla follia scaturiva dalla disoccupazione atavica, qui, in Ti mangio il cuore (che diventa nel titolo internazionale un più mélo Cuori ardenti) la follia collettiva è frutto dell’orgoglio e della gloria di due famiglie potenti e criminali che scatenano un gioco di vendetta ciclica e reciproca per imporre a pallettoni la propria supremazia. Più bestiame. Più estorsioni. Più taglieggiamenti. Più licenze balneari… Ma di droga e prostituzione e ludopatie si parla poco.
L’umorismo feroce e macabro di questo copione di Mezzapesa (Antonella Gaeta e Davide Serino), già sbandierato nella saga del becchino Pinuccio Lovero, e del libro inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini (sulla vera storia di Rosa Di Fiore, prima pentita della mafia garganica …) non solo si dilunga sul matriarcato come macchina machista del potere (cinematograficamente non si può non pensare a James Cagnery di La furia umana o a De Niro e Bruce Dern di Il clan dei Barker, pupazzi nelle mani delle loro mamme Margaret Wycherly e Shirley Winters, disposte a tutte le peggiori aberrazione proprio come Lidia Vitale pur di trattenerli a sé, satellizzati) fa capire che, in questo paese di segreti e di “bidoni” di stato, bisogna tenere sempre ben presente il fuori campo. E’ lì che si manovra, astutamente, cinicamente e per il bene gattopardesco. Tutto deve cambiare per essere diversamente uguale.
Si macinano sentimenti coriacei: rispetto, coerenza, orgoglio, vendetta. Quelli che fanno vincere elezioni. Ma c’è ancora chi è capace di tirarsi fuori da un set mentale psicotico e di cambiare gioco. Bisognerà solo attuare piccoli gesti cannibalici, di cancellazione materialistica, di bontà non buonistica, secondo l’indicazione postsadica di Luca Guadagnino (Bones and All) o del suo maestro Naghisa Oshima L’impero dei sensi. Dove il cannibalismo è segno di una ingiustizia tangibile, di un disequilibrio fertile nel rapporto erotico, estremo come programma minimo. E di una serie di film che oggi andrebbero rivisti: Nobi di Kon Ichikawa (1959), sbranarsi per sopravvivenza e fino a I sopravvissuti delle Ande di René Cardona jr (1976); I giovani cannibali (1960) di Michael Anderson (1960),il divorarsi perbene. L’urlo di Tinto Brass (1968), mangiato vivo dalla censura. I cannibali di Liliana Cavani (1969), dove vince il divorarsi moderato. Duetto per cannibali di Susan Sontag (1969), racconta come i vecchi mangiano i giovani per draculismo congenito. Poi gli hippies di Week-end di Godard e Pierre Clementi di Porcile (meglio il sesso cannibale che quello zoofilo). In Macunaima, per tornare al cinema novo brasiliano e a Glauber Rocha, Joaquim Pedro de Andrade ne fa l’allegoria del tropicalismo e dell’antropofagia, cioè di quella forza ibrida e contaminativa che creò il nuovo uomo brasiliano, al di là del nero schiavo, dell’indio perseguitato e del portoghese povero e sfruttato (quello che fu sterminato dalla repubblica brasiniana appena nata perché diventato movimento millenarista ribelle). Ovviamente La notte dei morti viventi di George Romero (1969) che, e non solo per il bianco e nero della cupissima fotografia alla quale Michele D’Attanasio “ruba” quel senso d’orrore ancestrale.
Ps. Se si parla di Michele Placido (qui perfetto) si racconta troppo la trama .... Le foto 8 e 9 sono tratte da Fuoco! di Gian Vittorio Baldi. Qui sotto il regista Pippo Mezzapesa
Mi scusi ma non si ha tutto questo tempo per star dietro a tutti i suoi paragrafi, parentesi apri e chiudi, punti e virgole. È una tesina su i generi cinematografici o sull'estetica? È soltanto un 114' e neanche bello (per sintetizzare!). Suvvia!
RispondiEliminami scusi per la risposta che arriva a un anno esatto dl commento. si è vero, un tempo sarebbe stato affidato a un vice che se la cavava con 20 righe : neanche bello. ma l'anno scorso notavo che anche alla mostra di venezia stava avvenendo uno strano avvicendamento antropologico con un preoccupante dominio schiacciante del "pensiero unico critico" piuttosto puerile nell'approccio ai film (e quest'anno la conferma si è vista nel trattamento dei film di polanski di Michael Mann, nell'ignorare la bellezza del doc di wiseman e nella supervalutazione del lungo film (neanche bello) di Lantimhos e Larrain. una massa critica molto prepotente che ogni tanto è bene sculacciare (a lungo). Mezzapesa inventa un sentiero dopo l'altro, non si fa catturare dallo stile, va seguito attentamente.
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