Vangelo di Pippo Delbono |
Roberto Silvestri
VENEZIA
Cos'è il cinema? Si
chiedeva Godard... Dare alla luce. Ci vogliono mesi... O meglio. Come
nella poesia, come nella fede, come in un film dell'ultimo Malick.
“Quel che trasforma la notte in luce”. Un film può essere fatto
a occhi chiusi e budget zero. Immaginando. Immaginiamo che un
cineasta oggi voglia fare un film sulla tragedia del millennio,
l'esodo dal sud del mondo. Come fa a mettersi all'altezza della
tragedia, senza sembrare un coyote che aspetta il cadavere già
pronto? Come agisce per non approfittare, strumentalizzare o
spettacolarizza le emozioni più precotte? Intanto ci vogliono mesi.
Almeno un anno e mezzo di esperienza e di riti comunicativi sul
campo. Inoltre. Ci si deve mettere a nudo. Si deve fare come Edipo.
Deve accecarsi. E poi, se gli riesce, ritrovare la vista.
Alle Giornate degli
Autori, ma solo come evento speciale, un Vangelo, produzione
italo-svizzera-belga molto poco “letteralista”, tra staffilata
anarchica di Bunuel/Ferreri (“Come sono buoni i bianchi”),
sberleffo e moda selfie, coreografia blasfema e
metabolizzazione-incorporamento masochista alla Pasolini. Pippo
Delbono aveva quasi promesso alla madre cristiana morente un film
sull'amore, o meglio sul Vangelo. Non essendo l'eclettico regista -
indocile al rito degli Stabili - credente nello stesso dio (non
voglio un dio della menzogna, della paura, un dio sessuofobico, un
dio della famiglia, un dio dei miracoli, quasi un “Padre Dio”
succedaneo di Padre Pio) anzi avendo della spiritualità un'idea
piuttosto scomposta, ludica e orientale (“io sono buddista –
scrive Delbono, credo che Dio sia stata un'invenzione dell'uomo), e
dunque senza inondare della propria cultura quelle altrui, il Vangelo
promesso da Delbono diventa carne: un film dark, corale e
policentrico, a set circolare, ambientato in un centro profughi e
recitato coinvolgendo a poco a poco nella drammaturgia e nella danza
i corpi dei migranti curdi, arabi e subsahariani sopravvissuti al
mare e che si lasciano alle spalle un mondo ricco (non come Pil) e
offrono la loro speciale “nuda vita” in cambio. Tesori che pochi,
come Delbono, hanno il desiderio, il tempo e l'attenzione di scoprire
e valorizzare, per impreziosire di suoni, ritmi, silenzi, fiabe e
concetti, il nostro vivere.
Sul mare, purtroppo, non
si cammina, se non grazie agli effetti speciali. Nel mare si affoga
quando la barca cede e in terra ferma l'egoismo avido di chi comanda
i giochi economici del mondo afferma: “qui la barca è piena”. Un
profugo dopo molte titubanze e diffidente racconta quasi tutto, il
perché del partire, come attraversare il deserto, le percosse e la
prigionia da parte di chi ti utilizza come un bene bancario, la morte
degli amici e dei parenti in mare... Sul capitolo maltrattamenti e
angheria in Italia il film, per non subire ridondanze, si affida alla
ricezione del pubblico consapevole. L'amore per i dannati della
terra, la rabbia per la sorte degli “ultimi”, degli emarginati,
degli sfruttati, dei senza documenti, è gesto squisitamente
rivoluzionario, se si vuole e da subito la fine dello sfruttamento e
della schiavitù del lavoro e delle rapine dei tesori minerari
altrui.
E la forma artistica adeguata è la danza, possibilmente
slava (come avviene qui, e Enzo Avitabile, Piero Corso, Antoine
Bataille, Petra Magoni e Ilaria Fantin sanno come simularla e
dinamizzarla). Mentre il “requiem” arriva solo quando prevale il
paternalismo compassionevole e lo sdegno evangelico che garantisce,
eternamente, i potenti: non cambierà mai nulla. Per questo Larrain,
che estetizza la politica mentre crede di fare polemica, sceglie la
forma requiem per il suo Kennedy di nome Jackie,
dimenticando che in quel caso come in quello di tutti i presidenti
Usa assassinati, o morti, come è accaduto a F.D.Roosevelt, per
fortuna al momento giusto, si puniva l'aver osato modificare le
regole del gioco. Altro che “politica-immagine”. Altro che Mito.
Altro che Presidente come pura facciata, glamour, look e Hollywood.
Neppure Warhol era riuscito a toccare vette di superficialità
talmente imarazzanti.
Vangelo di Pippo Delbono |
Ma torniamo al Vangelo. Con Delbono che
si aggira tra i profughi, senza approdo, tra dolorose memorie e
incerto futuro, con un'aria da Tiresia. Una malattia agli occhi
amplia infatti le sue facoltà vocali, tattili, olfattive,
acustiche...
Un centro profughi, in
Italia, è nella geografia emozionale della contemporaneità il
perfetto Limbo, una magmatica terra di nessuno, un non luogo senza
tempo, tra l'inferno di chi non ce l'ha fatta e il paradiso di chi il
permesso di soggiorno è riuscito a strapparlo all'Europa. Proprio
come chi, in Palestina, combatteva tra l'incudine dell'impero romano
e il fanatismo ottuso dell'ortossia monoteista o in Africa e Medio
Oriente è costretto a scappare per guerre o “sottosviluppi” di
equivoca origine. Da qualche anno Delbono dirige film ripresi con il
cellulare e in questo caso l'azzeramento della macchina cinema,
l'alleggerimento della troupe Maurizio Grassi fonico e Fabrice Aragno
al montaggio e come secondo operatore al cellulare) permettere una
orizzontalità di comunicazione e di potere che, in qualche modo,
ricorda quella apostolica (anche se il finish finale è del
regista-messia). Quella di trovare un cammino comune, insieme.
Differente.
Pippo Delbono in Vangelo |
****
Our War di Bruno
Chiaravallotti, Claudio Jampaglia e Benedetta Argentieri (fuori
concorso).
Deserto, metropoli,
ghiaccio, il muro che ti divide dal nemico. I proiettili che
fischiano a un palmo dal naso.... La geografia è davvero patafisica.
Svezia, Milano, il confine tra Siria e Turchia, Rojava, Raqqa,
Carolina del nord, Washington....
Karim, Joshua e Rafael. La
parola è a tre combattenti per la libertà e la democrazia. Oggi. In
Siria, al fianco dei curdi e della loro organizzazione politica Ypg
(Unità di Protezione Popolare), nata dal Pkk di Ocalane che conta
oltre 15 mila combattenti, tra uomini e donne. Contro l'Isis, questo
oggetto “misterioso” della controrivoluzione globale. Non si sono
solo i 30 mila ragazzi pronti a morire per la fede islamica molto mal
compresa. E l'Ypg, parola di Joshua, se non fosse attaccata da
Erdogan e da Assad sbriciolerebbe senza problemi un'Isis
indisciplinata e dilettantistica.
Our War |
Ma attenzione. Non si
tratta, nel caso dei nostri tre eroi, di perditempo che vanno laggiù
con il principale obiettivo di scattare qualche foto esotica,
intralciare le operazioni militari contro i fanatici fondamentalisti
tagliatori di teste e tornarsene in Occidente con il ghigno
dell'eroe. Ce ne sono, ci dicono. Qui si tratta di ragazzi seri e
consapevoli, disciplinati e esperti di armi, dalla coscienza politica
profonda, che vorrebbero una Siria pluralista e multiconfessionale
senza un dittatore come Assad a proteggerla. Potrebbero essere
paragonati ai militanti rivoluzionari, anarchici, socialisti,
comunisti e democratici radicali che, da tutto il mondo occidentale,
andarono a combattere per la repubblica spagnola contro il fascismo
nel 1936. Anche se ho l'impressione che la nostra stampa li tratterà
più come quegli immaginari rivoluzionari da salotto di cui fa la
satira Citto Maselli in Lettera aperta a un giornale della sera,
indicando in chi è più a
sinistra del Pci, un sicuro combattente pronto a unirsi ai vietcong e
a Ho Chi Minh per combattere l'imperialismo americano.
Il primo di questi
militari veri è Joshua, 30 anni, che viene dalla Carolina del nord,
ed è addirittura un ex marine, politicizzatosi in Iraq e disgustato
dalla politica estera del suo paese che sta distruggendo artatamente
la Siria per rendere più semplice il controlo dell'area da parte
dell'alleato Saudita. Va a raccontare quel che pensa addirittura alla
Fox tv e sventola la bandiera Ypg davanti alla Casa bianca. E' uno
dei primi foreign fighters a unirsi ai curdi e in 9 mesi ha gestito
un'armeria, costruito bombe, guidato carri armati e difeso villaggi
in prima linea. Non è d'accordo con le utopie comuniste dell'Ypg. Ma
sa di combattere dalla parte giusta.
Il secondo, Rafael, 28
anni, padre, è un cristiano, amante della musica, fa la guardia del
corpo svedese, e protegge donne vittime di stalking. Ma è di origini
curde, che sente il richiamo della patria, sotto tiro da decenni in
Iran, Iraq e Siria. Il terzo è Karim, 25 anni, militante comunista
di origini marocchine, padre partigiano, pugile dilettante, che si è
politicizzato nei Centri sociali a Milano ed è diventato a Kobane
tiratore scelto dellYpg.
I tre ragazzi sono ripresi
in Siria mentre combattono o attendono lo scontro sulle loro brandine
oppure a casa, mentre continuano la lotta manifestando e chiedendo,
tra una missione e l'altra, all'Europa e all'America del nord un
appoggio senza ipocrisie dell'unica forza laica e democratica che si
sta battendo inquesto momento anche contro i sunniti turco-sauditi e
il governo dispotico dello sciita Assad.
* * *
Sara Serraiocco in "La ragazza del mondo" di Marco Danieli |
C'è qualche problema di
sceneggiatura e di credibilità dei personaggi in questo racconto di
formazione che riesce a non diventare un'ennesima variazione moderna
di Giulietta e Romeo. La ragazza del mondo di Marco
Danieli viene salvato infatti dalla superba recitazione, tutta
muscoli e pelle, di un genio matematico come Giulia (Sara Serraiocco)
e di un burino de Roma come Libero (Michele Riondino), innamorati
senza futuro perché lei è testimone di Geova, e da sempre vive
protetta dalla comunità, fuori dal mondo e dal peccato, oltre ad
essere un'intellettuale, ma segretamente attratta dai muscoli che più
maschi non si può - i piaceri colpevoli sono sempre i più perversi
da praticare - mentre lui è un pregiudicato che non legge un libro,
è coinvolto nel traffico di droga pesante, e dunque il mondo e le
sue carceri le conosce fin troppo bene, oltre ad essere è un
individualista drastico e un inguaribile romantico, fedele d'amore
come fosse Dante Alighieri. E mai mettergli i piedi in testa. A costo
di perdere ogni lavoro, lui sfracella ogni testa nemica. Non
provateci.
Sara Serraiocco fa proselitismo per i testimoni di geova in "La ragazza del mondo" |
Personaggi dunque mai
tagliati con l'accetta. Vivi. Chimicamente scorretti. Strani. Anche
grazie alle implacabili musiche di Umberto Smerilli che se non hanno
il gusto dell'asincronismo spiegano anche ai sassi se le situazioni
che vediamo sono malinconiche, struggenti (gli archi cupi),
disperate, allegre, speranzose; e al montaggio, che sembra una
respirazione bocca a bocca quando ha a che fare con riprese macchina
a mano (è di Alessio Franco e Davide Vizzini) e alla fotografia
tonale, ecclesiasticamente gelida e bianco-azzurrognola (di Emanuele
Pasquet) ove necessario ma che sa calibrare ogni fremito interiore
del personaggio con macchie esteriori di colore assoluto di sottile
precisione. La relazione tra Giulia e Libero fa scandalo. Lei subisce
dai sacerdoti un processo maccartista dal sapore medievale. Lui mette
a soqqadro la chiesa e se la porta via. Scomunicata. Vanno a vivere
insieme ma i soldi non ci sono, dal lavoro lui viene cacciato e la
tentazione del guadagno facile ricresce... Il genio della matematica
intanto vince i soliti concorsi scolastici, sostenuta da un prof che
però non è riuscita negli anni a laicizzarla (troppo rispettosa del
copione la recitazione generosa di Lucia Mascino). Cosa ci può
essere di più distante, e dunque di più erotico, in una passione
folle, che mette una genietta capace di risolvere quesiti matematici
complessi semplicemente scoprendo sentieri laterali inesplorati, di
fronte accanto e dentro un bonazzo sexy contro tutto e contro tutti?
Ma uno si chiede. Di che parlano i due? Infatti il crash tra i due
ragazzi sarà così forte e devastante da lasciarli nuovamente ko e
per terra, soli, quasi tramortiti, lui abbandonato anche dalla gang
perché si fa una scorpacciata di coca che neanche Al Pacino in
Scarface, e lei espulsa con disonore dalla famiglia pia e dalla
chiesa comune (guidata da un Pippo Delbono intensamente ispirato e
quasi spiritualmente credibile). Visto che essere genii in Italia non
rende quattrini Giulia dovrà cercare la sua strada più verso
l'estero che verso un “individualismo democratico”. Intanto
solidarizza con una ragazza, espulsa anche lei dalla congrega. Una
relazione senza futuro? Per non cadere nei luoghi comuni che
criminalizzano le chiese non cattoliche trattandole da pericolose
sette succhiacervello, Marco Danieli (e Antonio Manca,
cosceneggiatore) danno dei Testimoni di Geova un ritratto più
oggettivo e rispettoso che simpatizzante (processo compreso), senza
neppure calcare la mano sulle qualità (il pacifismo e l'obiezione di
coscienza) e i difetti teologici che si conoscono. In particolare
suona piuttosto grottesca la scena in famiglia quando a Giulia la
mamma credente e praticante elenca tutti i medici cui può accedere.
Come se niente fosse. Come se non fosse vero il luogo comune che nega
la possibilità delle trasfusioni di sangue a Testimoni di Geova e
dunque di un controllo ferreo dei medici da parte della Chiesa. Con
tutte le polemiche stampa che conosciamo.
Sara Serraiocco |
Nessun commento:
Posta un commento