lunedì 12 settembre 2016

VENEZIA 73. I figli del Leone. Sul concorso "maggiore" e sui premi

Mariuccia Ciotta

I giurati di Sam Mendes, divisi in tutto, non prendevano neppure il caffé insieme. E se Lav Diaz, l'unico Leone possibile, ha prevalso, i leoncini precipitati a pioggia sui film più disparati ha provocato una forte dispersione critica, anche a causa di un regolamento (assurdo) che non permette a un solo titolo di accumulare premi.
Così, ecco che il più grande cineasta di oggi dopo Diaz, e prima di Terence Malick, è lo stilista Tom Ford che con il suo Nocturnal Animals vince il Leone d'argento – Gran Premio della giuria. In questa opera seconda, Ford, per non rischiare, confeziona due film in uno, il primo distillato di haute couture, come l'elegante esordio di sette anni fa, A single man, e il secondo un “giustiziere della notte” con feroci stupratori dalla camicetta firmata e sceriffi killer, storia che non pone problemi né di stile né morali essendo un racconto che la protagonista legge e visualizza in incubi a occhi aperti, dando fondo alla memoria cinematografica collettiva. Va bene il ritorno dei generi, anche degenerati, ma gli autori di oggi, in prevalenza europei, rischiano la citazione farsesca dei classici, e addirittura di Tarantino.
Un altro Leone d'argento, questa volta alla regia, è stato diviso in due tra il polipo alieno pansessualista del messicano Escalante e la requisitoria in bianco e nero del nazismo, riveduto da dio e da Konchalovsky direttamente in Paradise, la produzione, però, è russo-tedesca, come si può notare dal fascinoso giovane aristocratico che crede negli ideali SS, una specie di Eichmann in bella forma, e dalla seducente aristocratica russa fuggita dai bolscevichi, fatta santa anche se collaborazionista (poi pentita).
Il premio più inconcepibile, però, è andato a Jackie del cileno Pablo Larrain, in cima alle stelline dei critici dopo La La Land di Chazelle, che insegna a fare i musical senza coreografie né ballerini, basta la performance solitaria e atletica, come in Whisplash.
Il premiato, in realtà, è per Noah Oppenheim, autore della sceneggiatura sui quattro giorni dopo l'assassinio di John F. Kennedy vissuti dalla vedova, interpretata da Natalie Portman, che ha perso la Coppa Volpi, andata a Emma Stone (La La Land), sempre nel gioco perverso di incastri. Jackie, infatti, era il miglior candidato per la categoria miglior attrice protagonista, e avrebbe potuto conquistare anche un premio per la regia. E invece gli è toccata lo script, che Larrain ha affidato a Oppenheim, newyorkese, produttore e sceneggiatore di serie tv ambientate in un mondo distopico, The Divergent e Maze Runner, e co-ideatore del programma Mad Money, al quale si ispirò Jodie Foster per Money Monster, contro Wall Street.
La sceneggiatura di Jackie attraversa in segreto l'abbagliante trama visiva di Larrain, al quale non piacciono i film che rispondono alle domande perché è il pubblico a dover riempire i vuoti. Il suo Jackie è un tale cumulo di risposte sbagliate che in effetti è meglio evitare le domande. Oppenheim si affida innanzitutto alla Commissione Warren per raccontare l'assassino di John F. Kennedy, un presidente così fatuo, solo glamour e mondanità, che non si capisce chi può averlo ammazzato se non lo spostato Lee Oswald, il “comunistello”, il quale fu ucciso da un altro fuori di testa, Jack Ruby, mentre Jackie si stava provando i completini Chanel e cercava di dare un po' di sostanza presidenziale al marito sciupafemmine leggendo Lincoln.
L'uomo al quale nel film viene attribuito, dal fratello Bob, il tentativo di invadere Cuba, mentre John si oppose alla Baia dei Porci, e per questo, è l'interpretazione più accreditata, fu ucciso da agenti anti-castristi in combutta con la Cia, era, si legge nella sceneggiatura premiata alla 73 Mostra di Venezia, un vanesio incapace di intervenire su diritti civili, razzismo, guerra in Vietnam. Il presidente che voleva essere Re Artù e ogni mattina ascoltava le musiche di Camelot, il suo mondo ideale, l'America in forma di musical.
Il film ha molto commosso per l'intensità di Natalie Portman, e oscurato l'obiettivo di un regista che ha raccontato superbamente il Cile politico e che a sorpresa sceglie per il suo primo lavoro americano Jacqueline Lee Bouvier. Ma è sul capezzale di Kennedy che si protende, dopo il Post mortem di Allende. E lo fa nel modo più sprezzante possibile e più subdolo, spingendo in primo piano le lacrime di una donna, colpevole di aver condiviso una presidenza di "puro spettacolo", così come i funerali del presidente ucciso a Dallas. La speranza democratica Usa, dopo gli anni del maccartismo, si fermerà con l'omicidio di Bob Kennedy e di Martin Luther King nel 1968, e s'infiammerà nello stesso anno in tutto il mondo.


Nessun commento:

Posta un commento